Marco Berrini – intervista

M. Zuccante: Caro maestro Marco, a te il compito di aprire il nuovo spazio che la rivista Choraliter intende riservare al mestiere del direttore di coro. Un’arte alla quale ci si appassiona per motivi diversi. Vuoi riassumere brevemente quali sono stati, nel tuo caso, i fattori stimolanti?

M. Berrini: Senza alcun dubbio, voglio anzitutto ricordare l’incredibile esperienza che è stata per me cantare in un coro. Ho iniziato molto presto come voce bianca, proseguendo senza interruzioni di sorta anche dopo la muta della voce, fino a occupare, precocemente e con una buona dose di incoscienza, il ruolo di direttore. Sono di fatto cresciuto, anagraficamente e musicalmente, in un coro, che quasi per gioco mi sono trovato un giorno a dirigere. Un’esperienza della quale soltanto a posteriori ho capito la reale portata e la fondamentale incidenza sul mio essere musicista, tanto da ritenerla oggi l’unica veramente formativa a livello musicale. Consiglierei di anteporla a qualunque studio strumentale e di coltivarla comunque parallelamente, anche dopo aver scelto di specializzarsi in un qualsiasi strumento. Sì, ogni musicista dovrebbe poter includere nel proprio percorso formativo un’approfondita esperienza corale.

M. Zuccante: Tra le altre competenze, alla base della tua professionalità c’è una preparazione pianistica notevole. Posso affermare ciò perché ti ho ascoltato suonare il pianoforte con estrema disinvoltura. Quanto e in che circostanze ti facilita questa abilità nell’esercizio di dirigere il coro?

M. Berrini: Lo studio del pianoforte è stata una diretta conseguenza dell’esperienza corale: cantare provocava in me un tale piacere da chiedermi un ulteriore avvicinamento alla musica. Il pianoforte e l’organo sono stati, pertanto, i miei primi contatti con uno strumento e con una letteratura diversa da quella vocale. La pratica e l’approfondita conoscenza della tastiera mi sono infatti di aiuto in molte circostanze: dalla lettura delle partiture, al momento di studio con le formazioni vocali, nelle audizioni e nel lavoro con i cantanti. Mi rende autonomo e indipendente nel mio lavoro e questo è tanto utile quanto piacevole per me. Quindi se da un lato studiare approfonditamente uno strumento ha significato in realtà tornare alla mia passione iniziale per il canto con maggiore competenza e consapevolezza, dall’altro questo mio primario contatto con la voce si è rivelato e si rivela determinante anche quando suono o dirigo un’orchestra. Cerco sempre di portare nella pratica pianistica e strumentale quel bisogno di respiro che troppo spesso manca a chi suona uno strumento. La necessità del respiro (che nel canto e nell’espressione verbale diviene irrinunciabile veicolo di intenzioni espressive) è bisogno primario della musica come lo è per l’esistenza stessa dell’esecutore. L’assenza di respiro in musica uccide la musica stessa, come l’assenza del respiro è prerogativa di un corpo morto. Non è facile, da semplici strumentisti – figli della scuola italiana – capire di primo acchito questo postulato se non si ha una solida esperienza vocale alle spalle. Nella pratica strumentale, tutto rimanda alla voce e all’atto del cantare: i primi a capirlo furono, secoli fa, i trattatisti che hanno codificato nei loro testi informazioni e indicazioni mediandole dalla coeva pratica vocale, ossia usando la voce come modello per le istanze del nuovo idioma strumentale. Molte volte mi sono trovato a chiedere ai miei studenti di conservatorio (ottimi strumentisti, ma privi per formazione di qualunque esperienza vocale) cosa significasse per loro il termine cantabile col quale spesso si trovano a confrontarsi nella loro pratica strumentale; bene, la risposta è sempre stata univoca: «Cantabile deve essere qualcosa che attiene al cantare, che avvicina il mio far musica al modo del canto». Ma la risposta non è mai arrivata quando replicavo: «Ma per te che non hai mai cantato e sei in procinto di conseguire un diploma, cosa significa cercare sul tuo strumento un suono che attenga al cantare»? Paradossale, ma vero!

M. Zuccante: Nei concerti da te diretti, ai quali ho avuto il piacere di assistere, mi ha sempre colpito la cura riservata all’articolazione della parola. Ho l’impressione che nelle tue interpretazioni il disegno della frase musicale scaturisca da un minuzioso lavoro di limatura fatto attorno alla singola parola. Condividi?

M. Berrini: Ti ringrazio molto per questa tua osservazione, che mi rende molto felice perché rende giustizia a quella che è la mia idea fondamentale del far musica con la voce, con il coro: chi canta, canta la parola! E anche in questo, lo scontro con i presupposti dello studio accademico, si fa ruvido. Ci hanno sempre insegnato a “leggere le note e a suonarle tutte esattamente intonate e a tempo” (presupposto sicuramente imprescindibile), quasi che la fedele e corretta riproduzione dei suoni possa esaurire in sé stessa il nostro rapporto di interpreti con l’opportunità semantica che il codice scritto ci offre. Per chi fa musica con la voce, la parola rappresenta quel che può trasformare la pagina che avviciniamo, silenziosa e ferma nella sua staticità grafica, in un veicolo di comunicazione espressiva, in un medium tra sé e gli altri. La parola è già musica: lo diceva già Cicerone parlando del cantus obscurus; in essa già convivono tutti quegli ingredienti che la rendono espressione musicale per eccellenza (altezza dell’intonazione, ritmo, opportunità timbrica, intenzione espressiva … ). E la prerogativa che connota la parola, l’accento, non ha forse un’etimologia (ad cantus, verso il canto) che lo lega intimamente all’atto del cantare? L’accento è il canto della parola stessa, è la sua naturale intonazione, e questa deve mantenersi altrettanto espressiva in musica. Quando il compositore ha saputo rendere giustizia alla parola, dipingendola con un gesto grafico che asseconda il suo corretto modo di pronunciarla, è compito della sensibilità dell’interprete lasciar risuonare la sua intrinseca e connaturata musicalità nel suono che emette. Perché, domando sempre ai direttori con i quali ho il piacere di confrontarmi, pur riconoscendo un valore espressivo e musicale alla parola e non potendo fare a meno di sentire la grande potenza espressiva della musica che la riveste, alla fine riusciamo a far sì che la feconda unione di parola e suono risulti sterile, monocorde? Forse il condizionamento stilistico di certe esecuzioni d’oltralpe pesa sulle nostre idee …

M. Zuccante: Nella tua carriera hai avuto modo di spaziare nei diversi generi della musica corale e di eseguire musiche di autori di epoche diverse. Ma qual è il repertorio dove ti senti più a tuo agio e dove pensi di saper esprimere al meglio la tua sensibilità artistica?

M. Berrini: Agli inizi della mia attività di direttore ho indirizzato le mie scelte verso la letteratura del periodo rinascimentale e barocco, anche in ragione del fatto che il gruppo con cui lavoravo in quel periodo non mi consentiva di avvicinarmi consapevolmente e con cognizione di causa da un punto di vista tecnico e musicale ad altri repertori. Ho sempre creduto, e ancor oggi lo credo fermamente, che i propri desiderata di interprete musicale vadano consapevolmente filtrati e mirati sulle reali potenzialità del gruppo di cui si dispone. In quegli anni, davvero fecondi per lo studio, il lavoro di formazione con Domenico Zingaro e di approfondimento con Giovanni Acciai ha contribuito in maniera sostanziale a strutturare il mio pensiero di interprete. Oggi ho il piacere di poter avvicinare letterature corali di epoche diverse: la formazione che dirigo me lo consente e credo che, nel tempo, anche io sia cresciuto con loro. Resto sempre però particolarmente attratto e stimolato dalla letteratura più antica, anche perché la lunga e intensa frequentazione della stessa mi ha aiutato a leggere e interpretare meglio quel che è seguito. In ogni caso, quale che sia l’autore e il periodo da affrontare, cerco sempre di pormi in modo intellettualmente onesto di fronte alla pagina da interpretare, e solo dopo aver dedicato cura e tempo all’analisi e allo studio della partitura lascio che le istanze estetiche e stilisti che di un linguaggio musicale risuonino in me: la pagina musicale parla all’interprete che umilmente si predispone ad ascoltarla.

M. Zuccante: Una performance corale prevede varie fasi di lavoro. Dico le più importanti. Lo studio della partitura, l’istruzione delle sezioni del coro, la concertazione, l’esecuzione vera e propria. In quale momento concentri l’impegno maggiore? Vien da pensare che un coro ben addestrato possa cantare senza direttore. Eppure, c’è chi considera irrinunciabile il gesto del direttore, anche (o soprattutto) in concerto. Come la pensi?

M. Berrini: Il cammino che porta dalla scelta di un brano, al suo studio individuale e corale, alla concertazione e infine alla esecuzione è una sorta di cammino di iniziazione. Il primo a dover essere “iniziato” al significato della musica da eseguire è proprio il direttore. Prediligo pertanto uno studio molto approfondito della pagina da eseguire; questo mi aiuterà a condurre con più facilità il gruppo che con me dovrà condividere l’esperienza musicale lungo le strade della comprensione del brano. Una comprensione che dovrà nutrirsi di cognizioni storiche, estetiche, tecniche, vocali, corali. .. Il coro deve conoscere, comprendere e condividere i percorsi interpretativi del direttore, che si esprimono – durante le fasi di lavoro collettive – attraverso un uso sapiente della parola parlata, un uso ancor più intenso ed efficace della parola cantata nelle esemplificazioni vocali, in un gesto che istante dopo istante diviene sempre più visualizzazione del pensiero, non mera pulsazione metronometrica avulsa da quel dire espressivo che abita il suono. Un coro tecnicamente ben addestrato può arrivare a cantare senza un gesto direttoriale accademicamente inteso, ma può ugualmente non poter fare a meno di aver di fronte quella figura che nel momento della esecuzione è solo e semplicemente promemoria visivo di un percorso di iniziazione, condiviso e compreso, al di là del gesto chironomico. Il gesto del direttore può arrivare a sganciarsi da tutti i presupposti tecnici che lo abitano per divenire, nel momento della esecuzione, “medium” di una comunicazione, unica, intima ed esclusiva, con il coro che ha di fronte. È un gesto d’amore.

M. Zuccante: Il tuo palmarès è ricco di successi ottenuti in concorsi nazionali ed internazionali. Credo che in primis sia doveroso ricordare la splendida affermazione del 2003 all’Internazionale di Arezzo. con il conseguimento del Gran Prix. Vuoi raccontarci le emozioni di quei giorni.

M. Berrini: Il ricordo di quei giorni, e di quelli che gli sono seguiti riporta alla mente emozioni molto forti, anche contrastanti fra loro. Ripenso senz’altro in prima istanza al lavoro condiviso con il coro e ai brillanti riconoscimenti ottenuti, ma anche a un certo malsano clima della coralità italiana, che dietro a luminescenti vetrine nasconde, a volte neanche troppo, grandi povertà …

M. Zuccante: A giudicare dai tuoi impegni ti occupi molto di formazione. In forma stabile od occasionale, tieni corsi, stages e masterclass per direttori di coro in varie località italiane e straniere. Mi incuriosisce sapere se, dopo anni di questa attività, riconosci la tua impronta in qualche giovane direttore; insomma, se, come si dice, pensi di aver fatto scuola.

M. Berrini: Non è mai stato un mio obbiettivo quello di creare una “scuola di pensiero”. Sicuramente ci sono persone a me più vicine, con le quali oggi vivo lo stupore fecondo di un rapporto di discenza trasformato in vera amicizia, e che in maniera più diretta di altre hanno condiviso con me esperienze formative, didattiche e musicali forti e caratterizzanti, che oggi si riconoscono, come me, entro i confini di una determinata linea di pensiero musicale e più in generale di una idea del “far coro”. Mi preme comunque dire, che ho ricevuto moltissimo in ogni esperienza corsuale che ho avuto il privilegio di condividere con cantori e direttori: la mia crescita è passata prepotentemente anche attraverso questi incontri, nei quali il desiderio di approfondimento e conoscenza dei discenti è indiscutibilmente diventato uno stimolo per il sottoscritto.

M. Zuccante: Una questione spinosa. Ho assistito lo scorso anno alle selezioni per il Premio Nazionale delle Arti, riservato ai cori di conservatorio. Francamente, c’è stato poco da entusiasmarsi per il livello espresso dalle compagini che si sono esibite. Approfitto pertanto della tua schiettezza e del tuo ruolo di docente di esercitazioni corali, per chiederti i motivi per cui, all’interno dei conservatori italiani (cioè dei luoghi deputati all’alta istruzione musicale), stentano a formarsi gruppi corali di valore e di riferimento.

M. Berrini: Rispondo a questa domanda con la curiosità di chi verrà a contatto (in qualità di membro della commissione di ascolto) per la prima volta alla fine di questo mese di aprile con questa esperienza concorsuale nella quale vengono coinvolti i cori dei conservatori italiani. Lavoro ormai da un ventennio nei conservatori italiani e posso solo dire una cosa a questo riguardo: come per tutte le esperienze concrete della vita, quando accade (o non accade) qualcosa c’è sempre qualcuno che vuole che sia così. Nei conservatori italiani non ci sono cori? Quelli che ci sono non cantano o esprimono un livello decisamente basso? La risposta a questi interrogativi è presto data. Gli studenti dei conservatori italiani non hanno nulla da invidiare a nessuno studente di nessun altro conservatorio europeo. Dobbiamo soltanto porci con estrema franchezza alcune domande: in quale misura la gestione didattica dei conservatori italiani (e sto parlando in modo concreto, pensando ai direttori) promuove la coralità in seno al conservatorio? Obbligando gli studenti a un numero irrisorio di anni di frequenza alla classe di esercitazioni corali, in un momento della vita formativa dello studente che è magari non è neanche fisiologicamente idoneo (leggi, per le voci maschili: quello della muta della voce)? Esonerando gli studenti delle classi di canto a partecipare alle lezioni di esercitazioni corali? Ebbene sì, i cantanti vengono esonerati perché l’attività corale “danneggia il loro strumento” … Continuiamo pure a creare degli illusi! Coloro i quali dovrebbero far tesoro di una esperienza didattica che potrebbe essere – nel loro poco roseo futuro – l’unica valvola di sfogo per poter continuare a far musica dopo lo straccio di diploma che verrà loro rilasciato, vengono esonerati dalla stessa! Ma lo sanno questi cantanti che chiedono esoneri a raffica presentando false certificazioni mediche (se ci fosse lo spazio avrei una letteratura in proposito … ) che alcuni fra gli attuali più grandi cantanti al mondo (facciamo solo un paio di nomi: Anne Sofie von Otter, mezzosoprano svedese, e Brin Terfel, baritono gallese) provengono da qualificatissime esperienze corali? Ma forse, in Svezia e in Scozia, la voce ai cantanti che studiano non si rovina come in Italia! Che dire poi, quand’anche non ci si imbatta in situazioni come quella sopra descritta, delle scelte di repertorio delle classi di esercitazioni corali? Gli studenti dei conservatori italiani devono cantare, devono frequentare la pratica vocale come un nutrimento formativo per la parallela pratica strumentale: la voce, il coro, deve tornare – anche qui da noi – a essere un punto centrale del progetto formativo. I giovani che frequentano i conservatori italiani vanno formati alla coralità dalla base, con le difficoltà che si incontrano solitamente lavorando con un coro di dilettanti: hanno poca esperienza nella lettura cantata (mi esimo dall’esprimere opinioni sulle competenze acquisite dagli studenti nelle classi di teoria e solfeggio), nessuna esperienza vocale e tantomeno corale; non sono abituati a pensare all’intonazione di un suono come a un fatto legato alla volontà della coscienza … Quindi, in sostanza, cosa fargli cantare? Ma, come per tutte le esperienze della vita, ci sono le “eccezioni che confermano la regola”: laddove in un conservatorio si uniscono lungimiranza e competenza didattica e c’è una volontà “che vuole”, i cori cantano … e bene!

M. Zuccante: Una delle iniziative in cui sei stato di recente particolarmente attivo è quella della conduzione del Coro Regionale Valdostano e, fuori dai confini nazionali, del Coro Nazionale Giovanile Argentino. Forme analoghe di aggregazioni corali attorno a un progetto si ripetono altrove e in diversi contesti. Vuoi brevemente parlarci del senso di queste esperienze?

M. Berrini: L’esperienza del Coro Giovanile Nazionale Argentino è stata incredibile. Una formazione solidissima, formata da giovani tra i 18 e i 29 anni selezionati su scala nazionale e provenienti da tutto il territorio argentino (che conta una superficie pari a cinque volte quella italiana): il meglio del meglio dal punto di vista musicale e non soltanto per la qualità vocale! Ricordo che nei giorni immediatamente successivi alla mia produzione musicale a Buenos Aires (con un repertorio completamente dedicato alla letteratura italiana del ‘900) si sarebbero svolte selezioni nazionali per integrare l’organico alla fine della stagione sarebbe stato privato di un paio di voci per raggiunti limiti di età. Gli iscritti alla selezione per soli due posti erano più di 150! Sì, perché il Coro Giovanile Nazionale Argentino è un coro trattato professionalmente dallo Stato, che stipendia i cantanti che ne fanno parte per tutti gli anni di permanenza nella formazione. Come se non bastasse, in Argentina ci sono anche il Coro Nazionale dei Bambini, il Coro Nazionale dei Ciechi e il Coro Nazionale (degli adulti): anch’essi tutti regolarmente stipendiati. Necessità di commentare? Uno dei paesi al mondo che dopo anni di estrema congiuntura e difficoltà economica sta ora rialzando un poco la testa, ci dà una grande lezione di civiltà. Un intero popolo che canta … e come canta! Un bilancio decisamente positivo è anche quello che posso tracciare dopo la bella esperienza alla guida del primo Coro Regionale Valdostano: 17 cori su 31 hanno aderito all’iniziativa per un totale di 72 cantori abbastanza equilibrati numericamente nella distribuzione fra i registri vocali, soprattutto se si tiene conto della “fisiologica” mancanza di voci maschili. Ricordo ancora l’entusiasmo con il quale fu accolta la proposta dell’iniziativa da parte della commissione artistica e soprattutto del presidente dell’associazione dei cori valdostani, Marinella Viola, che non ha esitato a valutare concretamente la fattibilità dell’operazione. Ghiotta si rivelava poi l’opportunità di far coincidere il primo concerto di questa formazione regionale con il decennale dell’Arcova. Un progetto lungimirante, che spero venga portato avanti in futuro da questa piccola ma operosa associazione regionale; un’opportunità concreta, al di là di tante parole, per far crescere il senso di appartenenza attorno al valore del cantare insieme.

M. Zuccante: Nel tuo lavoro, oltre alla direzione stabile del prestigioso Ars Cantica Choir & Consort, collabori in Italia e all’estero con varie istituzioni corali professionali e non. In virtù di questa privilegiata posizione di osservazione e della tua esperienza, come giudichi le opportunità che si offrono oggi a un giovane che volesse intraprendere il mestiere di direttore di coro? Quali consigli ti senti di dargli?

M. Berrini: Ho il piacere di poter collaborare stabilmente con i cori dei teatri di Siviglia e Malaga, in Spagna, e questo mi ha offerto l’opportunità di confrontarmi con realtà musicali, e di formazione musicale, molto differenti dalla nostra. Gli studenti che si preparano alla professione del direttore di coro, all’estero, godono innanzitutto di una opportunità quasi totalmente negata in Italia: quella di poter studiare, almeno in alcuni momenti della loro carriera di studenti, di fronte a una formazione corale. È risaputo che in Italia al direttore di coro sono offerte pochissime opportunità per studiare con un coro: è incredibile, ma è la realtà, ormai consolidata e confermata da anni. Inoltre il direttore di coro italiano non ha reali sbocchi occupazionali: le formazioni professionali legate agli enti lirici e alle istituzioni sinfoniche usano criteri molto “originali” per la selezione degli eventuali maestri del coro, e comunque sempre senza indire alcuna forma di concorso pubblico; sono pochissime Ce piuttosto blindate anche esse) le istituzioni religiose propense a considerare in modo professionale la figura del maestro di cappella. E poi, in Italia, o sei direttore d’orchestra o non sei nessuno … Quindi le prospettive non sono rosee: una formazione “all’acqua di rose”, nessuna certezza lavorativa concreta nel campo specifico. Ma io mi sento di invitare i giovani e gli appassionati a non mollare. Soffriamo della mancanza di alcune fondamenta culturali a livello musicale (e non solo) che penalizzano pesantemente tutto il settore. A noi direttori di coro sta il compito di lavorare sul territorio, diffondendo quella cultura del far musica in prima persona che sola può recuperare alla musica (quella con la M maiuscola!) il posto che le spetta nella prospettiva culturale del nostro paese; lavorare all’interno di quel fecondo terreno di coltura che sono i cori amatoriali, con dedizione, pazienza, umiltà. facendo crescere una consapevolezza musicale individuale che possa poi esprimersi a livelli sempre più qualificati. Quella della bellezza è la migliore voce per rendere giustizia a chi fa sempre più fatica a farsi ascoltare.

[Choraliter, n. 31 Gennaio-Aprile, Ed. Feniarco, 2010]




Mauro Zuccante, “La Contessina Andreina Viola”, da Tre Piccoli Epitaffi, Coro da Camera del CONSERVATORIO DI ALESSANDRIA – Marco Berrini, direttore
Marco Berrini è Direttore di Coro, Direttore d’Orchestra e Didatta. Ha completato la sua formazione accademica con gli studi musicologici.Vincitore di Primi Premi nei più importanti Concorsi Corali Nazionali e Internazionali, è stato Finalista alla Prima edizione del Concorso Internazionale per Direttori di Coro “Mariele Ventre” di Bologna (2001) dove ha vinto il 3° premio ex-aequo.Dal 1989 al 1992 è stato Maestro Sostituto Direttore del Coro da Camera della Rai di Roma col quale ha effettuato registrazioni per RAI Radio Tre.È direttore artistico e musicale del complesso vocale professionale Ars Cantica Choir & Consort, e fino al giugno 2010 del Quartetto Vocale S. Tecla, formazione professionale del Duomo di Milano; ha fondato e dirige il Coro da Camera del Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria.

Ha diretto in Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Svizzera, Austria, Israele, Argentina, Emirati Arabi.

E’ stato Direttore Ospite al Co.Na.Jo. (Coro Nazionale Giovanile) dell’Argentina e del Coro del Teatro Municipale di Cordoba (Argentina). Collabora in qualità di Direttore Ospite con il Coro del Teatro dell’Opera di Malaga (Spagna), con il Coro del Teatro de La Maestranza di Siviglia e con l’Orchestra e Coro della Comunità di Madrid (ORCAM), (Spagna). Ha curato la pubblicazione di musica vocale per le case editrici Suvini Zerboni, Carrara, Rugginenti, Discantica, BMM, Carisch.

È regolarmente chiamato a far parte della giuria di concorsi corali nazionali ed internazionali e a tenere master di formazione e perfezionamento per cantori e direttori in Italia e all’estero.

Dal 2009 è direttore artistico della Milano Choral Academy, scuola internazionale di formazione perfezionamento per direttori di coro e cantori.

È titolare della cattedra di Esercitazioni Corali (vincitore di concorso nazionale) presso il Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria.

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