PolifonicoMonteforte
… vuardant li stelis spierdudis …
Progetto realizzato nel 2007 dal PolifonicoMonteforte e dedicato al tema della Notte. | |
Alla seraIn plaghe remote mi volgo alla sacra, ineffabile, arcana notte. |
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La notte è l’infinito che si contrappone al finito. In essa si immerge l’io dei poeti nell’anelito di superare i limiti mortali di spazio e tempo, di valicare la soglia tra mondo visibile ed invisibile, di oltrepassare la realtà per approdare alla sfera dell’immaginazione assoluta. Ma le visioni notturne a volte sfuggono alla razionalità della parola. Il poeta definisce la notte “ineffabile”. Ecco, dunque, viene in soccorso la musica. La musica, a-semantica per natura, non sa dirci nulla di ciò che si può comunicare con il linguaggio comune; ma è la via d’accesso a quelle verità che sono più profonde (l’Idea, lo Spirito, l’Infinito) e che la parola – sia pur poetica – non riesce a spiegare. Attraverso la musica “si è trasportati in una sfera di idee più elevate, si sente nel proprio intimo realizzata la vita sublime sognata dai poeti” (Berlioz). Una concezione cara all’estetica romantica, sta all’origine di questo progetto. La notte, infatti, esalta i caratteri della regina delle arti (la musica, appunto, per i filosofi romantici), la più lontana dalla corporeità e la più vicina al puro movimento dei mondi inaccessibili, l’unica in grado di esprimere l’in sé del mondo, di rappresentare la pura volontà (Schopenauer), di esprimere quel punto limite del sentire umano, a cui tendono tutte le arti ed in particolare la poesia. Tutto ciò in quanto la musica trae la sua forza dall’Urklang (il suono primordiale, rievocato all’inizio, al termine e – a parole – a metà del programma); quella misteriosa origine acustica che mette l’animo in sintonia con il tutto, che fa provare un brivido dell’aldilà, che si manifesta come voce dell’universo, come canto primigenio dell’umanità intera. Di notte, quindi, s’incontrano poesia e musica; e di notte l’ispirazione apollinea della poesia finisce col parlare il linguaggio di Dioniso (Nietzsche). |
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ALLA SERA di Ugo Foscolo Forse perché della fatal quiete tu sei l’immago a me sì cara vieni o Sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zefiri sereni, e quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all’universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. |
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Dormono le cime dei monti |
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Ci sono alcuni punti di contatto tra l’opera di Salvatore Quasimodo e la musica. Innanzitutto, un particolare biografico. Nel 1941 egli venne nominato, per chiara fama, professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica “G. Verdi” di Milano , incarico che mantenne fino alla fine del 1968. In secondo luogo, la frequenza con la quale molti musicisti hanno attinto dai suoi testi. In particolare dalle traduzioni che egli fece dei Lirici greci. «Nel 1940 esce per i tipi di Corrente il volume Lirici greci di Salvatore Quasimodo. L’opera suscita subito un ampio dibattito che vede contrapposti quanti criticano l’eccessiva libertà delle traduzioni del poeta e quanti invece ne apprezzano la resa moderna, più vicina allo spirito del tempo. Decisivo è il saggio introduttivo di Luciano Anceschi, che coglie il legame tra i modi dell’ermetismo cui aderiscono le traduzioni e un nuovo ideale di classicità, privo dell’enfasi e della retorica che avevano caratterizzato le precedenti trasposizioni. La discussione in àmbito letterario ha una vasta eco in campo musicale, come mostrano le ben quattordici intonazioni dei testi, nel ventennio 1940-60, ad opera di Goffredo Petrassi, Luigi Dallapiccola, Sebastiano Caltabiano, Carlo Prosperi, Sylvano Bussotti, Luciano Berio, Bruno Maderna, Luigi Nono, Luciano Chailly e Ugalberto de Angelis». Queste parole sono tratte da Scalfaro, Anna (2007) I Lirici greci di Quasimodo: un ventennio di recezione musicale. L’intero studio si può scaricare da qui. |
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DORMONO LE CIME DEI MONTI (trad. di Salvatore Quasimodo, da ALCMANE) Dormono le cime dei monti e le vallate intorno, i declivi e i burroni; dormono i rettili, quanti nella specie la nera terra alleva, le fiere di selva, le varie forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare; dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali. partitura: Dormono le cime dei monti |
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Era notte |
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«Ah le serenate a li tempi mii che ccose bbelle! Si cchiudo l’occhi, me pare incora adesso de vedelle e dde sentille. Le strade staveno guasi a lo scuro: perchè allora li lampioni ereno rari come le mosche bbianche, speciarmente pe’ la Regola, pe’ li Monti e ppe’ Ttrestevere. A quanto se sentiva in de la silenziosità de la notte una bbella voce che ccantava una tarantella accompagnata dar calascione o ddar mandolino. Si la serenata era fatta da quarche ggiovinotto che stava in collera co’ la su’ regazza, e questa, a ssentillo a ccantà’, s’inteneriva e upriva la finestra pe’ ssalutallo, la pace era fatta co’ li lanternoni!» (da Giggi Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, 1908). |
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ERA NOTTE di Luigi Zanazzo Era notte. Una notte tanto bella con un celo e una luna che incantava. E io stavo a vardà na finestrella, che luccicava tanto, luccicava. E vedevo apparì na capoccella che arzava la tennina, se n’annava, poi ritornava indietro e s’affissava coll’occhi fissi come su na stella. Allora io je cantai: «Fior de fortuna: io spasimo pe voi, ciò er core in pena e voi ve state a contemprà la luna». S’uprì la finestrella adacio adacio e in quer silenzio, appena appena appena, m’intesi fa un sospiro e mannà un bacio. partitura: Era notte |
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Il gelsomino notturno |
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Mi colpisce questa immagine che ritrae insieme Giovanni Pascoli e Giacomo Puccini. Risale al 1908, allorché Puccini accompagnò un amico giornalista a Castelvecchio, per un’intervista a Pascoli, da pubblicare sul Corriere della Sera. Sembra che sia stato l’ultimo incontro tra il poeta e il compositore. Nella foto Puccini appare molto elegante, mentre Pascoli, vestito di bianco, indossa un abito più “alla buona”. L’immagine non piacque molto al poeta, al punto che chiese a Puccini di stracciare «quella spettrale fottografia (sic!)». Insomma Pascoli e Puccini si conoscevano e si sono incontrati più di una volta, ma viene da chiedersi per quale motivo tra i due non si arrivò mai ad una collaborazione. Eppure, non è raro imbattersi in considerazioni di critici che paragonano e accostano il mondo poetico dei due artisti. «… un parallelo fra Pascoli e Puccini trova ragione: la trova sul terreno delle soluzioni espressive. Se osservate il modo in cui gli accenti del verso nelle strofe pascoliane sono emancipati dall’accentuazione tradizionale della poesia italiana, la sintonia con Puccini si fa chiara. La novità di Puccini, dal punto di vista linguistico, è il prosciugamento della vocalità Puccini riesce a far cantare una sola nota … Anche Pascoli emancipa il proprio linguaggio dal linguaggio usato dalla poesia lirica, costruisce strofe senza soluzione e respiro». Sono parole di Enzo Siciliano, il quale riporta pure il punto di vista, alquanto caustico, di Sanguineti: «… entrambi, Pascoli e Puccini, metterebbero in azione macchinette sadiche, “macchinette liriche per lacrime, ad usum infantis”, non inefficaci anche sugli adulti. Quel critico, Edoardo Sanguineti, avrebbe voluto liquidare, perché facevano impiccio alle sue tesi, tanto Myricae quanto Bohème (hélas!)» (Enzo Siciliano, Puccini, Milano, 1976). |
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IL GELSOMINO NOTTURNO di G. Pascoli E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso a’ miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari. Da un pezzo si tacquero i gridi: là sola una casa bisbiglia. Sotto l’ali dormono i nidi, come gli occhi sotto le ciglia. Dai calici aperti si esala l’odore di fragole rosse. Splende un lume là nella sala. Nasce l’erba sopra le fosse. Un’ape tardiva sussurra trovando già prese le celle. La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolio di stelle. Per tutta la notte s’esala l’odore che passa col vento. Passa il lume su per la scala; brilla al primo piano: s’è spento . . . E’ l’alba: si chiudono i petali un poco gualciti; si cova, dentro l’urna molle e segreta, non so che felicità nuova. |
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La notte del Signore |
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Padre David Maria Turoldo venne al mio paese sul finire degli anni Settanta per una conferenza. Ero un ragazzino, ma ho conservato un vivo ricordo di quella serata. Ho faticato a seguire il discorso, ma sono stato impressionato dalla sua smisurata autorevolezza, dalla gravità della sua figura, dal calore della voce, dall’intensità dello sguardo, dall’eloquenza dei gesti. Da allora collego l’idea di profeta alla persona di Turoldo. | |
da “LA NOTTE DEL SIGNORE” di David Maria Turoldo Perfino gli olivi piangevano quella Notte, e le pietre erano più pallide e immobili, l’aria tremava tra ramo e ramo quella Notte. E dicevi: “Padre, se è possibile…”. Così da questa ringhiera quale un reticolato da campo di concentramento, iniziava la tua Notte. Si è levata la più densa Notte sul mondo: tra questa e l’altra preghiera estrema: “Perché, perché… ma perché, mio Dio…” Notte senza lume: disperata tua e nostra Notte. “Perché…?” |
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La notte bella |
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«Sono d’Alessandria d’Egitto: altri luoghi d’Oriente possono avere le mille notti e una, Alessandria ha il deserto, ha la notte, ha il nulla, ha i miraggi, la nudità immaginaria che innamora perdutamente e fa cantare a quel modo senza voce che ho detto. … Ci sono due elementi della mia prima infanzia, anzi, gli elementi sono tre, e presto verranno a sorprendermi in senso d’ispirazione poetica. Innanzi tutto , la notte, la notte e il suo traffico: voci di guardiani notturni: si rincorrevano, venivano, s’allontanavano: Uahed!…, ritornavano Uahed!…, ogni quarto d’ora, rifatto il giro intorno al mio orecchio infantile. Era il primo percepire dell’infinito, d’un infinito cerchio, come già gli antichi Egiziani usavano rappresentarlo nel mordersi la coda di un serpente.» (G. Ungaretti, da Note del poeta sulla sua vita e sulla sua poesia)
… NOTTE DI MAGGIO Il cielo pone in capo |
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LA NOTTE BELLA Devetachi il 24 agosto 1916 Quale canto s’è levato stanotte che intesse di cristallina eco del cuore le stelle Quale festa sorgiva di cuore a nozze Sono stato uno stagno di buio Ora mordo come un bambino la mammella lo spazio Ora sono ubriaco d’universo. (Giuseppe Ungaretti, da L’Allegria) |
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Notturno |
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Una vita movimentata quella del poliedrico Alberto Tarchiani. Poeta crepuscolare. Emigrò negli negli Stati Uniti, dopo lo scioglimento del gruppo di giovani artisti ed intellettuali che si era radunato attorno alla figura di Sergio Corazzini, prematuramente scomparso nel frattempo («Nulla rimaneva per me, se non l’esodo. E così fu»). Rientrato dall’America come volontario, fu combattente nella Grande Guerra. Poi, divenne redattore capo al Corriere della Sera. Ma di nuovo fu costretto a rifugiarsi all’estero, a causa della diaspora degli antifascisti. Ritornò ancora in Italia, al seguito dell’esercito di liberazione anglo-americano. Eccolo, infine (a destra in questa foto), ambasciatore negli Stati Uniti, al fianco di George Marshall (quello del celebre piano di aiuto economico che ci risollevò dalle rovine della guerra). Uomini d’altri tempi! |
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NOTTURNO di Alberto Tarchiani Brulichio d’astri, tepido gorgoglio, filtro di fuochi tremulo sul mare; voce che chiama, ombra che scompare; passi sul greto e passi sul trifoglio. Timida mano esangue, timida senza orgoglio, muove la cuna dell’infante. Rare, alla spiaggia, barche, in terra, bare, (un grave libro nel silenzio sfoglio) dormon tranquille. S’ode l’oscillare dell’universo, d’onda in onda. E viene, dalle navi lontane e d’oltremare folto uno stormo di messaggi. Pare (vela del mondo!) che si gonfi il cielo, pel mio folle desìo di navigare. |
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Pianefforte ‘e notte |
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Tre incroci di poeti. Salvatore Di Giacomo dal 1893 ricoprì l’incarico di bibliotecario presso la Biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Maiella di Napoli. Salvatore Quasimodo fu professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica “G. Verdi” di Milano. Salvatore Di Giacomo aderì al Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925. Tra i firmatari del Manifesto figurava anche Giuseppe Ungaretti. Salvatore Di Giacomo scrisse una poesia dal titolo Voce d’ammore antiche.Pier Paolo Pasolini ne fece una versione in italiano. Eccone l’ultima strofa. […] Vienetenne cu mmico chiano chiano, malincunia, ca maie nun m’abbandune; j’ammuncenno p’ ‘a strata a mano a mano, e nun guardammo maie nfaccia a nisciuno. Ca si quaccuno vo’ sapé che ppene mme porto appriesso a me sera e matina, nun di’, nun di’ ca nun me vo’ cchiù bene… E rispunne: Se sente poco buono… […] Vieni con me piano piano, malinconia, che mai non mi abbandoni; andiamocene per la strada a mano a mano, e non guardiamo mai in faccia nessuno. Che se qualcuno vuol sapere che pene mi porto appresso sera e mattina, non dire, non dire che non mi ami più… E rispondi: non si sente bene… |
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PIANEFFORTE ‘E NOTTE di Salvatore Di Giacomo Nu pianefforte ‘e notte sona luntanamente, e ‘a museca se sente pe ll’aria suspirà. E’ ll’una dorme ‘o vico ncopp’ a sta nonna nonna ‘e nu mutivo antico ‘e tanto tiempo fa. Dio, quanta stelle ncielo! Che luna! E c’aria doce! Quanto na bella voce vurria sentì cantà! Ma sulitario e lento moro ‘o motivo antico; se fa cchi˘ cupo ‘o vico dint’ a ll’oscurità. Ll’anema mia surtanto rummane a sta fenesta. Aspetta ancora. E resta, ncantannose, a penzà. [Un pianoforte, di notte, suona in lontananza, e la musica si sente sospirare per l’aria. E’ l’una: dorme il vicolo su questa ninna nanna di un motivo antico, di tanto tempo fa. Dio, quante stelle in cielo! Che luna! E che aria dolce! Quanto una bella voce vorrei sentir cantare! Ma solitario e lento muore il motivo antico; si fa più buio il vicolo nell’oscurità. Solo la mia anima rimane a questa finestra. Aspetta ancora. E resta, sognando, a pemsare.] partitura: Pianefforte ‘e notte |
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La notte di San Giovanni |
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«… Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un’esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra. Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria, sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini. Ci sono andato da solo, anche se queste cose per renderle meno patetiche bisognerebbe farle in compagnia. In banda. Un gruppo di fedeli lettori, una fidanzata. Ma io ostinatamente sono andato da solo. Casarsa un bel posto, uno di quei posti dove ti viene facile pensare a qualcuno che voglia campare di scrittura, e invece ti è difficile pensare a qualcuno che se ne va dal paese per scendere più giù, oltre la linea dell’inferno. Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. Pier Paolo Pasolini. Il nome uno e trino, come diceva Caproni, non è il mio santino laico, né un Cristo letterario. Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell’architettura dell’autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l’affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura. Presi il treno da Napoli per Pordenone, un treno lentissimo dal nome assai eloquente sulla distanza che doveva percorrere: Marco Polo. Una distanza enorme sembra separare il Friuli dalla Campania. Partito alle otto meno dieci arrivai in Friuli alle sette e venti del giorno dopo, attraversando una notte freddissima che non mi diede tregua per dormire neanche un po’. Da Pordenone con un bus arrivai a Casarsa e scesi camminando a testa bassa come chi sa già dove andare e la strada può anche riconoscerla guardandosi la punta delle scarpe. Mi persi, ovviamente. Ma dopo aver vagato inutilmente riuscii a raggiungere via Valvasone, il cimitero dove sepolto Pasolini e tutta la sua famiglia. Sulla sinistra, poco dopo l’ingresso, c’era un’aiuola di terra nuda. Mi avvicinai a questo quadrato con al centro due lastre di marmo bianco, piccole, e vidi la tomba. “Pier Paolo Pasolini (1922-1975).” Al fianco, poco più in là, quella della madre. Mi sembrò d’essere meno solo, e là iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai a articolare il mio io so, l’io so del mio tempo». (Roberto Saviano, da Gomorra). |
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LA NOTTE DI SAN GIOVANNI [di Pier Paolo Pasolini, da “Poesie disperse e inedite”] Li fantatis a van crotis ta l’ort, la luna di San Zuan a li monda. Sot dal milussar a si pognin crotis vuardant li stelis spierdudis e il nul. Mondini, rosada di San Zuan! a ciantussèin plan plan li fantatis pognetis sot dal milussar neri neri: la Cuarnussa, la Piela, la Batistona. Se bielis ches fantatis, ches stroligutis! Il grin dut mol di rosada al brila coma la nèif, a la luna di Zùin. Intant i fantàs a ciantin… ju par un mond lontàn. [Le ragazze vanno nude nell’orto. La luna di San Giovanni le monda. Sotto il melo si distendono nude, guardando le stelle sperdute e il nuvolo. Mondaci, rugiada di San Giovanni!, canterellano pian piano le ragazze, distese sotto il melo nero nero: la Cuarnussa, la Piela, la Batistona. Che belle quelle ragazze, quelle strologucce! Il grembo tutto molle di rugiada brilla come la neve, sotto la luna di Giugno. Intanto i giovani cantano… giù per un mondo lontano.] |
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Vecchio frack |
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Il progetto sul tema della notte si chiude con la canzone dell’uomo in frack, che, solitario, percorre le strade deserte, prima di andare incontro al suo tragico destino. «Come lo stesso Modugno ha raccontato più volte, questa canzone [pubblicata nel 1955] è ispirata alla vicenda del principe Raimondo Lanza di Trabia (marito dell’attrice Olga Villi) che, all’età di trent’anni, nel novembre del 1954 si era suicidato, gettandosi dalla finestra del suo palazzo in via Sistina a Roma. […] Il cantautore con questo brano ebbe i primi problemi con la censura per il verso «Adieu, adieu, adieu, addio al mondo, ai ricordi del passato, ad un sogno mai sognato, ad un attimo d’amore che mai più ritornerà» e che fu trasformato in«ad un abito da sposa primo ed ultimo suo amor» poiché la commissione di censura sosteneva che parole che alludessero a contatti fisici erano da considerarsi immorali. Nelle versioni successive Modugno cantò sempre la versione originale. Inoltre in uno dei primi versi all’inizio della canzone la versione originale era «chi mai sarà quell’uomo in frack», poi trasformata in «di chi sarà quel vecchio frack»per dissimulare il tema del suicidio, evitando di sottolineare il contrasto tra l’uomo in frack e il vecchio frack che galleggia da solo sotto i ponti nel finale della canzone» (da Wikipedia). Del testo di questa canzone mi ha sempre colpito la sinestesia del primo verso: «si spengono i rumori». |
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VECCHIO FRACK di Domenico Modugno E’ giunta mezzanotte si spengono i rumori si spegne anche l’insegna di quel’ultimo caffè le strade son deserte desterte e silenzione, un’ultima carrozza cigolando se ne và. Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti la luna slende in cielo dorme tutta la città solo và un’uomo in frack. Ha il cilindro per cappello due diamanti per gemelli un bastone di cristallo la gardenia nell’occhiello e sul candido gilet un papillon, un papillon di seta blu s’avvicina lentamente con incedere elegante ha l’aspetto trasognato malinconico ed assente non si sa da dove vien ne dove và chi mai sarà quel’uomo in frack. buon nuite bonne nuite buon nuite bonne nuite Bouna notte va dicendo ad ogni cosa ai fanali illuminati ad un gatto innamorato che randagio se ne va. E’ giunta ormai l’aurora si spengono i fanali si sveglia a poco a poco tutta quanta la città la luna s’è incantata sorpresa ed impallidita pian piano scolorandosi nel cielo sparirà sbadiglia una finestra sul fiume silenzioso e nella luce bianga galleggiando se ne van un cilindro un fiore e un frack. Galleggiando dolcemente e lasciandosi cullare se ne scende lentamente sotto i ponti verso il mare verso il mare se ne và chi mai sarà, chi mai sarà quell’uomo in frack. Adieu adieu adieu adieu addio al mondo ai ricordi del passato ad un sogno mai sognato ad un’attimo d’amore che mai più ritornerà. Lala la la lala la la… partitura: Vecchio frack |
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mauro zuccante – 2009-08-19 |