Sandro Bergamo – intervista

SBergamo2M. Zuccante: Sandro, iniziamo questo nostro colloquio con una riflessione sull’attualità. La crisi economica si porta dietro i drastici tagli ai finanziamenti pubblici e privati nel settore delle attività culturali. Questa deriva si avverte in modo sensibile in Italia. In una nazione in cui, già da tempo, sono messe a disposizione scarse risorse per l’ambito culturale. Ritieni che i tempi bui stiano passando, o il peggio – l’azzeramento cioè dei finanziamenti stessi – debba ancora arrivare?

S. Bergamo: Il vero rischio non sta nella crisi economica, ma nella mentalità dei cittadini e dei governanti che questi eleggono. La cultura è considerata un lusso per tempi di vacche grasse, da tagliare quando queste diventano magre. Non c’è l’idea che proprio da una popolazione colta e da persone colte possono scaturire le idee che ci facciano uscire dalla crisi. E non sto parlando di conoscenze tecnologiche: sto parlando di cultura, compresa e in testa la formazione umanistica e la sensibilità artistica. Sono queste a dare l’apertura mentale, l’elasticità, la fantasia necessaria ad elaborare soluzioni nuove per problemi inediti. A confermarlo, è il manifesto per la cultura pubblicato nel febbraio 2012 dal Sole 24 ore, quotidiano di Confindustria. Quando poi sento dire (anche da personaggi che stimavo, e sottolineo ‘stimavo’, come Baricco) che la cultura deve reggersi sulle proprie forze economiche (sui biglietti, insomma, per quanto riguarda ogni forma di spettacolo) capisco che siamo di fronte a un fenomeno di ‘non conoscenza’, per usare un eufemismo. Baricco evidentemente ignoscit che non solo il mecenatismo (talvolta realizzato sotto forma di incarichi, con stipendio a carico dello stato, che lasciavano molto tempo libero: Ariosto governatore di Garfagnana piuttosto che le mansioni amministrative di Goethe) è stato alla base della produzione artistica in ogni ambito, ma che la forma musicale commerciale per eccellenza, il melodramma, quando non era sovvenzionato, racconta una storia di clamorose bancarotte da parte degli impresari teatrali.

M. Zuccante: Nei momenti storici caratterizzati da forti aneliti ed aspirazioni collettive, il canto corale è stato un veicolo ideale attraverso cui si è potuta esprimere la vox multitudinis. Attualmente – mi riferisco in particolare alla situazione italiana – partecipazione e condivisione non occupano i primi posti nella scala di valori delle persone. Credi che questo fatto si rifletta anche in una crisi del canto corale, il quale corre il rischio di appiattirsi in espressioni di maniera, o di isolarsi in manifestazioni di accademismo?

S. Bergamo: La storia e la sociologia della musica mostrano che dove esistono società con un’identità e un senso di appartenenza forte, il coro prospera, mentre stenta dove la società è frammentata. La divisione, culturale prima che politica, dell’Italia, e la mentalità individualista degli italiani hanno lavorato contro il canto corale e la creatività musicale si è espressa altrove. Tuttavia credo che oggi i rischi di appiattimento stiano più nella generale tendenza della civiltà di massa all’omologazione (con conseguenti reazioni di chi si chiude in un orgoglioso isolamento: personalmente rischio più di scivolare da questa parte) che non in ragioni sociali e politiche. Trovo anzi che il movimento corale italiano dimostri più vitalità oggi che per il passato, quando le buone notizie giungevano solo da poche isolate punte di eccellenza. E questo è un dato incoraggiante, nel suo andare controtendenza, per tutto il Paese. Paragono spesso il coro a quelle rose che si usa piantare in capo ai filari dei vigneti, nella convinzione, forse scientificamente errata, che la loro ipersensibilità ai parassiti segnali la malattia prima che si manifesti in forma irreparabile nelle viti. La vigna d’Italia è malata, ma la rosa del coro è sana e questo fa ben sperare.

M. Zuccante: Anche la Chiesa cattolica stenta oggi a mantenere vivo tra i suoi fedeli il sentimento di comunità. Di conseguenza la viva pratica del canto comunitario, attorno alla quale si sono raccolte per secoli le comunità cristiane, ha perduto la sua ragion d’essere. Il canto gregoriano viene oggi conservato in virtù di oggetto museale d’élite, o evocato come tinta (condimento) arcaicizzante. Sei d’accordo?

S. Bergamo: La crisi del canto liturgico è indubbia ed è crisi della Liturgia stessa, che ha rinnovato le sue forme, dopo il Concilio, in modo confuso e contraddittorio. La stessa Sacrosantum Concilium, il documento conciliare sulla Liturgia, riflette una situazione transitoria e offre interpretazioni a sostegno di tutte le cause. Ci dibattiamo in un mondo di credenti indifferenti all’estetica della Liturgia, sacerdoti impreparati sul fronte musicale, musicisti indifferenti alle ragioni della Liturgia, spesso perché non coinvolti a livello personale nella fede che dovrebbero cantare. Si inseguono modelli teorici, per esempio in merito alla partecipazione dei fedeli, che non tengono conto della realtà in cui viviamo, dove, ad esempio, il canto non è più competenza diffusa e generale e non si capisce quindi come i fedeli possano fare in chiesa ciò che non sanno fare fuori.

M. Zuccante: Il canto gregoriano è considerato la linfa vitale che ha per secoli alimentato gli elementi costitutivi (formali e melodici) della musica liturgica. Può essere che l’abbandono della pratica del canto gregoriano abbia, di fatto, causato il rinsecchimento della vena che ispira la produzione contemporanea di musica liturgica?

S. Bergamo: C’è sempre stato dialogo fecondo tra musica sacra e musica profana, con reciproca influenza. I canti trovadorici hanno strutture mutuate dal gregoriano, le laudi si cantavano su melodie profane, sostituendovi il testo, tra mottetto e madrigale non si coglie differenza, se non nella stagione tarda di Gesualdo e della seconda pratica monteverdiana, e non per tutti gli autori. Possono lasciare oggi perplessi certe composizioni organistiche di padre Davide da Bergamo o altri autori coevi che trasferiscono quasi senza mediazione lo stile dei melodrammi rossiniani o verdiani su strumenti dai caratteri ‘bandistici’, ma si conserva un livello di competenza e di gusto, sia pure datato, valido. Il problema è l’abbandono di un linguaggio del passato, ma il tipo di musica ‘profana’ con cui si deve confrontare quella sacra. Il rischio della chiusura accademica o dell’appiattimento cui accennavi prima, si manifesta in pieno, tra modelli scolastici superati (spesso nemmeno aggiornati: so di compositori giovani e freschi di studio che hanno scoperto sul campo, al rifiuto del parroco, che Sanctus e Benedictus costituiscono oggi un’unica preghiera e vanno quindi cantati di seguito, quali parti di un’unica composizione) e modelli canzonettistici che, assunti acriticamente e da improvvisati strimpellatori, danno esiti privi di valori estetici.

M. Zuccante: Con la fine dell’eurocentrismo assistiamo al declino di valori plurisecolari. La Weltanschauung europea, che ha retto in passato all’urto di altre civiltà, non sembra più essere in grado di rispondere alle aspirazioni dell’uomo. Pensi che anche il destino del canto corale nella sua impostazione polifonica classica – espressione artistica connaturata con la storia musicale occidentale – sia segnato? Ritieni che stili e linguaggi elaborati altrove siano sul punto di sopravanzare la nostra tradizione?

S. Bergamo: Mi piace ricordare un passo di Max Weber, quasi in chiusura de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo che identifica in alcuni elementi musicali (la struttura dell’orchestra, l’armonia basata sulla triade…) i dati identificativi e distintivi della civiltà europea. E’ ovvio che la crisi della civiltà europea diventi anche trasformazione degli elementi culturali che ne erano alla base. Si tratta di capire se prenderemo la strada che ci porti a costruire il domani sulla base dell’immenso patrimonio ereditato o se ci faremo invadere da patologie spirituali esogene: se ripeteremo l’operazione che all’inizio dell’era volgare portò a fondere nel cristianesimo la vecchia cultura greco-romana e il nuovo mondo barbarico dando origine al nostro medioevo o se, stavolta, saranno i culti mitraici a plasmare il futuro orizzonte. La musica, anche quella corale, cambierà, sebbene non sia dato sapere come. Spero solo non avvenga di essa quello che vedo accadere della lingua, portata ad appiattirsi su un inglese (forse meglio: americano), che non mi pare sia quello di Shakespeare e nemmeno di Joyce. Non conoscendo l’inglese e non praticando la musica commerciale mi vedrei immerso in una vecchiaia di totale isolamento.

M. Zuccante: Ti conosco da tempo, Sandro, e mi sento di affermare che sei una persona che crede nel compito di educare il gusto comune. Ti adoperi affinché ciascuno possa estendere ed affinare le proprie competenze e sensibilità; ti impegni affinché si diffonda il grado di apprezzamento delle opere della cosiddetta “alta cultura”. Sei convinto che anche nella musica corale si debba fare una distinzione – alquanto manichea, consentimi – tra repertori “alti” e “bassi”? E c’è proprio bisogno di questa premessa pedagogica per accrescere la popolarità dei capolavori della musica colta?

S. Bergamo: Non mi spaventa prendermi la responsabilità di distinguere i valori delle cose, nemmeno in ambito di scelte estetiche. Il soggettivismo non è un dato assoluto, quasi fossimo a tavola, dove è buono ciò che piace. Nemmeno lì, per la verità, è così. Se qualcuno fa seguire, a un sapore forte, uno più blando, precludendosi la possibilità di gustarlo fino in fondo, semplicemente sbaglia l’ordine. E anche Carnacina o Artusi, se mai avranno fatto un’escursione in montagna, si saranno portati un panino confezionato con le loro mani, ma questa non è alta cucina. La soggettività del gusto non può diventare la scusa per negare i valori. Dopodiché so come nella storia della musica dalle forme basse siano nate, in mano ai grandi compositori, i capolavori: penso alle suites barocche, ai valzer e alle polonaises di Chopin… Oggi la musica corale deve inevitabilmente confrontarsi con pratiche e stili, compositivi e vocali, maturati altrove: l’importante è che lo facciano musicisti attrezzati nella tecnica e nel buon gusto e che lo accolgano coristi preparati culturalmente e musicalmente.

M. Zuccante: Si è da poco concluso con successo un evento eccezionale, il XVIII Festival di Europa Cantat 2012. Una manifestazione che la Feniarco e la città di Torino hanno avuto l’onore di ospitare. Dal tuo punto di vista ritieni che raduni di questo genere, al di là del loro positivo valore di incontro sociale, promuovano i repertori più originali e creativi, o, al contrario, livellino il canto corale intorno a modelli di facile ed immediata condivisione?

S. Bergamo: E’ inevitabile che manifestazioni della dimensione di Torino diano ampio spazio a fenomeni che rispecchiano il gusto di massa. Ma proprio le dimensioni ‘di massa’ del Festival consentono proposte che in situazioni più contenute non troverebbero adesioni sufficienti. Va dato atto a chi ha curato la programmazione artistica del festival, in primis a Carlo Pavese, di aver garantito sia la qualità dei momenti ‘di massa’ sia l’esaustività della proposta, offrendo occasioni impensabili altrove. Tra quelle che ho vissuto, ne voglio citare tre: la realizzazione delle Laudi di Hermann Suter, con alcuni cori giovanili nazionali (tra cui il CGI) e l’orchestra sinfonica della RAI e la giornata dedicata al gregoriano, iniziata con le Laudi e conclusasi col Vespro, in un itinerario che ci ha accompagnato attraverso diverse chiese torinesi; e, infine, la grande giornata alla Venaria Reale, che ha visto concentrati, in poco spazio e poche ore, decine di concerti con ogni tipo di musica e di organico corale. Penso proprio che a Torino si sia riusciti a ottenere visibilità senza deflettere da una serietà nel proporre i nostri valori culturali.

M. Zuccante: Sei direttore di Choraliter, la rivista ufficiale della Feniarco, l’associazione che si occupa della promozione del canto corale a livello nazionale. Quali sono state le tappe più significative che hanno delineato il percorso (iter) della rivista, sotto la tua direzione? E quali sono le mete che ti proponi di raggiungere in futuro?

S. Bergamo: E’ un percorso condiviso con una redazione divenuta via via, in questi 13 anni, sempre più qualificata, potendo contare sull’aiuto di redattori di grande spessore, tra i quali, Mauro, anche il tuo. Abbiamo cercato di creare una rivista che fosse anzitutto un punto di incontro tra tutti gli attori del canto corale, in primis i compositori e i direttori. Una rivista che invitasse all’approfondimento, scandagliando, attraverso i dossier, vari aspetti della vita corale. La seconda fase, dove la nuova veste grafica esprime anche i nuovi contenuti, si rivolge a un pubblico più largo, attraverso più spazio agli eventi corali, una maggiore attenzione alla coralità di derivazione popolare, l’affiancamento al dossier di altri temi trattati in modo più divulgativo, l’inclusione, una volta l’anno, di un CD. Siamo ancora, tuttavia, una rivista associativa. La meta del futuro resta quella di raggiungere anche il lettore esterno all’associazione, il musicofilo, cui proporre la musica corale a pari dignità con quella strumentale. Choraliter in edicola, insomma: sarebbe, in quest’ambito, il compimento delle finalità di promozione della musica corale che sono la ragione di vita di FENIARCO.

M. Zuccante: Ogni forma di editoria tradizionale si trova oggi a competere con i nuovi media della comunicazione, in particolare con Internet. Sei convinto che la rivista Choraliter, nella sua tradizionale impostazione cartacea, si possa ancora a lungo offrire come alternativa al web, o è giunto anche per essa il momento di aprirsi alle opportunità messe a disposizione dalle nuove tecnologie?

S. Bergamo: Credo che ogni nuova forma di comunicazione si aggiunga a quelle precedenti, senza eliminarle. In questo modo le nostre possibilità di accrescono. Ovviamente la forma determina anche i contenuti. Fin dall’inizio abbiamo escluso che Choraliter, anche in considerazione della sua periodicità, potesse essere strumento di informazione cronachistica: il suo ruolo di strumento di approfondimento, con articoli che durano nel tempo, giustifica ancora, almeno per ora, la forma cartacea. Si potrà piuttosto interagire col web: già ora si è iniziato a caricare sul sito di Feniarco alcune cose che avrebbero occupato troppo spazio sulla carta, come il catalogo completo delle opere di alcuni compositori particolarmente prolifici di cui abbiamo trattato nelle nostre pagine. Questo apre altri spazi di interazione, caricando, tanto per fare un esempio, i files sonori in relazione ai brani di cui si parla nelle pagine della rivista. Potrebbe esser il momento di trasferire sul web il magazine Italiacori.it: ma dobbiamo essere consapevoli che non basta pubblicare in forma digitale ciò che prima era cartaceo, ma si deve cambiare modo: l’informazione on-line non può essere aggiornata quadrimestralmente come quella cartacea.

M. Zuccante: Infine, due parole sul Friuli Venezia Giulia, la tua regione. In Friuli esiste una lunga e diffusa tradizione di musica corale. In particolare il filo conduttore che unisce le figure di Antonio Illersberg, Luigi Dallapiccola, fino ad Orlando Dipiazza, colloca la musica corale friulana su un piano storico-artistico di assoluta eminenza. Dal tuo punto di vista ritieni che ancor oggi il Friuli esprima un livello di eccellenza altrettanto valido nel contesto del movimento corale nazionale?

S. Bergamo: Direi di si, benché solo il tempo ci potrà dire se i compositori attuali, più o meno giovani, saranno all’altezza di chi li ha preceduti. Tieni conto che i nomi da te citati vengono tutti da un’area che risente, e ancor più risentiva all’epoca della loro formazione, dell’influenza del mondo austroungarico, di cui ha fatto parte fino al 1918: un mondo dove le occasioni di ‘far musica’, tra cui rientra a pieno titolo la pratica corale, erano coltivate molto più che in Italia. Oggi quel mondo si allontana sempre più e il mondo corale deve contare sempre più solo su se stesso. Per fortuna, cammina su gambe solide.

SBergamo1Sandro Bergamo




“Priusquam Te Formarem”, graduale, Cappella Altoliventina, S. Bergamo, dir.
Sandro Bergamo dirige La Cappella Altoliventina fin dalla sua fondazione. Diplomato in clarinetto e in canto, ha diretto diverse formazioni corali (Campiello di Meduna di Livenza, Jacopo Tomadini di San Vito al Tagliamento) e dirige tuttora il gruppo vocale Dumblis e Puemas di Udine. Ha registrato, come cantante e direttore, diversi CD. Giornalista, è direttore della rivista Choraliter, quadrimestrale della FENIARCO, associazione nazionale dei cori italiani. E’ presidente della commissione artistica provinciale dell’USCI (Unione Società Corali Italiane) di Pordenone.
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