Giovanni Bonato – intervista

M. Zuccante: Caro Giovanni, mi fa piacere che tu abbia accettato di rispondere ad alcune domande sul tema del testo letterario nella composizione corale. A giudicare dalle tue opere, per te il testo rappresenta un elemento di valore fondamentale. Mai pretesto, ma premessa basilare per l’invenzione poetico-musicale. Cominciamo con una domanda un po’ banale, ma che incuriosisce soprattutto i non addetti ai lavori. La scelta del testo precede sempre l’atto creativo vero e proprio, oppure ti è capitato qualche volta di sviluppare delle idee musicali alle quali hai applicato in seguito le parole?

G. Bonato: Direi che, a parte qualche tentativo … giovanile di carattere “leggero” o di studio, i miei brani corali o vocali sono sempre stati ispirati da un testo o dalla possibilità di far convivere più testi poetici.

M. Zuccante: In molte tue composizioni in effetti, invece di testo letterario, mi sembra sia più corretto parlare di testi letterari. Infatti, fai spesso ricorso alla commistione di testi. Aggiungo che l’origine dei testi e la lingua si presentano di natura molto diversa. In Audi, filia, ad esempio, l’antico testo latino s’incrocia con i versi di Dante Alighieri e con citazioni in inglese da John Milton, in francese da Eustorg de Beaulieu e in tedesco da Heinrich Heine. Quali sono le motivazioni estetiche che ti portano a fare un uso simultaneo di materiali letterari apparentemente così diversi?

G. Bonato: Parto innanzitutto dal presupposto che anche la lingua è un’espressione musicale. Ogni lingua possiede una sua musicalità. Vale a dire, i fonemi che la compongono creano una variopinta coloritura, una molteplice successione e combinazione timbrica, che attraverso l’impiego non solo di vocali, ma anche – e soprattutto oserei dire – di consonanti, mi attraggono e stimolano da sempre la mia creatività. Una creatività tesa verso la ricerca di un mondo sonoro cangiante non tanto sotto l’aspetto dello spettro armonico, quanto piuttosto nell’aspetto “fisico” del suono. In questo caso la mia formazione accademica, fondata su figure quali Manzoni, Ligeti, Berio, Nono – tanto per citare solo alcuni fra i nomi più significativi – influisce ancora in modo determinante su quanto scrivo, sebbene negli ultimi anni la mia attenzione nella musica corale si sia indirizzata verso una maggiore semplificazione del messaggio sonoro. In riferimento al mio “Audi, filia”, al quale tu poco fa alludevi, agli aspetti poc’anzi accennati, ne va aggiunto un altro, per così dire, d’occasione. Quando la Feniarco mi ha commissionato questo lavoro, è stato per il concerto del CGI, diretto da F.M. Bressan – e questo lo sai bene anche tu, visto che eri tra i compositori commissionati per quell’evento…memorabile, concedimi il termine – in occasione dell’Assemblea generale di “Europa Cantat” nel novembre 2004 a Venezia. E’ stata per me un’opportunità molto attraente: rendere un doveroso omaggio alle decine e decine di delegati da tutta Europa, producendo un brano poli-linguistico. Qui i testi da me scelti, giustamente come hai detto, solo in apparenza sono così diversi. Eccezion fatta per il testo latino, che ha un ruolo portante, centrale – “Audi, filia”, appunto – gli altri sono citazioni poetiche che, pur spaziando nel tempo e negli stili, sono accomunati nel contenuto da un riferimento strettamente musicale.     

M. Zuccante: Ricorrono nel tuo catalogo le composizioni su testo liturgico. Mi risulta però difficile classificarle nel genere della musica sacra tout court. Nella tua interpretazione musicale i testi trascendono la dimensione liturgica. Consideriamo Stetit Angelus: “visione sonora” di uno stato d’estasi religiosa, ma che potrebbe anche essere contemplazione platonica, nirvana. Mi sbaglio?

G. Bonato: Non ti sbagli. Effettivamente quello che di solito cerco nella musica sacra, ma anche in quella “profana”, è una dimensione mistica. L’aspetto liturgico mi interessa poco, anche perché avendo una sua precisa funzione “pratica”, non mi dà la possibilità di sperimentare, almeno in parte. Certo, ho una mia idea su come si potrebbe musicare un testo liturgico, coinvolgendo un coro amatoriale ed ev. un’assemblea di fedeli, ma finora, malgrado le proposte fattemi, non ho riscontrato ancora una convinta e convincente finalità artistica. Inutile dirlo, ma la Chiesa, da questo punto di vista ha le sue responsabilità, e qui non è il caso di ribadire la solita polemica. Ad ogni modo, ribadendo quanto detto poco fa, l’aspetto mistico e sacrale è una componente per me essenziale, che si può esprimere anche utilizzando testi profani, tanto meglio se intrisi di spiritualità e di visioni che stimolino la creatività musicale. Non dimentichiamo che la musica è un’espressione dello spirito e io la conduco attraverso un mio modo di intendere la religiosità. “Stetit angelus” rientra in questa dimensione, sebbene all’interno della mia produzione risulti un fatto episodico per la sua scarna semplicità. Normalmente per esprimermi in tal senso sento il bisogno di creare un’ampia suddivisione delle parti corali, secondo una tecnica compositiva che definirei quasi più strumentale/orchestrale che corale. Nella complessità di un gioco di squadra allargato trovo il mio habitat più naturale. Non mi so esattamente dare un spiegazione. Mah, forse dipende dalla mia attrazione per la scrittura orchestrale. Probabilmente molto dipende anche dalla mia cultura famigliare…

M. Zuccante: Affrontiamo ora una vexata quaestio. Risale ai tempi della Controriforma il tentativo di Palestrina di dimostrare, con la composizione della Missa Papae Marcelli, la compatibilità tra musica polifonica e comprensione del testo. Ma fra semplificazioni (il recitar cantando) e nuove complicazioni (i concertati d’opera), la questione è rimasta aperta. Nella musica contemporanea, infine, la faccenda si è ulteriormente intricata. In particolare, nelle composizioni di quegli autori che si ispirano alle tecniche delle avanguardie. Nelle loro opere il trattamento del testo (spesso affogato in una trama polifonica assai fitta, o disgregato nelle sue componenti fonetiche primarie), certamente non facilita il compito all’ascoltatore intento a ricostruire la parola cantata. Insomma, non è raro ascoltare oggi brani in cui le ragioni del processo compositivo prevalgono sul discernimento lineare del testo. Nei casi più complessi è addirittura necessario documentarsi sul testo letterario prima di procedere all’ascolto. Qual’è la tua opinione in proposito?

G. Bonato: Prima di risponderti a questa domanda, è giusto ricordare che anche nel periodo della Controriforma vi furono compositori (anche all’interno del mondo clericale) che disattesero i dettami conciliari (gli inni di Asola e di Lasso ne sono un esempio alquanto significativo). Ciò deve indurre a pensare che la comprensibilità del testo non è mai stata concepita dai compositori come un’esigenza primaria, tanto più se imposta per motivi dottrinali e soprattutto se consideriamo la loro volontà di sottolineare ed enfatizzare artisticamente, secondo le tecniche compositive del loro tempo, quanto il testo letterario intende esprimere. A mio avviso, qui sta il punto. Anche passando attraverso le varie fasi storiche e giungendo fino a noi, possiamo riscontrare un interesse dei compositori per il testo letterario, che va al di là di ciò che la parola, umanisticamente intesa e nel suo significato, vuole manifestare. Il testo stesso, da parte di molti compositori dell’Avanguardia storica è stato addirittura decomposto fino alla sua essenza sonora: il fonema. Che spesso da solo può esprimere sensazioni, essere autosufficiente ad esprimere perfino emozioni universali. Personalmente, anch’io sia come compositore sia come ascoltatore ritengo l’intelligibilità del testo, il più delle volte, un’inutile preoccupazione. Anzi, pur sembrando un paradosso, spesso l’incomprensibilità del testo risulta essere affascinante, quasi avvolta da un’arcana attrazione. Il latino per fare un esempio, quanto meno a livello popolare, gode ancora di questo fascino. Spesso poi nei concerti capita di sentire brani in una lingua che non si conosce o che si conosce in modo approssimativo. Nonostante ciò, la potenza del messaggio musicale prevale nella sua bellezza e la lingua sembra un valore aggiunto. Per molti questa affermazione, sebbene possa sembrare contraddittoria – me ne rendo conto e spero di non venir frainteso -, appare come una corbelleria. La prova dei fatti spesso comunque – siamo sinceri – lo conferma.       

M. Zuccante: Ricordo che nelle lunghe chiacchierate fatte durante i Seminari di Composizione di Aosta, hai lanciato una proposta, che ho immediatamente condiviso. In sostanza, hai suggerito di far lavorare i corsisti sul tema della Natura, considerato il magnifico paesaggio alpino che circonda la città di Aosta. Poi, non s’è fatto nulla. Peccato. Ma da uno che ha concepito musiche che sono state eseguite nelle grotte e composizioni dal titolo Alpenklang, c’era da aspettarsi uno spunto così stimolante. Sono convinto che non fosse nelle tue intenzioni proporre un lavoro di mera imitazione dei suoni della Natura, bensì di evocazione. Pertanto, vorrei chiederti quale idea letteraria ti viene in mente per una composizione del genere? Certamente non testi tipo i sonetti che hanno ispirato Le Stagioni di Vivaldi.

G. Bonato: A dire il vero un’idea letteraria particolare a questo riguardo non ce l’ho. O meglio, fermo restando che liriche stimolanti e meravigliose si possono trovare in ogni epoca e stile, potrei pensare ad accenni vari, tratti da differenti testi lirici e in prosa presi qua e là da vari autori. Oppure ad utilizzare semplici parole, in varie lingue, dal significato pertinente, le quali contengano fonemi adatti a sostenere una o più idee musicali, unitamente a particolari effetti e comportamenti vocali. Magari evitando scontati effetti onomatopeici. Proprio in quella occasione di Aosta comunque, se ti ricordi, la mia proposta era legata al fatto che ai corsisti avevo proposto una sorta d’indagine sulla qualità e sulle potenzialità dei fonemi nella musica vocale. L’idea della natura, ad ogni buon conto, mi era stata suggerita soprattutto dalla grande quantità e varietà di …stimoli sonori, che l’ambiente alpino offre ad un attento ascoltatore.

M. Zuccante: Una cifra stilistica che contraddistingue il tuo lavoro è l’attenzione che riservi alla dimensione della spazializzazione del suono. Il testo, in questo caso, assume un movimento rotatorio, generato dal gioco delle voci, che si rimandano parole e articolazioni fonetiche da un lato all’altro dell’auditorium. Attraverso questa tecnica anche una sola parola può offrire materiale sufficiente per la costruzione di un’architettura sonora molto suggestiva. Penso al tuo Amen, per coro spazializzato. Parla di questa tua tecnica.

G. Bonato: Sì, è vero. La spazializzazione del suono è una dimensione alla quale difficilmente so rinunciare, soprattutto quando devo scrivere un brano corale o un brano cameristico strumentale. Questa esigenza nasce dal fatto, non tanto di “spettacolarizzare” la performance, quanto piuttosto di offrire al pubblico una nuova dimensione dell’ascolto e la volontà di far interagire i suoni con l’ambiente, il contenitore (sala o chiesa che sia). L’ascolto frontale ha da secoli condizionato il modo di scrivere e di ascoltare un brano attraverso quelli che nel corso della storia sono diventati dei parametri indispensabili (ritmo, armonia, intreccio, ecc.). Quello spazializzato (Nono, tanto per fare un nome su tutti e altri del recente passato, senza contare la Scuola Veneziana del 500-600, ce l’ha insegnato) immerge l’ascoltatore in una dimensione avvolgente e spesso “coinvolgente”, dove il suono “fisicamente” inteso è protagonista. Certo, questa dimensione mette spesso l’ascoltatore in difficoltà. La poca abitudine a simili esperienze sonore impegna non poco chi ascolta (e anche chi esegue), sottoponendolo ad una concentrazione particolare. In base alle mie esperienze, ho potuto notare spesso tra gli ascoltatori non solo meraviglia e attenzione, ma anche stupore, disorientamento, perfino sconcerto. Fra le altre cose poi, il brano concepito secondo questa tecnica offre la possibilità di rendere “musicale” e artificialmente riverberante anche uno spazio (e noi sappiamo purtroppo quanti siano qui in Italia!) poco o per niente adatto ad un’esecuzione musicale. Riferendomi al mio Amen, vale quanto già detto in precedenza. In questo caso ho giocato con i fonemi che formano questa parola tramite la valorizzazione, oltre ovviamente delle vocali, anche delle consonanti fricative e intonabili (“m” e “n”, appunto), che permettono un uso prolungato del suono ad altezza determinata. Ciò mi ha concesso la possibilità di creare una trama fatta di altezze gradualmente in continua trasformazione timbrica e in costante movimento da un punto all’altro degli otto piazzati nella sala.     

M. Zuccante: Ora vorrei che mi rispondesse l’insegnante di composizione. Ricordo che nel curriculum dei miei studi di composizione era prevista la frequenza del corso di Letteratura poetica e drammatica. Una materia che aiutava ad approfondire, nell’ambito della tradizione, i canoni tecnico-formali che accomunano musica e poesia. Insomma, un utile ripasso della metrica e delle forme poetiche, già studiate al Liceo, in vista delle applicazioni musicali. Ora credo che nei Conservatori le cose siano cambiate e i percorsi molto diversificati. Che consigli dai ai tuoi allievi quando sono alle prese con un testo da mettere in musica? E quali sono gli errori che ti capita più spesso di riscontrare nelle loro prove, in merito alla disposizione del testo?

G. Bonato: A dire il vero, questo aspetto in ambito accademico viene trattato in modo abbastanza superficiale, o per lo più, in modo tradizionale e legato alle prove d’esame di composizione. Da parte degli allievi da questo punto di vista, noto una certa approssimazione, nonostante molti di loro abbiano alle spalle studi classici, nell’abbinare in modo metricamente corretto un testo ad una linea melodica. Capita di vedere qualcuno cadere dalle nuvole quando parli di “barbarismi”. Nelle prove accademiche legate al 500/600 (doppio coro, per esempio) vanno spesso informati sulle regole di versificazione e di scansione correttamente intese per quel periodo. L’analisi sistematica di molta musica di quel periodo, fortunatamente, pone rimedio a queste lacune e li rende consapevoli anche ricavandone delle regole tramite l’osservazione “sul campo”. Per quanto riguarda invece un utilizzo del testo su brani di loro composizione, personali, con tecniche attuali, noto spesso una certa ignoranza sulle potenzialità fonetiche. E’ sorprendente vedere la loro meraviglia quando scoprono le caratteristiche fonetiche dei contoidi! Spesso la stessa meraviglia che ho provato io da studente nella classe di Giacomo Manzoni.

M. Zuccante: Finiamo in tono più “leggero”. Spendiamo alcune parole sui testi di tua invenzione. Mi riferisco in particolare ad alcuni divertissements, dove dai libero sfogo alla tua vis comica: il “quadretto sonoro” Siamo senza vino (“Da cantarsi preferibilmente durante pranzi, cene e rinfreschi”) e il più articolato Pausa al Café Petrarca (dove inventi un rapidissimo refrain parlato, di stampo  rossiniano: «presto presto arrivo tosto, con bevande e con dei toast, se non corro perdo il posto, impossibile far sost’»). Il tuo sense of humour tradotto in musica?

G. Bonato: Premesso che l’ironia (sebbene mia moglie e chi mi sta intorno non siano sempre d’accordo…o non se ne accorgano) fa un po’ parte del mio modo di vedere la vita, i casi che tu citi, con tutta sincerità, sono fatti episodici e legati a particolari occasioni. Quello che tu definisci il mio sense of humour  è più espresso finora nella mia produzione strumentale. A tal proposito ti anticipo che sto ultimando un brano orchestrale (della durata di un minuto!) per l’Orchestra Filarmonica di Torino, che verrà eseguito nel prossimo concerto di S. Silvestro. La mia produzione vocale/corale invece ne è ancora scarsa, forse per il mio timore di non essere all’altezza (sovente capita di sentire brani che provocano un effetto opposto all’intento del compositore!), forse perché le occasioni propostemi non vanno solitamente in questa direzione e pertanto non ho sviluppato tale finalità. Certo, le idee non mancano e mi rendo sempre più conto che il coro è un terreno fertile per situazioni del genere. Per il momento mancano tempo e, come dicevo, valide opportunità per realizzarle come voglio io.

[Choraliter, n. 27 Settembre-Dicembre, Ed. Feniarco, 2008]




Giovanni Bonato, Four For Peace, per 4 violoncelli
GIOVANNI BONATO (Schio, 1961) è un compositore e docente di discipline musicali italiano.Ha iniziato gli studi di composizione con Fabio Vacchi a Vicenza, proseguendoli e perfezionandosi con Adriano Guarnieri e successivamente diplomandosi nel 1986 con Giacomo Manzoni al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano; ha inoltre studiato direzione d’orchestra alla Scuola Civica di Musica di Milano.Segnalatosi ben presto grazie a numerosi premi e riconoscimenti in concorsi internazionali di composizione, la sua musica viene eseguita da interpreti quali il Quartetto Arditti, Marco Fornaciari, Arturo Tamayo, l’Ex Novo Ensemble, Domenico Nordio, Leonard Slatkin, Mario Brunello, i Neue Vocalsolisten Stuttgart, Filippo Maria Bressan in festival e rassegne internazionali (tra cui la “Settimana Musicale Senese”, il “Festival Pontino”, il “Settembre Musica” di Torino, il “Gaudeamus Music Week a Amsterdam, il “Festival delle Nazioni”, la rassegna concertistica di “Nuova Consonanza” a Roma). Sue musiche sono state inoltre programmate da enti quali l’Orchestra “Toscanini” di Parma, l’Orchestra del “Teatro Verdi” di Trieste, l’Orchestra Sinfonica Siciliana, l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma.È stato più volte chiamato a far parte di giurie in premi nazionali ed internazionali di composizione ed esecuzione musicale; attualmente è docente di composizione al conservatorio “C. Pollini” di Padova, nonché docente di analisi (musica contemporanea) e composizione ai corsi estivi organizzati dalla FENIARCO.È stato designato “compositore in residenza” per la stagione concertistica 2002-2003 dell’Orchestra di Padova e del Veneto.

È autore di alcuni brani cameristici (vocali e strumentali), corali e sinfonici editi da Ricordi, Rugginenti, Agenda, Salabert, A Coeur Joie, Edizioni Suvini Zerboni, Edizioni Feniarco ed altri.

Si è specializzato nella musica corale, alla quale ha dedicato gran parte della propria produzione compositiva.

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