Ralph Vaughan Williams: Three Shakespeare Songs
in CHORALITER (Rivista della FENIARCO), n.70, Maggio, 2023
in CHORALITER (Rivista della FENIARCO), n.70, Maggio, 2023
in CHORALITER (Rivista della FENIARCO), n.69, Gennaio, 2023
in CHORALITER (Rivista della FENIARCO), n.68, Settembre, 2022
in CHORALITER (Rivista della FENIARCO), n.67, Maggio, 2022
Le ultime pagine della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi sono travolgenti.
Come se non bastasse tutto quello che si è ascoltato prima, Verdi concentra nei due minuti conclusivi una fantasmagoria di immagini sonore estreme, che superano i limiti dell’immaginazione.
Ogni volta che ascolto questo passaggio, provo la sconvolgente sensazione di intravedere per un attimo quello che c’è dall’altra parte.
Quel do acuto del soprano solo squarcia il limite, come se fendesse il velo che separa la vita dalla morte.
Una musica che rapidamente porta allo sgomento, che trascina alla visione dell’oltretomba. Quindi, con altrettanta stringatezza, riporta alla dimensione terrena, e si spegne in una sublime salmodia.
Aveva ragione il vecchio direttore del mio Conservatorio: «Alla fine, il Beppino mette tutti nel sacco!»
Recentemente, ho assistito a un concerto di musica da camera in una sala prestigiosa.
Ingresso gratuito, pubblico non particolarmente numeroso.
In programma musiche di piacevole ascolto. Anzi, due capolavori: il Quintetto per pianoforte di Schumann e quello Op. 81 di Dvořák. Esecuzione ben curata e coinvolgente.
E, all’uscita, una sorpresa!
Gli stessi musicisti hanno omaggiato gli ascoltatori con alcuni gadget: borse in tela, mini block notes, chiavette usb con la registrazione dei brani eseguiti in concerto.
Che gesto carino! Dopo avere ascoltato gratuitamente della buona musica, mi sono portato a casa dei regali.
Ma, ripensandoci, non dovrebbe essere così.
Le cose, ormai, vanno alla rovescia: si spende per acquistare la disponibilità a farsi ascoltare.
Ho assistito a uno spettacolo di Ute Lemper e ho maturato questa impressione.
Ci sono cantanti – forse, sarebbe meglio definirli artisti – che hanno il potere di amalgamare e omologare canzoni che, in origine, presentano caratteri stilistici, espressivi e di contenuto molto diversificati.
Ora – senza nulla togliere ai meriti della performer tedesca – non mi convince del tutto un approccio che, sul piano vocale, scenico e degli arrangiamenti musicali, mischia Weill, musica klezmer, motivi di Broadway, chansons francesi e Bob Dylan in un piatto, in cui prevale un’unico – seppur originale – gusto interpretativo.
Ripeto, non è mia intenzione sminuire Lemper – si potrebbero citare altri casi analoghi di cantanti-artisti che imboccano sempre strade “a senso unico” – ma, francamente, auspicare la differenziazione interpretativa, quando gli autori e i generi sono vari, lo ritengo ragionevole. Un presupposto che, di sicuro, mette al sicuro da “tirate soporifere”.
Sono propenso a preferire i cani per la loro inclinazione alla socialità, fondata sulle relazioni empatiche. Ma non nego di subire anche il notevole fascino dei gatti: la loro intelligenza e astuzia, la loro grazia e agilità, il mistero che avvolge il loro essere “navigatori” – per antica credenza – tra la dimensione dei vivi e quella dei morti.
Ragion per cui, a casa, non sono mai mancati cani e gatti.
I gatti sono spesso stati rappresentati in musica: Scarlatti, Schumann, Rossini, Saint-Saëns, Ravel, Stravinsky… Nel mio piccolo, anch’io mi sono lasciato sedurre.
Ho fatto due conti. Ho composto sette pezzi sui gatti.
Si dice che i gatti abbiano sette vite, no? Eccole quindi!
Sia ben inteso: non sono un esperto di questo genere di musica, ma vorrei ugualmente lasciare un pensiero sui Beatles.
Non mi appassiona la loro prima maniera (quella in puro stile rock & roll), né mi entusiasmano le sperimentazioni di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Ma trovo straordinaria We Can Work It Out – una canzone del periodo di mezzo (1965): un emblema della loro indole musicale.
Perché?
Di We Can Work It Out mi attrae la sorprendente convergenza di elementi di per sé contrastanti e di natura differente.
Il suono è immediatamente insolito: come l’irrompere di una rock band in sagrestia. È l’effetto di un harmonium mischiato a voci, chitarre, tamburello e batteria. Come uno sciacquone, questo inopinato strumento rovescia antiche ondate sonore in un contesto di musica beat. Ingegnoso!
Nella parte centrale, quindi, c’è un anticonvenzionale scarto ritmico. Un taglio netto ottenuto con un tempo di “valzer tedesco” (questa, a quanto pare, la definizione di George Harrison per le terzine di semiminime). Una figura di contrasto musicale, uno stop al vorticoso ed energico scorrere di crome e semicrome, un riferimento al diverbio di cui si parla nel testo letterario. Nel contempo, l’harmonium non molla: disegna nel basso il tetracordo del modo frigio, mentre la mano destra stacca gli accordi, come l’aria di un valzerino che esce da un organetto di Barberia, o dell’Esercito della Salvezza.
Insomma, il bello dei Beatles è il loro istintivo fiuto per l’originalità nel montaggio delle canzoni, per il buon gusto nelle commistioni.
I Beatles sono riusciti a superare gli standard con “trovate” di qualità, ma senza eccedere nella misura, senza scadere nell’eccentrico gratuito e volgare.