M. Zuccante: Caro Maestro Orlando, mi onora la tua disponibilità a concedermi quest’intervista. Ciò costituisce per me l’occasione di affermare pubblicamente l’ammirazione e la stima che nutro nei confronti della tua opera e della tua persona. Iniziamo dagli anni giovanili. Come si è articolato il tuo percorso di formazione? Da quali maestri hai appreso l’arte della composizione e della direzione di coro?
O. Dipiazza: Caro Mauro tu sai, perché ne abbiamo già parlato, che il mio percorso nel mondo accademico è stato molto breve. Posso esibire “solo” il diploma in Musica corale e Direzione di coro. Questo “solo” rappresenta però un traguardo conseguito in un’esistenza non facile. Sono nato nel 1929 in un piccolo paese del basso Friuli, da dove non mi sono mai allontanato. Nella mia famiglia, molto modesta, il problema principale era quello di trovare i mezzi sufficienti per tirare avanti e non certo per soddisfare l’aspirazione ad una crescita sociale e culturale. La musica nel mio paese era presente nelle cerimonie religiose con il coro e l’organo e in quelle civiche con la banda comunale, in seno alla quale desideravo poter suonare, ma nella quale non sono stato accolto per fragilità fisica. Nell’estate del 1943, in casa di parenti, ho potuto mettere le mani su un pianoforte scoprendo che mi sarei potuto accostare alla musica. Da quel momento, senza la guida di un insegnante e privo anche di uno strumento, ho peregrinato nelle case di parenti e conoscenti per suonare tutte le musiche che mi capitavano tra le mani. Alla fine della guerra ho potuto così accompagnare e poi istruire i cori parrocchiali dei paesi del circondario. La vera svolta nel mio percorso artistico è arrivata una decina di anni dopo, quando un amico, Giorgio Kirschner, in quegli anni maestro del coro al Teatro “Verdi” di Trieste, mi consigliò, ma potrei dire mi impose, di impegnarmi in uno studio mirato alla professionalità. Mi sono quindi iscritto al corso di Musica corale e Direzione di coro, presso il Conservatorio “Tartini” di Trieste, sotto la guida di Bruno Cervenca. Conseguito il diploma, Cervenca mi ha voluto ancora due anni con sé come tirocinante. Con questo si concluse il mio percorso di formazione.
M. Zuccante: Condivido con te il principio che un musicista (indipendentemente dai risultati che riesca a raggiungere) debba confrontarsi con le opere dei grandi compositori, tralasciando i prodotti di seconda mano. Quali, tra gli autori del passato e tra quelli dei tuoi anni giovanili, hanno influito maggiormente sulla tua formazione?
O. Dipiazza: Fondamentale per la mia formazione è stato lo studio delle opere di Palestrina per il magistero nell’uso del contrappunto vocale e di Monteverdi per la modernità del linguaggio. Se devo confessare una predilezione, non posso qui non citare Carlo Gesualdo, l’espressionista del cinquecento, che mi stupisce ancora oggi per l’esemplare aderenza musica-parola e per l’intensità che riesce ad ottenere anche nei particolari meno esibiti delle sue composizioni. Tra gli autori del novecento devo molto all’opera di Pizzetti, di Malipiero e di Dallapiccola, ai quali mi sono rivolto sempre con grande attenzione sia per i riferimenti culturali (il mondo greco-latino e il tardo Medioevo), sia per la strenua dedizione al loro lavoro che consideravano una missione.
M. Zuccante: Se dovessi indicare, oltre al possesso di un talento naturale, un paio di requisiti tecnici indispensabili per praticare l’arte del comporre per coro, quali sceglieresti?
O. Dipiazza: Desidero citare Bettinelli che diceva: «per comporre bisogna avere un po’ di talento, studiare molto e non avere fretta di conseguire il successo». Per la composizione corale invece direi una buona preparazione contrappuntistica e una buona conoscenza dell’organo vocale.
M. Zuccante: Potresti individuare il momento e le opere, a partire dalle quali ritieni di aver fissato ed affermato i tratti salienti del tuo stile e della tua visione poetica?
O. Dipiazza: Il periodo durante il quale ho iniziato il percorso che ancora oggi perseguo lo posso collocare durante il mio tirocinio con Cervenca, quando, pur conservando una grande stima e gratitudine per il mio maestro, ho indirizzato la mia attenzione verso il linguaggio dei neomadrigalisti italiani, che Cervenca non amava, e sul neoclassicismo hindemithiano. Quel momento di svolta e di riflessione è presente nell’ “Alcesti”, un mio lavoro per soli, coro e orchestra, inedito e che resterà tale perché riflette un periodo di incertezza e di smarrimento.
M. Zuccante: Ho avuto modo, nelle lunghe chiacchierate fatte insieme, di apprezzare la tua attenzione agli autori delle avanguardie storiche e ad alcuni compositori nostri contemporanei. Ciò nonostante, la tua arte sembra indirizzarsi verso i canoni e il linguaggio della tradizione. Mi chiedo se convivano nella tua esperienza artistica le aperture culturali vissute in una città, in questo senso privilegiata, come Trieste, con il culto per il canto gregoriano e l’an- tica tradizione polifonica.
O. Dipiazza: È fuori dubbio che partecipare al fermento culturale di una città come Trieste nell’immediato dopoguerra sia stata per me un’esperienza preziosa. Il mondo musicale triestino era ancora molto legato alla Mitteleuropa e ho potuto conoscere in tal modo la grande scuola del tardoromanticismo (Strauss, Mahler, ecc.) e degli slavi (Dvorák, Janácek). Mi piace ricordare, come nei primi anni sessanta Cervenca mi proponeva per il lavoro scolastico dei temi che mi colpivano per la loro bellezza e che poi ho scoperto egli traeva dalle sinfonie mahleriane.
M. Zuccante: Affermazioni nei Concorsi, esecuzioni di prestigio e pubblicazioni costituiscono le tappe attraverso le quali il tuo nome si è imposto nel panorama della musica corale. Facciamo delle considerazioni su ciascuno di questi aspetti. Innanzitutto i Concorsi. Sai che io ho rinunciato a parteciparvi dopo il compimento del quarantesimo anno di età. Tu, invece, hai seguitato ad impegnarti in queste competizioni. Immagino che vi siano delle valide motivazioni alla base di questa scelta.
O. Dipiazza: Quando, qualche tempo fa, mi hai detto che al compimento del quarantesimo anno di età avresti smesso di partecipare ai concorsi ho pensato subito al mio primo concorso affrontato poco dopo aver varcato il traguardo dei cinquanta. Perché così tardi? La realtà è che ritenevo assurdo e presuntuoso mettermi a confronto con compositori di fama e spesso titolari di cattedra nei conservatori. Nel 1979, pressato da amici musicisti, ho deciso di partecipare al concorso per il centenario di Balilla-Pratella. Ne sono risultato vincitore. Incoraggiato da questo risultato ho pensato di continuare, non per la smania di apparire, ma per l’opportunità che mi si offriva di avere delle valutazioni sul mio lavoro, verso il quale io sono sempre in atteggiamento molto critico.
M. Zuccante: Spesso ti trovi a far parte delle giurie nei Concorsi sia di composizione che di esecuzione corale. Quali sono i criteri che prevalentemente guidano il tuo giudizio?
O. Dipiazza: Per quanto riguarda i concorsi di composizione, guardo sempre alla professionalità della scrittura, sia formale che particolare. Sono convinto che le migliori intenzioni, la creatività e l’eventuale ricerca di un linguaggio innovativo, sono improponibili quando manca un solido mestiere. (Affermazione reiterata da Berio). Nei concorsi corali, dato per scontato il giudizio sui parametri noti, e cioè intonazione, vocalità, dizione, ecc., tengo molto in considerazione il lavoro del direttore, che è in ogni caso determinante nello stacco dei tempi, della ricerca del fraseggio, della tensione emotiva. Fondamentale è in ogni caso scoprire se l’interprete ha individuato e compreso l’idea germinale della composizione.
M. Zuccante: I tuoi lavori sono stati eseguiti da compagini di alto livello. Ciò costituisce per te giusto motivo di orgoglio e soddisfazione. Ma non sempre gli interpreti traducono a dovere una partitura. Insomma, il rapporto tra compositore e interprete è fatto di alti e bassi. Qual è la tua esperienza in merito?
O. Dipiazza: Il problema principale autore-interprete è quasi sempre da ricercare nelle diversità culturali dei due soggetti. Nel mio caso, anche in presenza di un coro dotato e ben preparato, il risultato esecutivo sarà sempre carente se il direttore non conosce bene il contrappunto. I gruppi stranieri, ottimi interpreti della produzione corale più innovativa, nel repertorio della polifonia classica sono in difficoltà perché la loro cultura non proviene da quella parte di storia della musica che ha prodotto le nostre radici.
M. Zuccante: Le finalità prevalentemente amatoriali dei cori italiani possono precludere alcune opportunità ai compositori che si dedicano alla musica corale. Credi che, se la tua attività si fosse svolta all’estero, avrebbe avuto esiti diversi? Tra le varie tradizioni corali europee, da quale ti senti maggiormente attratto?
O. Dipiazza: Penso che adeguarsi al livello medio dei cori italiani ponga dei limiti al lavoro compositivo ad essi destinato, mentre i buoni complessi stranieri sono in grado di superare anche notevoli difficoltà di scrittura. Per quanto riguarda invece la possibilità di ottenere all’estero maggiori vantaggi non mi sono mai posto questo interrogativo. A parte il fatto delle eventuali commissioni io compongo sempre per una esigenza interiore che mi suggerisce anche le scelte e il percorso da seguire. Al limite, se tutti i cori venissero catapultati su Marte io credo che continuerei a comporre musica corale. Ritornando alle tradizioni corali europee, pur apprezzando moltissimo lo sviluppo e i risultati raggiunti dalla coralità del Nord, sono più legato alla civiltà musicale mitteleuropea.
M. Zuccante: Le pubblicazioni hanno avuto un ruolo decisivo sulla diffusione dei tuoi lavori. Ma è innegabile che le grandi case editrici (soprattutto in Italia) riservano alla musica corale uno spazio marginale nei loro cataloghi. Qual è, a tuo avviso, il motivo di questa limitata attenzione?
O. Dipiazza: La scarsa attenzione dell’editoria musicale per il settore corale dipende dal fatto che l’interesse di buona parte dei cori italiani per il nuovo è molto limitato e che si perpetua l’abitudine del passa-partiture che determina anche uno scarso aggiornamento del repertorio.
M. Zuccante: Un merito che viene riconosciuto alle tue composizioni è costituito dalla si- cura resa sul piano corale e dalla pertinenza della scrittura vocale. Ritengo che ciò sia da attribuire (oltre alla solidità di un mestiere appreso con studio rigoroso e severo), anche alla tua lunga ed intensa attività di direttore di coro. Una pratica, quest’ultima, che ti ha consentito di sperimentare sul campo i limiti e le potenzialità tecnico-espressive dello strumento-coro. Sei d’accordo?
O. Dipiazza: Certamente.
M. Zuccante: Hai speso un’intera carriera ad insegnare i rudimenti della musica ai ragazzi della scuola dell’obbligo. Rimane traccia di questa tua meritevole quotidiana dedizione nella creazione di un repertorio dedicato all’infanzia e alla gioventù. Quale bilancio ricavi dall’esperienza scolastica? Ti rammarica il fatto di non aver lavorato nei Conservatori di musica?
O. Dipiazza: L’esperienza nella Scuola Media Statale ha consentito di accostarmi al mondo dei ragazzi e di verificare la validità delle varie metodologie applicabili nell’insegnamento dell’Educazione musicale. Da tener presente che sto parlando degli anni sessanta, quando con la riforma dei programmi scolastici la musica era entrata da poco nella scuola media. Purtroppo ancora oggi, dopo quarant’anni, l’insegnamento dell’Educazione musicale è lasciato soltanto all’iniziativa dei singoli insegnanti, senza una precisa indicazione di metodo. Dopo questa amara considerazione non posso dire che io provi un sentimento di limitazione per non aver insegnato in Conservatorio. In realtà ho avuto diverse proposte, ma per l’alta considerazione che avevo dei Conservatori ho sempre rifiutato, ritenendo la mia preparazione non adeguata all’impegno.
M. Zuccante: La musica sacra è un genere al quale ti dedichi con particolare propensione e predilezione. Credo che i tuoi convincimenti religiosi giochino un ruolo importante in ciò. Abbiamo assistito ad un progressivo distacco dal genere sacro da parte dei grandi autori del Novecento, ma di recente esso è tornato di interesse, grazie alle opere di alcuni musicisti del Nord Europa (mi riferisco, tra gli altri, a Pärt, Schnittke, Gubajdulina, Tavener, Penderecki, Górecki). Come spieghi questo andamento altalenante?
O. Dipiazza: L’inizio della frattura tra i compositori e il genere sacro è collocabile già alla fine dell’Ottocento con il progressivo disinteresse della Chiesa per il valore trascendente della musica. Certamente una delle cause è da ascrivere anche alla brutta musica, spesso di gusto teatrale, che circolava nelle cantorie e nei repertori organistici del tempo. La fase terminale di questo percorso si può fissare nel Concilio Vaticano II. È sempre vivo in me il ricordo di quel giorno in cui il mio maestro è arrivato al “Tartini” scuro in volto e con la voce roca e mi ha detto: «Non si può più comporre messe, hanno proibito il latino e tolto perfino il Credo». L’inarrestabile secolarizzazione incide sempre più negativamente sulla produzione musicale di ispirazione religiosa salvo l’opera di chi si dedica al genere sacro per rispondere ad un’esigenza interiore. Ed è il mio caso. I compositori del Nord Europa che tu citi si dedicano a lavori di carattere religioso per motivazioni che attengono al loro vissuto. Condizionati da situazioni politiche che hanno negato loro la libertà di espressione, hanno ripreso ora a rapportarsi con il mondo della Chiesa ortodossa che ha sempre contato molto nella grande musica slava.
M. Zuccante: Mentre nella tua produzione sacra ti sei confrontato con i testi delle scritture e della liturgia, nelle composizioni profane le tue scelte si sono necessariamente indirizzate altrove. Quale tradizione letteraria e quali autori hanno maggiormente ispirato i tuoi lavori? Il rapporto con il testo letterario determina in maniera vincolante le tue opzioni espressive e di linguaggio?
O. Dipiazza: I miei interessi letterari, sempre come testi da musicare, sono collocabili in due periodi storici. Il primo va dalla letteratura latina al Trecento. Il secondo ai poeti del primo Novecento. In particolare, D’Annunzio, Ungaretti, Saba. L’accostamento ai poeti latini, al volgare e alla poesia religiosa del sec. XII è dovuto allo studio dei compositori italiani del primo Novecento ai quali mi sento sempre legato. La produzione poetica italiana del secolo scorso mi ha invece suggerito l’uso di tecniche lega- te temporalmente ai testi. Le poesie del “Porto sepolto” di Ungaretti, così concise e “pietrose” le ho lette trovando il loro corrispettivo nell’espressionismo e nella serialità, mentre nel crepuscolarismo di Saba ho sentito musicalmente echi del postimpressionismo francese. Una grande suggestione ha sempre suscitato in me la letteratura romantica tedesca, ma mi sono trattenuto dall’accostarmi ad essa perché ritengo che l’uso di una lingua straniera pretenda una conoscenza non solo grammaticale di essa.
M. Zuccante: I musicisti della mia generazione e quelli ancor più giovani guardano a te come ad un maestro. Ti sembra di individuare per il futuro un solco di continuità, o ritieni che prevalgano gli atteggiamenti di rottura rispetto alle linee estetiche che ti appartengono?
O. Dipiazza: La fortuna di una lunga vita mi ha consentito di osservare e, in piccola parte di partecipare, al cammino della coralità dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. Negli anni cinquanta-sessanta il panorama corale e stato occupato da alcuni grandi compositori, Kodály, Britten, Poulenc, che per la loro forte personalità e per l’unicità del loro linguaggio hanno suscitato e quasi monopolizzato l’interesse degli studiosi e dei praticanti del canto corale. Stranamente negli stessi anni (ed è un fatto che non mi so spiegare), la tecnica seriale non ha trovato posto tra le tendenze della composizione corale. Nei primi anni settanta i gruppi corali svedesi e norvegesi hanno invece portato nei concorsi internazionali brani ispirati dall’avanguardia con i clusters, l’aleatorietà, le fasce sonore e più tardi il minimalismo. Queste nuove tendenze si sono presto diffuse, ma altrettanto presto si sono esaurite quando la novità è diventata normalità. Venendo ai nostri giorni mi sembra che si possano rilevare due linee prevalenti. La prima, portata avanti da compositori che si sono imposti a livello mondiale, (Orbán, Kocsár, Tavener, Vajda, Schnittke, Eben) che non hanno rinnegato il patrimonio del passato e procedono lungo un percorso che si potrebbe definire di rinnovamento della tradizione. Mi sembra quasi inutile dirti che io mi sento vicino a questa corrente. Nell’altro indirizzo mi sembra di intravedere la preoccupazione di non perdere il consenso della platea e il gradimento dei coristi. Nelle partiture che ho potuto esaminare si coglie subito la volontà di realizzare un prodotto gradevole servendosi di un linguaggio che ricalca certe formule della musica d’uso. Sarebbe molto triste se questo modo di intendere la coralità dovesse imporsi. Ma forse questo è uno degli aspetti del mondo d’oggi a cui bisogna adeguarsi. In ogni caso questo non è il mio mondo.
M. Zuccante: In conclusione, ti faccio una domanda che può sembrare sciocca, ma aiuta a conoscerti meglio. Se non fossi diventato un compositore, che altro mestiere avresti preferito fare?
O. Dipiazza: Il compositore. Quando non è condizionato dall’aspirazione al successo e al guadagno è il miglior lavoro che si possa desiderare.
[Choraliter, n. 24 Settembre-Dicembre, Ed. Feniarco, 2007]