Un giorno si dirà: «i cori al tempo del Coronavirus». Già, perché – com’era inevitabile – anche le attività corali hanno subito uno stop straordinario. Per quanto? Staremo a vedere. E poi? Ci sarà una ripresa, ma sarà graduale, faticosa e, forse, sotto alcuni aspetti, diversa da prima.
Mi ronza per la testa una questione. Una questione che, tempo fa, buttai lì, un po’ provocatoriamente. «Che cos’è un coro?» Mi fu prontamente risposto: «Uno strumento sonoro». Ecco, pensai, la solita fissa del suono, il sound, per dirla da fighi. Da quando spopolano le lagne dei cori nordici, tutti hanno sulla bocca ‘sta parola. E giù fiumi di atmosfere vocali fascinose e lente, che inondano le sale e le navate, per il godimento di pochi, ma estasiati ascoltatori.
Per me, invece, un coro è sempre stato una massa di persone che cantano, esprimendo un testo.
Soffermiamoci sul primo aspetto della definizione: il coro è una massa di persone.
Fa specie ricordarlo in questi giorni, così particolari. Infatti, la crisi del Coronavirus sembra colpire il canto corale nella sua essenzialità, la massa cantante. Ci stanno dicendo: «per il bene di tutti, evitate di raggrupparvi, stabilite le distanze». Non sarà che, alla fine, rallentare, allargare, spazializzare non era soltanto una moda, ma un presagio futuro. Una coralità ancora più rarefatta, distanziata … dispersa?