M. Zuccante: Innanzitutto, grazie, maestro Bepi, di aver accettato di colloquiare con me. Sono sicuro che i lettori di Choraliter gradiranno approfondire, attraverso le tue stesse parole, alcune delle tematiche inerenti alla tua opera. Un capitolo cospicuo della tua produzione raccoglie i canti di ispirazione popolare legati, più o meno direttamente, all’ambiente alpino. A distanza di diversi decenni dal suo fiorire, ed in un momento che coincide con il compiersi di un arco generazionale, prova a tracciare un bilancio della stagione dei cori di montagna.
B. De Marzi: A Milano c’è un coro di poche ma ottime voci molto giovani. Il repertorio che propone, eseguito con fedeltà e accuratezza, è quello classico, elaborato a Trento dai Pigarelli, i Pedrotti, poi i Mascagni, i Dionisi e l’ispiratissimo grande pianista Benedetti Michelangeli. Chiedere a questi giovani “perché cantano” potrebbe essere illuminante per capire l’attuale situazione corale. La montagna? In montagna non si è mai cantato così. Nelle valli alpine, questo genere vocale e armonico è arrivato dalle città con l’escursionismo. Alla fine degli Anni ’60, in un convegno a Cortina, si è detto che i cori maschili erano tutti “trentinizzati”. Ma se non ci fosse stato il Coro della SAT, nessun coro maschile sarebbe sorto nel secondo dopoguerra. Questo è un tempo sospeso, dove nell’incertezza del futuro si propone di tutto. Ma io vorrei tornare a quel “perché”, ben sapendo che rimarrebbe senza risposta. E non basta ricordare la celebre frase “perché la montagna è là!”. L’alpinismo classico è finito da tempo. Anche l’escursionismo di massa. Oggi si va nei boschi con il fuoristrada e sui sentieri con la moto da cross. E mi viene da piangere.
M. Zuccante: Alcuni detrattori ti accusano di confondere i generi. I tuoi canti sarebbero invenzioni personali che rischiano di contaminare la purezza e l’autenticità del repertorio storico di tradizione orale, esito di operato anonimo e collettivo. Premesso che l’intero repertorio dei cori alpini è, di fatto, un’invenzione, pensata per le sale da concerto – a partire dal modello-SAT –, condividi l’idea che l’apporto creativo dell’artista-individuo giochi, invece, un ruolo determinante, ai fini della sublimazione poetica dei contenuti e delle storie raccontate nelle cosiddette canzoni popolari?
B. De Marzi: Nel mirabile repertorio SAT ci sono dei generici canti d’autore che nessuno ha mai discusso perché proseguono dallo stile riconosciuto. Molte delle mie storie cantate dicono della mia partecipazione alla vita sociale, gridano la mia indignazione, invitano al rispetto della memoria, alla pace. Nella tradizione, non mi sono mai posto il problema della purezza, consapevole che un canto autenticamente popolare viene falsato appena lo si tocca, appena lo si elabora armonicamente e vocalmente. Certo: il mio modello iniziale è stato il coro trentino con i suoi inimitabili musicisti-armonizzatori. Oh, le armonizzazioni! Si è sempre parlato solo di armonizzazioni, per i nostri repertori. Mi intenerisce sentire tanti coristi delle centinaia di gruppi maschili che, nominando Beethoven, dicono che ha fatto “nove armonizzazioni”. Un coro piuttosto noto, nel registrare “La contrà de l’acqua ciara” ha scritto: “Testo di Giuseppe De Marzi, armonizzazione di Bepi De Marzi”. C’è ancora della confusione, qua e là. I detrattori? Dicono che sono “troppo semplice, troppo cantabile, tardoromantico”; scrivono che non pratico le dissonanze, che ignoro la tecnica moderna. Ma le cattiverie più organizzate sono venute dai cacciatori dopo che ho scritto “La Sisilla”, e soprattutto “Scapa, oseleto”, Scappa, uccellino, violino della siepe…
M. Zuccante: Il tuo linguaggio musicale esclude ogni sorta di complessità e persegue piuttosto la via della linearità nella scrittura, della semplicità espressiva e dell’immediatezza comunicativa. Sia nella prestazione esecutiva che in quella della percezione, insomma, le tue canzoni si attengono a quello che potremmo definire un “lessico popolare”. Eppure mi pare che qua e là affiorino modelli di origine colta. Tra gli altri esempi, mi vengono in mente la policoralità di Pavana, l’esordio in stile imitato di Nikolajewka, gli stretti ritmici presenti nelle ultime righe di Sanmatìo. Qual è dunque il debito che ti vincola alla formazione di musicista colto?
B. De Marzi: Grazie per essere entrato nel giusto significato del mio lavoro. L’immediatezza comunicativa me la impongo continuamente perché mi chiedo: “Chi canterà le mie storie? uomini, donne, ragazze, ragazzi che per lo più non sanno leggere la musica…”. Ecco: voglio facilitare il loro impegno. Potrei elaborare tessiture più complesse, certo. Ma a me basta, come diceva il mio grande amico Rigoni Stern “fare compagnia a qualcuno” con le mie storie cantate. Però vorrei che dai concerti corali si uscisse con la memoria di qualche passaggio melodico, di qualche motivazione poetica e sociale, per continuare a vivere la tormentosa felicità di quel “perché”. Ciò che ho scritto lungo gli anni è stato dettato in parte dai miei studi giovanili, che sono anche i tuoi. Venendo dal conservatorio e operando nella musica nei diversi campi, ci si lascia tentare dalle grandi forme polivocali, pur se consapevoli che tutto il meglio sia già stato realizzato.
M. Zuccante: Tra le qualità più apprezzate nelle tue creazioni c’è quella di una semplice, ma attraente e coinvolgente vena melodica. Ritieni che questo sia il dato che più di ogni altro favorisca la popolarità del tuo repertorio?
B. De Marzi: Ne ho la certezza. “Cosa fai di mestiere?”, mi ha chiesto un mite fraticello della Verna nel tempo in cui ancora andavo a confessarmi. Di solito, a chi mi fa una simile domanda rispondo “faccio l’idraulico”. Quella volta, lassù, non potevo mentire:: “Il melodista”, ho risposto. “Oh, Gesù, e che mestiere sarebbe?”. Proseguendo dai pensieri precedenti, confermo il mio costante impegno nel realizzare piccole immagini cantate, facili da memorizzare. Molti dei miei canti vengono da tempo accompagnati con la chitarra o con altri strumenti. Vivono perciò per la sola melodia. A Lourdes, una volta che facevo servizio in un pellegrinaggio, mi sono avvicinato a dei coristi italiani che intonavano un mio mottetto con organo. “Lo sa anche lei?”, mi hanno chiesto. Sono queste, le piccole e inattese felicità.
M. Zuccante: Tra le tue canzoni, La contrà de l’Acqua ciara è quella che preferisco. Ogniqualvolta mi capita di ascoltare questo struggente motivo, la familiarità con i luoghi, in cui entrambi viviamo – ora ahimè imbruttiti da scempi indecenti -, accresce la partecipazione emotiva. L’amara malinconia di questa canzone consolida in me l’immagine di Bepi De Marzi cantore dell’inesorabile fine del mondo contadino-montanaro veneto. Mi sbaglio?
B. De Marzi: Mi conosci bene, ma bene. La mia è una infinita disperazione. Io, il “perché” l’ho sempre avuto, l’ho sempre espresso in diversi modi. Piango un mondo umiliato e offeso. Urlo anche per lo scempio delle città: “Come fosse morto il mondo, se la città d’autunno non ha più foglie gialle nei viali di cemento nero. Le foglie non sono mai nate, son rimaste nel cuore dei rami duri come pietra…”. Questo canto ha sorpreso i miei amici milanesi. Nella contrada che ho cantato, come in altre delle nostre montagne, ora vivono molti immigrati; e sono tornati i giochi dei bambini, magari in lingue diverse. Ecco un’altra felicità che consola i miei giorni inquieti.
M. Zuccante: Hai percorso la tua carriera a fianco di una nutrita schiera di musicisti, con i quali hai condiviso con successo un progetto di crescita e valorizzazione del canto corale. Quali, tra i compositori e direttori di coro della tua generazione, consideri più affini alla tua esperienza artistica?
B. De Marzi: Ho conosciuto e ammirato le dilatazioni vocali di Malatesta, le seduzioni armoniche di Bon, il sapiente fervore di Agazzani, la nobiltà internazionale di Gervasi, la passione popolare di Vacchi, l’arguzia di Corso, la poliedricità di Bordignon, il puntiglio popolare di Vigliermo, l’acutezza di Leydi. Ma il mio pensiero riconoscente va ai miei maestri di pianoforte, di organo, di composizione. E quanti sogni! Determinante è stato il mio entrare nei Solisti Veneti come clavicembalista e organista. Da Claudio Scimone ho imparato che nella musica non si deve mai finire di cercare, cercare e cercare. Anche nel dirigere i cori per Vivaldi, Mozart o Beethoven, il mio fraterno amico e maestro padovano ha sempre cercato la chiarezza per una emozionante comunicazione. Bandito l’intimismo, ha cercato, e ancora cerca, di parlare al mondo, di illuminarlo, di renderlo migliore. Si può fare con Vivaldi, con Bach! Ma anche con Pigarelli. Mi ha incoraggiato e aiutato Silvio Pedrotti, proprio il grande Silvio che ora più nessuno ricorda. Lui sì che manifestava il “perché” del cantare in coro. “Non basta cantare: bisogna far pensare”, mi ha scritto affettuosamente quarant’anni orsono.
M. Zuccante: Vorrei ora mettere a fuoco un paio di punti sul tuo ruolo di direttore di coro. I Crodaioli di Arzignano sono la fucina presso la quale hai plasmato gran parte delle tue creazioni. Mi sembra di cogliere in questo complesso vocale anche una certa originalità timbrica. Quali sono a tuo avviso i connotati fonici che distinguono I Crodaioli nel panorama dei cori alpini?
B. De Marzi: Forse eravamo un coro alpino. Le mie prime 6 raccolte pubblicate dalle Edizioni Curci avevano l’unico titolo “Voci della montagna”. Per la vocalità, è risaputo, bisogna adattarsi alle voci disponibili, plasmandole per la soluzione migliore nell’amatorialità. Nelle tre raccolte seguenti ci sono anche dei rifacimenti, delle rielaborazioni. Qualche canto tra i più diffusi l’ho proposto addirittura all’unisono. Ho creduto nella vocalità vagamente aggressiva, intensa, per una varietà dinamica tendente a provocare emozioni. Ultimamente ho un poco attenuato questo atteggiamento. Mi ripeto nel dire che questo è un momento di attesa. Perciò, rimanendo nel presente, dopo una pausa di un paio d’anni abbiamo deciso insieme di mutare l’impostazione vocale limitando l’estensione sui modelli polifonici a voci uguali. Ora i tenori primi hanno un timbro pieno e reale, non più di “falsetto”. Le armonie sono più intense con le voci “vicine”.
M. Zuccante: C’è un particolare nel tuo modo di condurre il fraseggio che mi ha sempre incuriosito. Quello cioè di “tirare la frase” senza interruzione e, alle volte, con alquanta lentezza, mettendo a dura prova le voci nel sostenere i suoni; quasi volessi cercare una continuità sonora in grado di oltrepassare i limiti del respiro. Penso ad un brano come Bènia Calastoria. Mi chiedo se si tratta di emulazione di sonorità strumentali, come possono essere, ad esempio, quelle dell’organo. Insomma, vezzo o scelta motivata da ragioni espressive?
B. De Marzi: Forse hai ascoltato qualche mio canto dai cori che non fraseggiano chiaramente. Benia Calastoria ha i respiri ben segnati. La mia esecuzione può dare l’impressione della continuità che tu sottolinei, ma è solo un’impressione perché c’è un pedale continuativo affidato prima ai bassi, poi ai baritoni, che riempie le brevissime sospensioni dei respiri. Pur usando per lo più l’omoritmia, tengo molto alle possibilità umane per un fraseggio naturale. Non ho mai contato i canti che ho fatto. Ma ci sono pedali all’alto, bassi ostinati, forme cicliche… La nona raccolta, edita sempre dalla Curci di Milano, contiene anche un canto in tre movimenti, Brina Brinella. C’è un Largo come introduzione, un Corale-Andante e una Fuga-Vivace costruita con soggetto, controsoggetto, modulazioni, divertimenti e stretti. In questo caso, il “perché” sta nel raccontare l’ansia del contadino per il raccolto minacciato dalle improvvise gelate primaverili.
M. Zuccante: Un lato non secondario della tua poliedrica personalità è rappresentato dalla vis polemica con la quale affronti pubblicamente tematiche relative alla vita musicale e non. Vorrei riservare ad esso le ultime riflessioni. Tralascio, e rimando ad una prossima puntata, lo spinoso argomento della musica liturgica, pur sapendo quanto ti stia a cuore e quanto ti sia speso per tutelarne il decoro. Qualche tempo fa fecero un certo scalpore alcune tue apocalittiche previsioni in merito al futuro del canto corale. Tra le altre, leggo queste affermazioni: «Il mondo corale amatoriale sta attraversando una profonda crisi, ma non solo per la mancanza di voci giovani, bensì per la confusione dei repertori. I testi in italiano non interessano più, tanto meno quelli nei vari dialetti». Sei ancora convinto di tutto ciò?
B. De Marzi: Manca la curiosità e la caratterizzazione. Il problema del ricambio delle voci nei cori maschili è sempe più sentito. Mi preoccupavo però della perduta dignità dei complessi corali che proponevano espressioni senza precise motivazioni. I cori misti nascono e si spengono in continuazione anche per la mancata ricerca di una personalizzazione. Per la musica sacra, e spero che se ne parli presto a più voci in queste pagine, non c’è niente da fare: siamo da tempo nel degrado. Le messe sono ovunque un’avventura locale e i canti prediligono i versi tronchi in “ai, ei, oi, ui”. Le musiche? Impera la “non melodia”. Hanno inventato la cantillazione, un recitativo con effetti esilaranti.
M. Zuccante: Infine, vorrei dire che reputo meritoria la tua indefessa azione di denuncia del degrado socio-culturale in cui siamo sprofondati da un paio di decenni a questa parte. Pensi che la crisi eclatante e finalmente riconosciuta ad ogni livello, si possa ergere a spartiacque tra un’epoca di infimo decadimento ed una nuova stagione di rigenerazione morale e riscoperta di valori culturali, morali e sociali più autentici? Insomma, c’è una speranza dietro l’angolo, o no?
B. De Marzi: Mia mamma era di Milano e mi diceva come “i veri milanesi non sono mai indifferenti davanti alle vicende del mondo”. La mia amata Milano, però, ha perduto molto del suo cosmopolitismo per diventare una specie di bigottificio provinciale. Mio papà, per il suo lavoro di tecnico elettromeccanico, aveva l’abbonamento per tutta la rete ferroviaria italiana e mi diceva: “Non accontentarti mai di ciò che ti dicono: vai a vedere e racconta la verità”. Per uscire da questo grigiore qualunquistico c’è solo da sperare nell’Europa, dove dobbiamo portare il calore della nostra rinnovata poesia.
[Choraliter, n. 37, Gennaio-Aprile, Ed. Feniarco, 2012]
Bepi De Marzi, “Signore delle cime” – PolifonicoMonteforte, M. Zuccante, dir.
Bepi De Marzi, “La Contrà de l’Acqua ciara” – PolifonicoMonteforte, M. Zuccante, dir.