Guido Gozzano – La Notte Santa

La Notte Santa

di Guido Gozzano

Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

– Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

– Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

– O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
– S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
– Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.

Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.

Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!

Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

GGozzanoGuido Gozzano



“La Notte Santa” di G. Gozzano, musica di M. Zuccante,
recitazione di P. Cagnazzo, PolifonicoMonteforte


 

LaNotteSanta-YT

“La Notte Santa” di G. Gozzano, musica di M. Zuccante,
recitazione di P. Cagnazzo, PolifonicoMonteforte

 

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Bepi De Marzi – intervista

M. Zuccante: Innanzitutto, grazie, maestro Bepi, di aver accettato di colloquiare con me. Sono sicuro che i lettori di Choraliter gradiranno approfondire, attraverso le tue stesse parole, alcune delle tematiche inerenti alla tua opera. Un capitolo cospicuo della tua produzione raccoglie i canti di ispirazione popolare legati, più o meno direttamente, all’ambiente alpino. A distanza di diversi decenni dal suo fiorire, ed in un momento che coincide con il compiersi di un arco generazionale, prova a tracciare un bilancio della stagione dei cori di montagna.

B. De Marzi: A Milano c’è un coro di poche ma ottime voci molto giovani. Il repertorio che propone, eseguito con fedeltà e accuratezza, è quello classico, elaborato a Trento dai Pigarelli, i Pedrotti, poi i Mascagni, i Dionisi e l’ispiratissimo grande pianista Benedetti Michelangeli. Chiedere a questi giovani “perché cantano” potrebbe essere illuminante per capire l’attuale situazione corale. La montagna? In montagna non si è mai cantato così. Nelle valli alpine, questo genere vocale e armonico è arrivato dalle città con l’escursionismo. Alla fine degli Anni ’60, in un convegno a Cortina, si è detto che i cori maschili erano tutti “trentinizzati”. Ma se non ci fosse stato il Coro della SAT, nessun coro maschile sarebbe sorto nel secondo dopoguerra. Questo è un tempo sospeso, dove nell’incertezza del futuro si propone di tutto. Ma io vorrei tornare a quel “perché”, ben sapendo che rimarrebbe senza risposta. E non basta ricordare la celebre frase “perché la montagna è là!”. L’alpinismo classico è finito da tempo. Anche l’escursionismo di massa. Oggi si va nei boschi con il fuoristrada e sui sentieri con la moto da cross. E mi viene da piangere.

M. Zuccante: Alcuni detrattori ti accusano di confondere i generi. I tuoi canti sarebbero invenzioni personali che rischiano di contaminare la purezza e l’autenticità del repertorio storico di tradizione orale, esito di operato anonimo e collettivo. Premesso che l’intero repertorio dei cori alpini è, di fatto, un’invenzione, pensata per le sale da concerto – a partire dal modello-SAT –, condividi l’idea che l’apporto creativo dell’artista-individuo giochi, invece, un ruolo determinante, ai fini della sublimazione poetica dei contenuti e delle storie raccontate nelle cosiddette canzoni popolari?

B. De Marzi: Nel mirabile repertorio SAT ci sono dei generici canti d’autore che nessuno ha mai discusso perché proseguono dallo stile riconosciuto. Molte delle mie storie cantate dicono della mia partecipazione alla vita sociale, gridano la mia indignazione, invitano al rispetto della memoria, alla pace. Nella tradizione, non mi sono mai posto il problema della purezza, consapevole che un canto autenticamente popolare viene falsato appena lo si tocca, appena lo si elabora armonicamente e vocalmente. Certo: il mio modello iniziale è stato il coro trentino con i suoi inimitabili musicisti-armonizzatori. Oh, le armonizzazioni! Si è sempre parlato solo di armonizzazioni, per i nostri repertori. Mi intenerisce sentire tanti coristi delle centinaia di gruppi maschili che, nominando Beethoven, dicono che ha fatto “nove armonizzazioni”. Un coro piuttosto noto, nel registrare “La contrà de l’acqua ciara” ha scritto: “Testo di Giuseppe De Marzi, armonizzazione di Bepi De Marzi”. C’è ancora della confusione, qua e là. I detrattori? Dicono che sono “troppo semplice, troppo cantabile, tardoromantico”; scrivono che non pratico le dissonanze, che ignoro la tecnica moderna. Ma le cattiverie più organizzate sono venute dai cacciatori dopo che ho scritto “La Sisilla”, e soprattutto “Scapa, oseleto”, Scappa, uccellino, violino della siepe…

M. Zuccante: Il tuo linguaggio musicale esclude ogni sorta di complessità e persegue piuttosto la via della linearità nella scrittura, della semplicità espressiva e dell’immediatezza comunicativa. Sia nella prestazione esecutiva che in quella della percezione, insomma, le tue canzoni si attengono a quello che potremmo definire un “lessico popolare”. Eppure mi pare che qua e là affiorino modelli di origine colta. Tra gli altri esempi, mi vengono in mente la policoralità di Pavana, l’esordio in stile imitato di Nikolajewka, gli stretti ritmici presenti nelle ultime righe di Sanmatìo. Qual è dunque il debito che ti vincola alla formazione di musicista colto?

B. De Marzi: Grazie per essere entrato nel giusto significato del mio lavoro. L’immediatezza comunicativa me la impongo continuamente perché mi chiedo: “Chi canterà le mie storie? uomini, donne, ragazze, ragazzi che per lo più non sanno leggere la musica…”. Ecco: voglio facilitare il loro impegno. Potrei elaborare tessiture più complesse, certo. Ma a me basta, come diceva il mio grande amico Rigoni Stern “fare compagnia a qualcuno” con le mie storie cantate.  Però vorrei che dai concerti corali si uscisse con la memoria di qualche passaggio melodico, di qualche motivazione poetica e sociale, per continuare a vivere la tormentosa felicità di quel “perché”. Ciò che ho scritto lungo gli anni è stato dettato in parte dai miei studi giovanili, che sono anche i tuoi. Venendo dal conservatorio e operando nella musica nei diversi campi, ci si lascia tentare dalle grandi forme polivocali, pur se consapevoli che tutto il meglio sia già stato realizzato.

M. Zuccante: Tra le qualità più apprezzate nelle tue creazioni c’è quella di una semplice, ma attraente e coinvolgente vena melodica. Ritieni che questo sia il dato che più di ogni altro favorisca la popolarità del tuo repertorio?

B. De Marzi: Ne ho la certezza. “Cosa fai di mestiere?”, mi ha chiesto un mite fraticello della Verna nel tempo in cui ancora andavo a confessarmi. Di solito, a chi mi fa una simile domanda rispondo “faccio l’idraulico”. Quella volta, lassù, non potevo mentire:: “Il melodista”, ho risposto. “Oh, Gesù, e che mestiere sarebbe?”. Proseguendo dai pensieri precedenti, confermo il mio costante impegno nel realizzare piccole immagini cantate, facili da memorizzare. Molti dei miei canti vengono da tempo accompagnati con la chitarra o con altri strumenti. Vivono perciò per la sola melodia. A Lourdes, una volta che facevo servizio in un pellegrinaggio, mi sono avvicinato a dei coristi italiani che intonavano un mio mottetto con organo. “Lo sa anche lei?”, mi hanno chiesto. Sono queste, le piccole e inattese felicità.

M. Zuccante: Tra le tue canzoni, La contrà de l’Acqua ciara è quella che preferisco. Ogniqualvolta mi capita di ascoltare questo struggente motivo, la familiarità con i luoghi, in cui entrambi viviamo – ora ahimè imbruttiti da scempi indecenti -, accresce la partecipazione emotiva. L’amara malinconia di questa canzone consolida in me l’immagine di Bepi De Marzi cantore dell’inesorabile fine del mondo contadino-montanaro veneto. Mi sbaglio?

B. De Marzi: Mi conosci bene, ma bene. La mia è una infinita disperazione. Io, il “perché” l’ho sempre avuto, l’ho sempre espresso in diversi modi. Piango un mondo umiliato e offeso. Urlo anche per lo scempio delle città: “Come fosse morto il mondo, se la città d’autunno non ha più foglie gialle nei viali di cemento nero. Le foglie non sono mai nate, son rimaste nel cuore dei rami duri come pietra…”. Questo canto ha sorpreso i miei amici milanesi. Nella contrada che ho cantato, come in altre delle nostre montagne, ora vivono molti immigrati; e sono tornati i giochi dei bambini, magari in lingue diverse. Ecco un’altra felicità che consola i miei giorni inquieti.

M. Zuccante: Hai percorso la tua carriera a fianco di una nutrita schiera di musicisti, con i quali hai condiviso con successo un progetto di crescita e valorizzazione del canto corale. Quali, tra i compositori e direttori di coro della tua generazione, consideri più affini alla tua esperienza artistica?

B. De Marzi: Ho conosciuto e ammirato le dilatazioni vocali di Malatesta, le seduzioni armoniche di Bon, il sapiente fervore di Agazzani, la nobiltà internazionale di Gervasi, la passione popolare di Vacchi, l’arguzia di Corso, la poliedricità di Bordignon, il puntiglio popolare di Vigliermo, l’acutezza di Leydi. Ma il mio pensiero riconoscente va ai miei maestri di pianoforte, di organo, di composizione. E quanti sogni! Determinante è stato il mio entrare nei Solisti Veneti come clavicembalista e organista. Da Claudio Scimone ho imparato che nella musica non si deve mai finire di cercare, cercare e cercare. Anche nel dirigere i cori per Vivaldi, Mozart o Beethoven, il mio fraterno amico e maestro padovano ha sempre cercato la chiarezza per una emozionante comunicazione. Bandito l’intimismo, ha cercato, e ancora cerca, di parlare al mondo, di illuminarlo, di renderlo migliore. Si può fare con Vivaldi, con Bach! Ma anche con Pigarelli. Mi ha incoraggiato e aiutato Silvio Pedrotti, proprio il grande Silvio che ora più nessuno ricorda. Lui sì che manifestava il “perché” del cantare in coro. “Non basta cantare: bisogna far pensare”, mi ha scritto affettuosamente quarant’anni orsono.

M. Zuccante: Vorrei ora mettere a fuoco un paio di punti sul tuo ruolo di direttore di coro. I Crodaioli di Arzignano sono la fucina presso la quale hai plasmato gran parte delle tue creazioni. Mi sembra di cogliere in questo complesso vocale anche una certa originalità timbrica. Quali sono a tuo avviso i connotati fonici che distinguono I Crodaioli nel panorama dei cori alpini?

B. De Marzi: Forse eravamo un coro alpino. Le mie prime 6 raccolte pubblicate dalle Edizioni Curci avevano l’unico titolo “Voci della montagna”. Per la vocalità, è risaputo, bisogna adattarsi alle voci disponibili, plasmandole per la soluzione migliore nell’amatorialità. Nelle tre raccolte seguenti ci sono anche dei rifacimenti, delle rielaborazioni. Qualche canto tra i più diffusi l’ho proposto addirittura all’unisono. Ho creduto nella vocalità vagamente aggressiva, intensa, per una varietà dinamica tendente a provocare emozioni. Ultimamente ho un poco attenuato questo atteggiamento. Mi ripeto nel dire che questo è un momento di attesa. Perciò, rimanendo nel presente, dopo una pausa di un paio d’anni abbiamo deciso insieme di mutare l’impostazione vocale limitando l’estensione sui modelli polifonici a voci uguali. Ora i tenori primi hanno un timbro pieno e reale, non più di “falsetto”. Le armonie sono più intense con le voci “vicine”.

M. Zuccante: C’è un particolare nel tuo modo di condurre il fraseggio che mi ha sempre incuriosito. Quello cioè di “tirare la frase” senza interruzione e, alle volte, con alquanta lentezza, mettendo a dura prova le voci nel sostenere i suoni; quasi volessi cercare una continuità sonora in grado di oltrepassare i limiti del respiro. Penso ad un brano come Bènia Calastoria. Mi chiedo se si tratta di emulazione di sonorità strumentali, come possono essere, ad esempio, quelle dell’organo. Insomma, vezzo o scelta motivata da ragioni espressive?

B. De Marzi: Forse hai ascoltato qualche mio canto dai cori che non fraseggiano chiaramente. Benia Calastoria ha i respiri ben segnati. La mia esecuzione può dare l’impressione della continuità che tu sottolinei, ma è solo un’impressione perché c’è un pedale continuativo affidato prima ai bassi, poi ai baritoni, che riempie le brevissime sospensioni dei respiri. Pur usando per lo più l’omoritmia, tengo molto alle possibilità umane per un fraseggio naturale. Non ho mai contato i canti che ho fatto. Ma ci sono pedali all’alto, bassi ostinati, forme cicliche… La nona raccolta, edita sempre dalla Curci di Milano, contiene anche un canto in tre movimenti, Brina Brinella. C’è un Largo come introduzione, un Corale-Andante e una Fuga-Vivace costruita con soggetto, controsoggetto, modulazioni, divertimenti e stretti. In questo caso, il “perché” sta nel raccontare l’ansia del contadino per il raccolto minacciato dalle improvvise gelate primaverili.

M. Zuccante: Un lato non secondario della tua poliedrica personalità è rappresentato dalla vis polemica con la quale affronti pubblicamente tematiche relative alla vita musicale e non. Vorrei riservare ad esso le ultime riflessioni. Tralascio, e rimando ad una prossima puntata, lo spinoso argomento della musica liturgica, pur sapendo quanto ti stia a cuore e quanto ti sia speso per tutelarne il decoro. Qualche tempo fa fecero un certo scalpore alcune tue apocalittiche previsioni in merito al futuro del canto corale. Tra le altre, leggo queste affermazioni: «Il mondo corale amatoriale sta attraversando una profonda crisi, ma non solo per la mancanza di voci giovani, bensì per la confusione dei repertori. I testi in italiano non interessano più, tanto meno quelli nei vari dialetti». Sei ancora convinto di tutto ciò?

B. De Marzi: Manca la curiosità e la caratterizzazione. Il problema del ricambio delle voci nei cori maschili è sempe più sentito. Mi preoccupavo però della perduta dignità dei complessi corali che proponevano espressioni senza precise motivazioni. I cori misti nascono e si spengono in continuazione anche per la mancata ricerca di una personalizzazione. Per la musica sacra, e spero che se ne parli presto a più voci in queste pagine, non c’è niente da fare: siamo da tempo nel degrado. Le messe sono ovunque un’avventura locale e i canti prediligono i versi tronchi in “ai, ei, oi, ui”. Le musiche? Impera la “non melodia”. Hanno inventato la cantillazione, un recitativo con effetti esilaranti.

M. Zuccante: Infine, vorrei dire che reputo meritoria la tua indefessa azione di denuncia del degrado socio-culturale in cui siamo sprofondati da un paio di decenni a questa parte. Pensi che la crisi eclatante e finalmente riconosciuta ad ogni livello, si possa ergere a spartiacque tra un’epoca di infimo decadimento ed una nuova stagione di rigenerazione morale e riscoperta di valori culturali, morali e sociali più autentici? Insomma, c’è una speranza dietro l’angolo, o no?

B. De Marzi: Mia mamma era di Milano e mi diceva come “i veri milanesi non sono mai indifferenti davanti alle vicende del mondo”. La mia amata Milano, però, ha perduto molto del suo cosmopolitismo per diventare una specie di bigottificio provinciale. Mio papà, per il suo lavoro di tecnico elettromeccanico, aveva l’abbonamento per tutta la rete ferroviaria italiana e mi diceva: “Non accontentarti mai di ciò che ti dicono: vai a vedere e racconta la verità”. Per uscire da questo grigiore qualunquistico c’è solo da sperare nell’Europa, dove dobbiamo portare il calore della nostra rinnovata poesia.

[Choraliter, n. 37, Gennaio-Aprile, Ed. Feniarco, 2012]

Bepi De Marzi




B. De Marzi, “La Contrà de l’acqua ciara”, Coro “I Crodaioli”, B. De Marzi, dir.
Giuseppe (Bepi) De Marzi è nato ad Arzignano il 28 maggio 1935.Dopo i diplomi in organo e composizione organistica, pianoforte e gli studi di direzione e composizione si è dedicato alla musica da camera e al basso continuo diventando dal 1978 fino al 1998 l’organista e clavicembalista, nonché vicedirettore, de I Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone. Insegnante nel Conservatorio di Padova dal 1976. Attualmente è direttore del coro maschile I Crodaioli da lui fondato nel 1958.
È certamente uno tra i più conosciuti ed eseguiti compositori di canto d’autore di ispirazione popolare. Sue sono pagine celebri come Signore delle cime, Sanmatio, Benia Calastoria, Improvviso, Joska la rossa, tratte da poesie i cui testi spesso dialettali, composti di sovente dall’amico Carlo Geminiani, incontrano una tessitura compositiva armonico-melodica di natura strumentale.
Durante la sua carriera ha conseguito numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il “Premio Masi” per la Civiltà Veneta. È chiamato spesso quale membro di giuria in concorsi nazionali e internazionali, corali e di composizione.
Il 21 giugno 2012 ha ricevuto a Salice Terme il Premio Antonio Cagnoni alla carriera (Prima edizione di questa manifestazione).Spesso critico nei confronti dell’attuale situazione, da lui definita confusa, nell’ambito della musica liturgica, ha composto molta musica sacra. Tra gli anni Settanta e Ottanta, con il Coro polifonico “Nicolò Vicentino” da lui fondato e diretto, ha realizzato per la Fonit-Cetra di Milano la prima incisione dei Salmi elaborati con Padre David Maria Turoldo e Ismaele Passoni. Gli stessi Salmi sono stati incisi nuovamente nel 2006 con le voci del suo coro I Crodaioli, accompagnato all’organo da Francesco Finotti. Le Edizioni Curci di Milano hanno registrato e pubblicato nove raccolte di suoi canti corali.
Notevole la sua produzione di musica per le scuole primarie, materna e elementare, diffusa dalla Casa Musicale Carrara di Bergamo. L’editore Galla di Vicenza ha raccolto nel volume “L’esclusiva dell’evento”, una settantina di suoi articoli di critica musicale, di viaggi e di costume, tra i quasi mille pubblicati su vari giornali (in particolare su Il Giornale di Vicenza) lungo gli ultimi trent’anni. L’editore Panda di Padova ha pubblicato una bizzarra e vivace raccolta di suoi scritti con il titolo “Contrà de l’acqua ciara”.

01Bepi De Marzi, “Signore delle cime” – PolifonicoMonteforte, M. Zuccante, dir.

Bepi De Marzi, “La Contrà de l’Acqua ciara” – PolifonicoMonteforte, M. Zuccante, dir.

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Alearda Parisi Pettena – in memoriam

Alearda Parisi Pettena se n’è andata. Quanta tristezza in quel suo saluto premonitore. Un gesto di commiato, rivolto al pubblico al termine di quell’ultima e faticosa esibizione alla guida del coro Dames de la Ville d’Aoste. Il coro da lei fondato e con tanta passione curato negli anni.

Ho conosciuto Alearda una decina d’anni fa. Era già anziana. Ma ancora musicista attiva. Conquistava per la verve, la naturalezza ed il garbo, attraverso cui sapeva porsi come direttrice di coro e come persona.

Ricordo il diletto la prima volta che ebbi l’occasione di vederla dirigere. Mi trovavo in una posizione defilata, che mi consentiva però di apprezzare la vivacità degli occhi, la misura del gesto chironomico e gli spiritosi ammiccamenti delle spalle. Un insieme di amabili movenze che comunicavano leggerezza e piacevolezza, in perfetta sintonia con lo spirito della musica che andava interpretando.

Un privilegio realizzare per lei un florilegio di arrangiamenti di chansons francesi. Nel tono cortese, squisito e un po’ malinconico delle melodie degli chansonniers sembra s’incarni l’indole gentile e discreta di Alearda.

Il coro Dames de la Ville d’Aoste, maggio 2012




C. Trenet – M. Zuccante, “L’Âme des poètes”, Dames de la Ville d’Aoste, Alearda Parisi Pettena, dir.
Il coro femminile Dames de la Ville d’Aoste è nato nel 1975 come Le Fauvettes, ma l’esperienza con le voci bianche delle Petites Fleures era iniziata già nel 1969. Nel ricambio naturale delle coriste, la grande costante delle Dames de la Ville d’Aoste è sempre stata la direttrice. Signorile nel portamento, solida nel trasmettere musica e passione, «La Pettena» ha formato voci uniche nel panorama dei cori, spesso fidelizzando nel tempo, o affascinando nuove ragazze, un numero di coriste che va dalle trenta alle quaranta. Nemmeno gli acciacchi più o meno pesanti le hanno impedito di seguire le sue “Dames” fino alla fine, fino all’ultima “Rassegna di canto corale” ad Aymavilles, la partecipazione numero quarantatré, nel maggio scorso.

I concerti delle Dames hanno stupito molte volte, non solo per la precisione tecnica e la accuratezza nella interpretazione musicale: il repertorio del coro a voci pari femminili ha sfruttato ogni sfumatura della vocalità, spaziando dal gospel al gregoriano, tipicamente maschile, e con un bel lavoro di ricerca nella musica popolare tradizionale così come tra i brani di ogni epoca, dall’antica alla contemporanea, sacra o profana, anche con l’accompagnamento di strumenti.

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Paolo Bon – profilo

Paolo Bon, musicista e studioso veneto di nascita e di formazione, ha percorso un itinerario artistico, per cui si è progressivamente allontanato dalla realtà musicale locale ed è approdato su territori più lontani nello spazio e nel tempo. Egli, infatti, pur avendo ancorato solidamente i suoi interessi all’ambito dell’elaborazione di canti popolari per coro (ma il suo catalogo presenta anche un cospicuo numero di composizioni originali), ha saputo felicemente confrontarsi con materiali di origine diversa: dal canto alpino, a quello franco-provenzale, a quello di altre realtà etno-musicali.

L’appassionato lavoro di raccolta e analisi di testi e melodie, e la successiva elaborazione in forma corale, hanno costituito la premessa per un’attenta riflessione sui dati musicali primordiali, su quelli che egli ama definire “l’arcaico”, ovvero quel substrato di archetipi comuni a tutte le culture musicali e dai quali si è generato (sulla base di precise ed indagabili leggi naturali) il nostro linguaggio musicale. Paolo Bon è convinto (e i suoi studi musicologici questo intendono dimostrare), che le strutture sintattiche (anche quelle più complesse del linguaggio diatonico, come quelle armoniche e contrappuntistiche), non siano la risultante di un’evoluzione storica, né l’esito della creatività dei singoli musicisti, ma il “disvelamento” di processi, le cui leggi e i cui principi motori sono contenuti “in nuce” nelle forme musicali primigenie (ad esempio, nelle ninne nanne, nenie e cantilene varie). Egli, dunque, sostiene che l’operato del compositore si identifichi con l’invenzione, non nel senso di creare ex novo, ma in quello di “invenire” (trovare), scoprire sviluppi di “architetture e trame musicali” possibili, i cui presupposti sono necessariamente impliciti nel materiale musicale di partenza.

Il rigore scientifico su cui si fondano le tesi teorico-musicali di Paolo Bon, si traduce (soprattutto nelle opere più recenti) in composizioni musicali, in cui emerge una certa prevalenza della “complessità” e, in particolare, del dato contrappuntistico, come se il contrappunto fosse il mezzo che meglio si presta a definire sul pentagramma procedimenti strutturati ed “intelligenti”. Ciao, Lele, Il Quaderno di Katja e Ilaria, Laine des moutons, En lisant Villon, Sei matto! sono brani, che celano, al di sotto dei contenuti poetico-espressivi, una fitta trama di giochi canonici di ogni specie e di precise e simmetriche relazioni strutturali. Contrariamente, i lavori di quella che potremmo definire una “prima maniera” (quella, per intenderci, del periodo passato alla guida del Coro “Cesen” e della cosiddetta “Nuova Coralità”), sembrano maggiormente ispirati da una condotta più libera e a prevalenza armonica. Assai suggestive sono le celebrate realizzazioni (a tutt’oggi assai eseguite) di Le Roi Renaud, Appunti Andalusi, Viva la Quince Brigada, e della Piccola Suite Infantile, in cui vengono felicemente introdotti contaminazioni stilistiche ed elementi armonici modali, in un contesto di composizione corale che, all’epoca, era fortemente condizionata da modelli tonali tradizionali.

[Musica Insieme, Periodico dell’ASAC-Veneto, n. 83, Gennaio 2004]

Paolo Bon nel 1975




Paolo Bon, “Appunti Andalusi”, Gruppo Nuovocorale Cesen – P. Bon, direttore
Paolo Bon è nato a Volpago del Montello nel 1940 e dal 1980 vive e lavora a Firenze.Presidente della Commissione Artistica dell’Associazione Regionale Cori della Toscana e membro della Commissione Artistica della FE.N.I.AR.CO.
Fra gli anni ’60 e ’70 ha dato vita al movimento Nuova Coralità, ispirato alla ricerca delle implicazioni profonde della musica arcaica ed alla loro liberazione nel processo compositivo e nell’espressione corale.
Diatonomia è il nome da lui dato ad un’originale linguistica musicale costruita sulla sua teoria evolutiva del diatonismo.
Viene frequentemente invitato a partecipare a convegni, congressi, tenere conferenze, corsi per direttori di coro, a far parte delle commissioni giudicatrici di concorsi corali e di composizione corale, nazionali ed internazionali.Pubblicazioni principali:
– Cronache di Esperienza Corale 1964-1974, ed. Zanibon, Padova, 1976;
– Il Quaderno di Katja e Ilaria, ne La Cartellina, da N. 58/1988 a N. 66/1990, ed. suvini Zerboni, Milano (ristampa a cura delle Ed. Pizzicato, Udine, 2003);
– La Musica, l’Arcaico, l’Effimero, ibidem, da N. 82-1992 a N. 117-1998;
– Nova summula Canonica cum Interludio, ed. Giardini, Pisa, 1992;
– Recueil de chants de recherche élaborés par Paolo Bon, su commissione dell’Assessorato alla Cultura della Regione Valle d’Aosta, ed. Regione Valle d’Aosta, 1994;
– La Teoria Evolutiva del Diatonismo e le sue Applicazioni, ed. Giardini, Pisa, con contributo C.N.R., 1995;
– Cantar Storie, 2 Voll., con altri aa., ed. Grossi -Domodossola, 1999 – 2001; contiene 29 elaborazioni dell’Autore;Altri suoi contributi sono sparsi in riviste specializzate, quotidiani, atti congressuali, etc.

Riconoscimenti :
– Castello d’Oro, Conegliano, 1972
– Premio Rigo Musicale “Guglielmo Zanibon”, Adria, 1973
– Diapason d’argento, Lodi, 1988
– Premio “La Bollente”, Acqui Terme, 1992
– Premio “Un diapason miranese”, Mirano, 1994
– Premio Ezzelino, Romano d’Ezzelino, 1994
– Premio Sante Zanon, Spresiano, 1997

Il 16 novembre 2002 l’Amministrazione Comunale di Volpago del Montello, sua cittadina natale, gli ha dedicato un affettuoso omaggio con un concerto di musiche corali sue.

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Armando Corso – intervista

M. Zuccante: Gentile Maestro Armando Corso la notorietà di cui lei gode nell’ambito corale è soprattutto dovuta al fatto di essere lo storico direttore (ma potremmo dire l’anima motrice) del Coro Monte Cauriol di Genova. Partiamo perciò da qui. Un coro alpino radicato in terra di mare. Pare un controsenso. Ci spieghi.

A. Corso: A Genova e in Liguria in generale ci sono molte associazioni alpinistiche, cioè che organizzano gite, escursioni, arrampicate, scalate anche difficili. Il C.A.I. ligure a Genova è uno dei più grossi. C’è molta passione per la montagna. Forse per un contrasto, si vive tutto l’anno in mare, ma quando si può si fanno gite. Vicino sull’Appennino, oppure un po’ più lontano sulle Apuane e poi d’estate o in Valle d’Aosta o in Dolomiti. Si pratica anche molto sci. C’è molta passione per la montagna. Ci sono molti cori: sei cori di montagna, a Genova. Ma poi ci sono ancora a Savona, Imperia e qualcuno a La Spezia.

M. Zuccante: Difficile negare che il canto corale alpino abbia accompagnato l’arco vitale di una generazione segnata dagli avvenimenti bellici e dalle vicende della ricostruzione. Le prospettive di apertura geografica e culturale attuali sembrano inevitabilmente allontanarci da quel passato. Nonostante ciò, si registrano segnali di ripresa di interesse verso questa forma di canto corale, proprio da parte di gruppi formati da giovani cantori. Come spiega questo fenomeno? Ritiene che il canto alpino possa avere un futuro?

A. Corso: Certamente. Noi abbiamo cominciato con il repertorio della Società Alpinisti Tridentini. Avevamo gli spartiti e il libro del Coro della SAT. Da lì siamo partiti e siamo fortemente ancorati come base a quel tipo di canto. Naturalmente abbiamo aggiunto molte cose. Nell’ultimo Canzoniere abbiamo raccolto circa 245 armonizzazioni. La maggior parte nostre e poche di altri, in particolare di Dodero. Abbiamo sempre cercato di pescare nel canto popolare, canto di montagna, canto di gite, canto giovanile, di escursioni. Molti di noi hanno camminato per tutta la gioventù e qualcuno ancora adesso. Quindi sentiamo molto questi canti. Sentiamo anche il bisogno ogni tanto di allargare. Abbiamo qualche spiritual, canti natalizi, canti religiosi e anche canti popolari di altre regioni. Naturalmente scegliamo cose molto belle. Noi riscontriamo un interesse nei giovani. Tant’è vero che noi abbiamo cominciato in 10-12. Anzi, per la verità, il primo gruppo nel 1949 era solo di 4 e sono sopravvissuto solo io di quel gruppo. Però, adesso siamo più di 60 e dobbiamo frenare le richieste. Abbiamo molti giovani che vogliono entrare. Forse alcuni hanno tradizione di famiglia. Non dico di canto, ma di alpinismo o escursionismo, oppure di vita militare negli Alpini.

M. Zuccante: I Cori alpini si formano, in genere, in ambito prettamente amatoriale; e amatoriale è, di frequente, la formazione del loro direttore. Se non sbaglio, anche lei non è musicista di professione. Crede che il presupposto di sano diletto contribuisca a valorizzare l’autenticità di chi si esprime attraverso il canto corale alpino?

A. Corso: Sicuramente sì. Non nego che per i professionisti la musica nelle sue varie forme sia proprio la vita. Ma nel coro tutti noi abbiamo una vita professionale diversa, che va dall’operaio, al perito, al geometra, al laureato in ingegneria, come me, oppure in economia e commercio, oppure in giurisprudenza, molti in medicina. Il coro era nato a ingegneria, quando eravamo studenti. Quindi, c’è una cultura abbastanza elevata nel coro e questo l’abbiamo visto anche in altri cori di città importanti, come Milano, Trento e altre. Il fatto di essere liberi, perché abbiamo altre professioni, ci rende veramente consoni con un bisogno interno di questo tipo di vocalità e di musica, che non è stato imparato in un Conservatorio, ma magari cantando in montagna, cantando in gita. Io ho cominciato perché ero sfollato a Rovereto nel Trentino con i miei compagni di Liceo. Abbiamo fatto gite e cantavamo in cima. Lì ho sentito alcune delle cante che non conoscevo, ad esempio Sul rifugio. In molti di noi non c’è l’aver sentito questi canti e gradirli, ma c’è l’aver vissuto la montagna, aver passato la serata fuori dal rifugio a guardare le stelle, o il plenilunio e così via. Quindi, cerchiamo di restituire qualche cosa di autentico che abbiamo dentro, che abbiamo vissuto.

M. Zuccante: Di certo non si impara lo stile del canto corale alpino frequentando i Conservatori di musica. Ad eseguire il canto alpino s’impara piuttosto sul campo, dall’esperienza diretta di chi già lo pratica. L’istruzione di un coro alpino presuppone il possesso di un insieme di perizie che non sempre coincidono con le competenze necessarie per la direzione di un coro di tipo accademico. E’ d’accordo? Se sì, in cosa consistono le qualità peculiari di un direttore di coro alpino?

A. Corso: Sicuramente all’inizio c’è non una preparazione, ma un istinto e una certa musicalità da parte di tutti i cantori e del malcapitato direttore. Alle volte uno lo è perché, tra tanti ciechi, l’orbo, cioè uno che ce l’ha, diventa il re. E questo è successo a me e ad altri. Altri invece che hanno una preparazione accademica nella musica. Però prevale sicuramente l’istinto che porta a cantare in questo modo chi già lo ha fatto in gita, in montagna, in rifugio o durante la gioventù, o nella vita militare. E poi affinando un po’ opportunamente le proprie istintive qualità di orecchio, canore e di vocalità porta ad entrare in sintonia con questo modo di cantare, che ci permette di esprimere tanti sentimenti umani, restituire proprio umanità, che poi è la base di tutto questo discorso.

M. Zuccante: Il Coro Monte Cauriol viene annoverato tra le compagini che hanno fatto la fortuna del canto alpino. Vorrei chiederle su quali aspetti espressivi lei ha lavorato più insistentemente, per differenziare lo stile del Coro Monte Cauriol da quello delle altre formazioni storiche, che potremmo definire “di riferimento” nello stesso genere corale.

A. Corso: C’è un dato fondamentale. Su 250 armonizzazioni, più un centinaio di quelle della SAT (che non sono perciò nel nostro Canzoniere), parlo quindi di tutte quelle che noi eseguiamo, c’è per noi radicata la convinzione che un canto di questo tipo debba essere stato levigato da secoli di tradizione orale, in modo che tutte le falsità, le asperità sono state tolte e ne esce proprio qualche cosa di puro, di estremamente valido, che sentito una volta rimane nella testa di chi ha un po’ di orecchio, di musicalità. Quindi noi privilegiamo assolutamente canti non d’autore, salvo rarissime eccezioni, cito Stelutis alpinis, La Paganella, La montanara e qualche altra. Ma in generale privilegiamo i canti che sappiamo sono rimasti nelle orecchie della gente, delle famiglie. Siamo andati in giro, anche in Trentino, a farci cantare nelle osterie i canti, lo stesso a Trieste e così via. Abbiamo sentito le preferenze e anche l’entusiasmo di chi le cantava senza preparazione musicale, ma evidentemente con un orecchio di base e una certa abitudine, data una melodia, a fare a orecchio il secondo, il basso. E quindi, secondo noi, questi canti sono molto più validi degli altri, noi li privilegiamo.

M. Zuccante: Sveliamo l’arcano della dizione «Armonizzazione: Cauriol», che contrassegna il maggior numero delle partiture del Canzoniere del suo coro. In verità, è lei l’autore degli arrangiamenti corali dei brani che costituiscono il grosso del repertorio del Coro Monte Cauriol. Quali sono le corrispondenze stilistiche tra le sue stesure e la prassi esecutiva del Coro Monte Cauriol?

A. Corso: Perché non ho voluto firmare le mie armonizzazione fin da 61 anni fa? Perché ho desiderato fin dall’inizio che il coro le sentisse proprie, non mie, cioè che non ci fosse un maestro con degli altri che lo seguivano, ma che fossimo tutti uguali. Perciò ho cercato, finché qualche sciagurato non ha tirato fuori il mio nome, di non comparire. Io lo ringrazio naturalmente questo sciagurato, questo gruppo di sciagurati, però avrei preferito di no, perché c’è nel nostro coro un forte senso di appartenenza al coro, sentiamo proprie queste canzoni. Altri non le cantano, altri le imitano magari adesso da un po’ di tempo. Ma è molto importante questo aspetto di comproprietà, di orgoglio da parte dei cantori. Volevo insomma che le sentissero proprie.

M. Zuccante: Da un coro alpino c’è da aspettarsi una coerente adesione a canti popolari di derivazione storico-geografica circoscritta.  Eppure, nel repertorio del Coro Monte Cauriol si annoverano alcuni sconfinamenti. Canzoni napoletane, sarde, armene, americane, gospel, pop e così via. Quali sono le ragioni di queste divagazioni?

Perché ci piacciono e secondo noi sono altrettanto popolari, antiche, valide. Ne ho parlato con Silvio Pedrotti a suo tempo e mi ha detto «Fate bene. Lo dovete fare. Perché dovete anche un po’ aprire la vostra testa verso altre musicalità, altre culture». Nel caso degli spirituals, siccome io ho una parallela attività jazzistica, non ho avuto nessuna difficoltà. Anzi, siamo stati pionieri in Italia. Perché ora c’è pieno di cori che cantano gospel, eccetera, ma noi li cantavamo 50 anni fa.

M. Zuccante: Per finire, vorrei formulare la seguente questione. Abbiamo detto che i cori alpini si formano, di norma, in ambito amatoriale. Ma le origini del Coro Monte Cauriol ci portano negli ambienti colti delle aule universitarie genovesi. Analogamente, altri cori alpini si sono formati tra persone non musiciste di professione, ma comunque di estrazione colta. E aggiungo che Massimo Mila definì il Coro della SAT «ll Conservatorio delle Alpi», come a volere attribuire al canto dei satini di Trento un marchio di prodotto d’arte. Insomma, l’ingrediente popolare nel genere del canto corale alpino in che misura è filtrato e valorizzato dall’anima colta di chi lo mantiene vivo?

A. Corso: In misura massima. E’ importantissima la cultura di tutti i coristi, dei vice maestri, del maestro, perché è necessario avere molta misura, rispetto per lo stile, rispetto per questi canti, senza voler strafare o debordare. Molti dei coristi – me compreso – hanno fatto studi, anche studi classici – io ho avuto quella fortuna, ho fatto il Liceo classico, ho studiato filosofia, ho studiato l’estetica, ho studiato Benedetto Croce – e questo mi ha insegnato tante cose, tante cose su che cosa è valido e su che cosa è invece cerebrale. Tutto sommato noi siamo dei romantici. Il Coro Monte Cauriol è formato da persone romantiche, cioè che credono che la musica non sia altro che un’espressione dell’umanità, dell’uomo: cosa c’è dentro quello che scrive, che canta, che suona, che dipinge. I suoi pensieri, i suoi sentimenti. Quando io sento un coro e dico «Ah come sono tecnicamente bravi», la cosa finisce lì. Ma ci sono stati dei cori oggi – non mi vergogno a dirlo – che mi hanno fatto piangere. Ma non tutti, alcuni. Sanno esprimere l’umanità che hanno dentro. Forse questa è la chiave più importante per fare queste cose

[Choraliter, n. 32, Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2010]

Armando Corso




F. Mingozzi: “Sul Rifugio”, Coro MONTE CAURIOL – A. Corso, direttore
Armando Corso è nato a Genova il 25.2.1929, ha conseguito la laurea in Ingegneria Meccanica e Navale nel 1954. Assunto all’Italsider nel 1955, alla Segreteria Tecnica della Direzione.
Nel 1960 Dirigente del servizio Ricerca Operativa.
Nel 1967 Vice Direttore Organizzazione della Produzione e Ricerca Operativa.
Nel 1968 Vice Direttore “ad interim” della Produzione Aziendale. Nominato in seguito Direttore Centrale.
Nel 1971 passato alla Direzione Studi dell’Italimpianti, nella quale ha creato il nucleo di Ricerca Operativa.
Nel 1975 Direttore Pianificazione e Sviluppo dell’Italimpianti (salvo una parentesi per organizzare la nuova Direzione Relazioni Esterne). Ad interim, nel 1986, Assistente all’Amministratore Delegato dell’Italimpianti
Nel 1987 anche Presidente della Nuova Mecfond di Napoli.
E’ stato per 5 anni Presidente nazionale dell’AIRO (Ass. Ital. di Ricerca Operativa).
E’ stato Vice Presidente nazionale dell’ANIPLA (Ass. Italiana per l’Automazione).
E’ stato membro di Consigli Direttivi di numerose associazioni scientifiche, fra cui l’Associazione Nazionale di Impiantistica (ANIMP) e quella di Letture Scientifiche di Genova.Libero docente in Ricerca Operativa, incaricato stabilizzato di “Metodi di Conduzione Aziendale” dal 1967; superato l’esame di idoneità, nel 1988 ha preso servizio come professore associato di “Sistemi di controllo gestionale” e dal 1991 anche di “Economia ed Organizzazione Aziendale”presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova. A queste materie sono state aggiunte le due seguenti per i diplomandi: “Sistemi Organizzativi” (per il Polo di Savona della Facoltà) e “Organizzazione della produzione e Logistica”.Nel 1993 è stato Direttore Responsabile della Rivista Scientifica “IMPIANTISTICA ITALIANA”. Ha diretto dallo stesso anno al 2003 tutti i corsi organizzati dall’ANIMP sul territorio nazionale.
Ha pubblicato una cinquantina di lavori scientifici.Armando Corso agisce nel campo del jazz dal 1947. Ha inciso con Albert Nicolas, Bobby Hackett e vari complessi nazionali; ha suonato in numerosi concerti e festival in Italia e all’estero, con molti fra i maggiori jazzisti stranieri. Tra essi citiamo Max Kaminsky, Bud Freeman, Bill Coleman, Wild Bill Davison, Billy Butterfield, Eddie Miller, Oscar Klein, Bennie Morton, Louis Nelson e Joe Venuti.Fondatore e direttore, dal 1949, del Coro “Monte Cauriol”, dal 1980 al 2002 del Coro “Cinque Terre”, dal 1982 al 2002 dei “Mississippi Minstrels” e dal 1989 al 1998 del “Trio Vaudeville”, dal 2002 del “Mississippi Mainstream Group”. Nel 1993 ha formato un Duo Pianistico con Ljuba Pastorino, poi col figlio Massimo Corso, e dal 2003 con la violinista Lucia Tozzi.Esegue concerti solista di pianoforte e di fisarmonica.

E’ stato insignito dei seguenti Premi al merito musicale: Castello d’oro (Conegliano Veneto 1973), La Bollente (Acqui Terme 1990), Rigo Musicale (Adria 1990), Diapason d’argento (Lodi 1992), il Caravaggio (1997).

Già membro del Consiglio Direttivo e Presidente della Commissione Artistica della Associazione Cori Liguri. Ha Fatto parte della Commissione Artistica della FE.N.I.A.R.CO (Fed. Naz. Associazioni Regionali Corali). Dal 2002 è “Probo Viro” della stessa FE.N.I.A.R.CO.

E’ stato membro di giuria a molti concorsi nazionali corali, a Ivrea, Adria, Genova, Savignone, S.Daniele del Friuli, ecc.

Ha vinto il premio di poesia indetto dall’Ordine del Cardo per il componimento “Un canto di montagna”.
Di lui sono state pubblicate recentemente alcune poesie, ed altre sono in corso di pubblicazione.

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Marco Crestani – in memoriam

A pochi giorni dalla scomparsa di Marco Crestani, riprendo, in suo ricordo, l’articolo con cui avevo tracciato un breve profilo del musicista vicentino. Quello scritto è comparso nel 2003 all’interno del N.81 della rivista Musica Insieme, il periodico dell’ASAC, l’Associazione corale del Veneto. Ma ora che il Maestro non c’è più, sento la necessità di integrare quelle parole con annotazioni sul temperamento della persona, che ho avuto modo di apprezzare direttamente.

Gli studi e la passione per la Musica corale hanno orientato Marco Crestani a privilegiare il coro come strumento ideale, attraverso il quale realizzare le diverse attività che hanno contrassegnato la sua carriera musicale: compositore, direttore di coro e animatore del movimento corale.

Il percorso rappresentato dalla sua notevole produzione per le varie formazioni corali segue, in parallelo, le tappe più significative dell’evoluzione storica e della crescita qualitativa della coralità italiana e veneta in particolare.

Tra i primi esiti significativi del mestiere di Marco Crestani vanno menzionate le numerose raccolte di armonizzazioni ed elaborazioni di canti popolari italiani e stranieri, realizzate con lo scopo di assecondare la richiesta dei tanti cori amatoriali che hanno dedicato il loro repertorio al canto di montagna e più in generale popolare. AI musicista marosticano va riconosciuto il merito di aver contribuito in modo significativo, assieme ad altri autori veneti (tra i quali ricordiamo De Marzi, Bon, Malatesta), alla definizione di una prassi e di uno stile corale di riferimento nel trattamento del folclore musicale. In particolare, Crestani si differenzia per l’innesto di canti scelti da tradizioni diverse, soprattutto sarda e occitana. Indimenticabili gli arrangiamenti di Triste ei lo cèu, Tristu Passirillanti, Pasci, Angionedda e Hava nagila.

Marco Crestani sapeva entrare nella sede di un coro amatoriale alpino con l’immediatezza di chi ha familiarità con quelle persone e quell’ambiente. Una volta consumato il rito della captatio benevolentiae con un paio di battute da caserma, entrava nel merito di quel genere di canto che frequentava fin dalla giovinezza e di cui conosceva a menadito le coloriture espressive. Era stato il fondatore del Coro CAI di Marostica e aveva successivamente diretto il Coro Monte Grappa di Bassano. Scudisciava le pigre ugole dei cantori con l’impeto di un capitano degli Alpini. Ad ascoltare il brano E gira che te gira – sua libera invenzione sulla falsariga dei canti alpini – si coglie fino a che grado di autenticità egli avesse introiettato quel modello canoro e quello stile corale.

La formazione organistica e gli incarichi ricoperti nelle chiese hanno inevitabilmente condotto Crestani a confrontarsi con la musica liturgica. Anche su quello che pur rimane un terreno minato (almeno dal Concilio Vaticano Il ad oggi), egli si è mosso con perizia, confezionando pagine in cui l’immediatezza e la semplicità del canto non risultano svilite a livello di facilità e banalità, ma conservano un certo grado di decoro musicale ed ispirazione spirituale.

Un fraterno legame di amicizia lo univa al collega padre Terenzio Zardini. Forse in virtù di questo, si sentiva al riparo dall’accusa di irriverenza, quando si lanciava in infuocate invettive contro l’insipienza musicale delle gerarchie ecclesiastiche. Monsignori, preti e sacrestani chitarristi non la scampavano.

In sintonia con la valorizzazione di repertori più impegnati, di cui si sono fatti promotori molti cori di buon livello di impostazione polifonica classica, la produzione di Crestani tende ad assumere, negli ultimi decenni, connotati più colti: prevalgono, quindi, composizioni che fanno riferimento a grandi autori della modernità (Kodaly, Hindemith), senza però dimenticare la lezione dei sommi polifonisti del passato e del Canto gregoriano, origine della vocalità occidentale. La scrittura lineare, l’autonomia delle voci e la ricerca di giochi contrappuntistici e ritmici, prevalgono ora sugli aspetti armonici e timbrici. Queste le premesse che motivano la composizione dei brani più riusciti per complessità e originalità di ispirazione (Rex autem David, Antiphonae, Sequentia Paschalis, Enfant, si j’etais roi, Les compagnons), che hanno contribuito all’ottenimento di importanti riconoscimenti in campo nazionale ed internazionale.

«Posso, Mauro, farmi un regalo per i miei 70 anni?!». Così sembrava giustificarsi, allorché mi annunciava l’intenzione di pubblicare Momenti di polifonia sacra e profana. Un CD monografico caparbiamente autoprodotto, che sanciva un affrancamento dalle forme corali generalmente considerate meno avvaloranti. Lo preoccupava l’apprezzamento di musicista a tutto tondo, che sapeva esprimersi parimenti nei generi alti e bassi.

La professione di insegnante, esercitata, per lo più, ricoprendo il ruolo di Cultura musicale generale presso il Conservatorio di Verona, oltre a consentirgli di mantenere vivo il contatto con le giovani generazioni, ha tenuto desta la sua attenzione per le problematiche della didattica musicale; nel campo prediletto della musica corale, egli ha prodotto numerosi lavori (destinati soprattutto ai cori di bambini), che testimoniano questo particolare aspetto della sua sensibilità.

Quanti docenti (giovani, troppo giovani profeti!) sperimentano nelle classi di armonia didattiche rivoluzionarie e personali; improbabili, quanto inutilmente complicate metodologie di analisi; astruse ricostruzioni dei modelli armonici. Il tutto sulla pelle ancora delicata di imberbi studenti. Marco Crestani aveva, invece, il dono della chiarezza e della semplicità nello spiegare le fondamenta del linguaggio musicale occidentale. Un “maestro elementare” come non se ne trovano più. Faceva il suo mestiere con l’umiltà e con l’orgoglio di chi si fa carico di trasmettere ai principianti i rudimenti con limpida intelligibilità. «Fai i complimenti a chi ti ha insegnato in modo così chiaro la teoria armonica», mi disse Renato Dionisi alla prima lezione di composizione musicale.

Marco Crestani fu musicista appassionato del coro e della sua dimensione educativa e socializzante. Ha sempre testimoniato fiducia nei valori dell’associazionismo corale. Ha speso gran parte del suo lavoro, cercando la propria collocazione in questo particolare ambito musicale. Ha scritto di lui Marco Materassi: «Una trasparente sincerità d’espressione e una solida coscienza artigianale del comporre come “servizio” reso alla musica, e nello specifico alla coralità e ai suoi cultori, appaiono essere i tratti unificanti  […] di Marco Crestani».

La fisionomia di Marco Crestani mi ricordava i lineamenti di Arnold Schönberg. Entrambi avevano un volto severo, ma gli occhi furbetti e le sopracciglia incidevano sull’ampia fronte di Crestani curvature scherzose e beffarde, tracce delle storielle d’ogni genere che sapeva raccontare con spirito irresistibile, meglio di chiunque altro. «Dài, Maestro, ‘naltra barzeleta!»

[Choraliter, n. 32, Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2010]

Marco Crestani nel 1954, direttore del Coro CAI di Marostica




M. Crestani, “E gira che te gira”, Coro PICCOLA BAITA di San Bonifacio

Marco Crestani (1926-2010) è nato nell’Altopiano di Asiago, in comune di Conco, l’11 settembre 1926. Ancora in giovanissima età si trasferisce con la sua famiglia a Marostica. All’età di 9 anni, spinto dalla passione del padre per la musica, inizia i suoi primi studi d’organo.
Viene assunto da subito in qualità di organista titolare della chiesa arcipretale di S. Maria Assunta dove resterà fino al 1959.
Il suo primo insegnante, il M. Bevilacqua di Bassano del Grappa, lo prepara a sostenere il primo esame presso il Conservatorio di musica di Bolzano e, in seguito, lo consiglia di rivolgersi ad altri maestri poiché lui “non ha più nulla da insegnargli”. Nel frattempo compie gli studi di ragioneria a Bassano prima e a Vicenza poi.
Nel 1945, al termine della guerra, si iscrive al Conservatorio di musica “Benedetto Marcello” di Venezia, diretto allora da Gianfrancesco Malipiero: vi rimarrà per 11 anni, conseguendo i diplomi di composizione, pianoforte, organo e composizione organistica, musica corale e direzione di coro. Lo guidano insegnanti di fama: Gabriele Bianchi per la composizione; Sandro Dalla Libera, famoso organista e redattore di testi organistici, per l’organo; Sante Zanon, direttore del coro del Teatro “La Fenice”, per la musica corale e direzione coro; e il noto pianista Gino Tagliapietra per il pianoforte.
La sua preparazione musicale gli vale l’apprezzamento dei suoi rispettivi insegnanti, testimoniato da alcune loro lettere indirizzate al direttore d’orchestra Yohn Barbirolli il quale, a quel tempo, cercava giovani insegnanti per l’istutuendo Conservatorio di Brisbane in Australia.
L’attività di direttore di coro di Marco Crestani inizia con la fondazione del coro “Monte Grappa” dei CAI Marostica, l’attuale Coro Bassano. Saranno 10 anni di proficuo lavoro e di meritati successi che porteranno il gruppo corale ad un alto grado di preparazione musicale tanto da renderlo famoso in Italia e all’estero. Il coro Monte Grappa si esibirà in diverse città italiane e straniere, cantando alla radio italiana e svizzera, nonché alla televisione, allora ai suoi primi passi. Il buon nome di Marostica valica così i confini territoriali non solo per merito dell’entusiasmo e della seria preparazione del coro stesso ma anche grazie alla manifestazione folkloristica de “La Partita a Scacchi” (v. marosticascacchi.it) di cui il M. Crestani sarà valente collaboratore per le musiche.
Nel 1959 lascia Marostica per approdare in Sardegna, dopo aver vinto il concorso per l’incarico di titolare della Cattedrale di Sassari, posto che occuperà fino al 1970.
In questa città, oltre all’impegno del servizio liturgico, viene chiamato a dirigere la corale polifonia “Luigi Cànepa” con la quale farà diverse tournèe in Europa (Debrecen, Budapest, Berna, Le Locleville, La Chaux de Fonds, Llanghollen); in particolare, nel 1965, a Budapest, il coro si è esibito alla presenza del grande compositore ungherese Zoltan Kodaly che esprimerà un apprezzamento lusinghiero sia per le qualità vocali ed espressive del coro sia l’interesse verso alcuni canti sardi proposti. Con lo stesso coro il M. Crestani collabora con diversi direttori d’orchestra nel campo della lirica in diverse stagioni teatrali in Sardegna.
Come organista si esibisce in varie città italiane ed estere, suonando anche per conto della RAI italiana, per radio Monteceneri (Svizzera) e per la radio austriaca di Vienna. Ha fatto parte, sempre in qualità di organista, del gruppo strumentale “Ottoni di Verona” col quale ha partecipato al festival internazionale di Magadino (Svizzera) e alla commemorazione di Andrea e Giovanni Gabrieli nella Basilica di San Marco a Venezia; ambedue queste manifestazioni sono state trasmesse dalle rispettive reti radiofoniche. Ha in seguito diretto il complesso strumentale veronese “Organa et bucinae” formato da due trombe, due tromboni e organo.
In qualità di compositore si è dedicato quasi esclusivamente alla musica corale. Le sue composizioni (circa 300 lavori di carattere sacro e profano) sono eseguite da svariati complessi corali italiani e stranieri e molte sono incise.
Ha partecipato parallelamente a numerosi concorsi nazionali e internazionali di composizione corale sempre con lusinghieri successi che gli hanno permesso di far conoscere ed apprezzare il suo nome in questo campo. Ha al suo attivo circa una ventina di riconoscimenti ufficiali di premi vinti in vari concorsi (vedi concorsi).
Molte delle sue composizioni sono state inoltre pubblicate dalle più importanti case editrici musicali come la Ricordi, la Suvini-Zerboni, la Zanibon e la Carrara (vedi pubblicazioni). Ha collaborato con La Cartellina anche in qualità di scrittore.
Ha fatto parte di giurie in varie competizioni corali (Arezzo, Gorizia, Trento, Trieste, Vittorio Veneto) ed è stato membro della Commissione artistica dell’USCI di Roma per tutti i cori italiani. Attualmente, fino alla sua scomparsa, faceva parte della Commissione artistica dell’ASAC per tutti i cori del Veneto.
Ha insegnato presso i Conservatori di musica di Sassari, Cagliari e Verona.
Ormai da anni ritirato dall’insegnamento e residente a Marostica ha sempre continuato a scrivere musica e ad incontrare musicisti, studenti e ammiratori di ogni dove. Marco Crestani si è spento il 1 luglio del 2010 in seguito alla malattia che lo costrinse immobile negli ultimi anni della sua vita.

Concorsi vinti:
Pieve di Cadore (1954/55/56), Varese (1956), Roma (1968), Lecco (1972), Bergamo (1976), Carrara (1977), Loreto (1981), Trento (1982/86/88), Tours (1983/86), Codroipo (1984/86), Verona (1985), Vaison-la-Romaine (1992)

Case editrici che hanno pubblicato i suoi lavori:
Ricordi, Suvini-Zerboni, Zanibon, Carrara, Ares, Incas, Eco, Porfiri & Horváth, A Cœur Joie, Crestani (autopubblicazioni)
Diversi pezzi sono pubblicati anche per varie riviste corali fra le quali: Fondazione Guido d’Arezzo, ASAC, La Cartellina (Carrara).

Incisioni (principali):
– Coro Monte Grappa, registrazione storica del concerto di Sandrigo, Vicenza – Reg. privata, 1958
– I canti dei nostri alpini, Gruppo Corale “Monte Grappa”, dir. Antonio Piotto, contenente un paio di arrangiamenti di canti alpini e il brano E gira che te gira) – EMI / emidisc, 1963
– Momenti di polifonia sacra e profana, con il Coro città di Rovigo (dir. Giorgio Mazzucato) e il Gruppo corale polifonico Isola Vicentina (dir. Pierluigi Comparin) – Ed. privata, 1996

Onorificenze ricevute:
– Rigo musicale del Comune di Adria per la ricerca, la diffusione e lo sviluppo del canto corale italiano.
– Premio speciale alla carriera, dell’ASAC (Associazione per lo Sviluppo delle Attività Corali del Veneto), con la motivazione di essere un “grande protagonista della coralità veneta”.
– Riconoscimento per i 60 anni di attività del Coro Bassano (ex coro Monte Grappa) sotto l’egida del Comune di Bassano del Grappa e del Comune di Marostica.

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Marco Berrini – intervista

M. Zuccante: Caro maestro Marco, a te il compito di aprire il nuovo spazio che la rivista Choraliter intende riservare al mestiere del direttore di coro. Un’arte alla quale ci si appassiona per motivi diversi. Vuoi riassumere brevemente quali sono stati, nel tuo caso, i fattori stimolanti?

M. Berrini: Senza alcun dubbio, voglio anzitutto ricordare l’incredibile esperienza che è stata per me cantare in un coro. Ho iniziato molto presto come voce bianca, proseguendo senza interruzioni di sorta anche dopo la muta della voce, fino a occupare, precocemente e con una buona dose di incoscienza, il ruolo di direttore. Sono di fatto cresciuto, anagraficamente e musicalmente, in un coro, che quasi per gioco mi sono trovato un giorno a dirigere. Un’esperienza della quale soltanto a posteriori ho capito la reale portata e la fondamentale incidenza sul mio essere musicista, tanto da ritenerla oggi l’unica veramente formativa a livello musicale. Consiglierei di anteporla a qualunque studio strumentale e di coltivarla comunque parallelamente, anche dopo aver scelto di specializzarsi in un qualsiasi strumento. Sì, ogni musicista dovrebbe poter includere nel proprio percorso formativo un’approfondita esperienza corale.

M. Zuccante: Tra le altre competenze, alla base della tua professionalità c’è una preparazione pianistica notevole. Posso affermare ciò perché ti ho ascoltato suonare il pianoforte con estrema disinvoltura. Quanto e in che circostanze ti facilita questa abilità nell’esercizio di dirigere il coro?

M. Berrini: Lo studio del pianoforte è stata una diretta conseguenza dell’esperienza corale: cantare provocava in me un tale piacere da chiedermi un ulteriore avvicinamento alla musica. Il pianoforte e l’organo sono stati, pertanto, i miei primi contatti con uno strumento e con una letteratura diversa da quella vocale. La pratica e l’approfondita conoscenza della tastiera mi sono infatti di aiuto in molte circostanze: dalla lettura delle partiture, al momento di studio con le formazioni vocali, nelle audizioni e nel lavoro con i cantanti. Mi rende autonomo e indipendente nel mio lavoro e questo è tanto utile quanto piacevole per me. Quindi se da un lato studiare approfonditamente uno strumento ha significato in realtà tornare alla mia passione iniziale per il canto con maggiore competenza e consapevolezza, dall’altro questo mio primario contatto con la voce si è rivelato e si rivela determinante anche quando suono o dirigo un’orchestra. Cerco sempre di portare nella pratica pianistica e strumentale quel bisogno di respiro che troppo spesso manca a chi suona uno strumento. La necessità del respiro (che nel canto e nell’espressione verbale diviene irrinunciabile veicolo di intenzioni espressive) è bisogno primario della musica come lo è per l’esistenza stessa dell’esecutore. L’assenza di respiro in musica uccide la musica stessa, come l’assenza del respiro è prerogativa di un corpo morto. Non è facile, da semplici strumentisti – figli della scuola italiana – capire di primo acchito questo postulato se non si ha una solida esperienza vocale alle spalle. Nella pratica strumentale, tutto rimanda alla voce e all’atto del cantare: i primi a capirlo furono, secoli fa, i trattatisti che hanno codificato nei loro testi informazioni e indicazioni mediandole dalla coeva pratica vocale, ossia usando la voce come modello per le istanze del nuovo idioma strumentale. Molte volte mi sono trovato a chiedere ai miei studenti di conservatorio (ottimi strumentisti, ma privi per formazione di qualunque esperienza vocale) cosa significasse per loro il termine cantabile col quale spesso si trovano a confrontarsi nella loro pratica strumentale; bene, la risposta è sempre stata univoca: «Cantabile deve essere qualcosa che attiene al cantare, che avvicina il mio far musica al modo del canto». Ma la risposta non è mai arrivata quando replicavo: «Ma per te che non hai mai cantato e sei in procinto di conseguire un diploma, cosa significa cercare sul tuo strumento un suono che attenga al cantare»? Paradossale, ma vero!

M. Zuccante: Nei concerti da te diretti, ai quali ho avuto il piacere di assistere, mi ha sempre colpito la cura riservata all’articolazione della parola. Ho l’impressione che nelle tue interpretazioni il disegno della frase musicale scaturisca da un minuzioso lavoro di limatura fatto attorno alla singola parola. Condividi?

M. Berrini: Ti ringrazio molto per questa tua osservazione, che mi rende molto felice perché rende giustizia a quella che è la mia idea fondamentale del far musica con la voce, con il coro: chi canta, canta la parola! E anche in questo, lo scontro con i presupposti dello studio accademico, si fa ruvido. Ci hanno sempre insegnato a “leggere le note e a suonarle tutte esattamente intonate e a tempo” (presupposto sicuramente imprescindibile), quasi che la fedele e corretta riproduzione dei suoni possa esaurire in sé stessa il nostro rapporto di interpreti con l’opportunità semantica che il codice scritto ci offre. Per chi fa musica con la voce, la parola rappresenta quel che può trasformare la pagina che avviciniamo, silenziosa e ferma nella sua staticità grafica, in un veicolo di comunicazione espressiva, in un medium tra sé e gli altri. La parola è già musica: lo diceva già Cicerone parlando del cantus obscurus; in essa già convivono tutti quegli ingredienti che la rendono espressione musicale per eccellenza (altezza dell’intonazione, ritmo, opportunità timbrica, intenzione espressiva … ). E la prerogativa che connota la parola, l’accento, non ha forse un’etimologia (ad cantus, verso il canto) che lo lega intimamente all’atto del cantare? L’accento è il canto della parola stessa, è la sua naturale intonazione, e questa deve mantenersi altrettanto espressiva in musica. Quando il compositore ha saputo rendere giustizia alla parola, dipingendola con un gesto grafico che asseconda il suo corretto modo di pronunciarla, è compito della sensibilità dell’interprete lasciar risuonare la sua intrinseca e connaturata musicalità nel suono che emette. Perché, domando sempre ai direttori con i quali ho il piacere di confrontarmi, pur riconoscendo un valore espressivo e musicale alla parola e non potendo fare a meno di sentire la grande potenza espressiva della musica che la riveste, alla fine riusciamo a far sì che la feconda unione di parola e suono risulti sterile, monocorde? Forse il condizionamento stilistico di certe esecuzioni d’oltralpe pesa sulle nostre idee …

M. Zuccante: Nella tua carriera hai avuto modo di spaziare nei diversi generi della musica corale e di eseguire musiche di autori di epoche diverse. Ma qual è il repertorio dove ti senti più a tuo agio e dove pensi di saper esprimere al meglio la tua sensibilità artistica?

M. Berrini: Agli inizi della mia attività di direttore ho indirizzato le mie scelte verso la letteratura del periodo rinascimentale e barocco, anche in ragione del fatto che il gruppo con cui lavoravo in quel periodo non mi consentiva di avvicinarmi consapevolmente e con cognizione di causa da un punto di vista tecnico e musicale ad altri repertori. Ho sempre creduto, e ancor oggi lo credo fermamente, che i propri desiderata di interprete musicale vadano consapevolmente filtrati e mirati sulle reali potenzialità del gruppo di cui si dispone. In quegli anni, davvero fecondi per lo studio, il lavoro di formazione con Domenico Zingaro e di approfondimento con Giovanni Acciai ha contribuito in maniera sostanziale a strutturare il mio pensiero di interprete. Oggi ho il piacere di poter avvicinare letterature corali di epoche diverse: la formazione che dirigo me lo consente e credo che, nel tempo, anche io sia cresciuto con loro. Resto sempre però particolarmente attratto e stimolato dalla letteratura più antica, anche perché la lunga e intensa frequentazione della stessa mi ha aiutato a leggere e interpretare meglio quel che è seguito. In ogni caso, quale che sia l’autore e il periodo da affrontare, cerco sempre di pormi in modo intellettualmente onesto di fronte alla pagina da interpretare, e solo dopo aver dedicato cura e tempo all’analisi e allo studio della partitura lascio che le istanze estetiche e stilisti che di un linguaggio musicale risuonino in me: la pagina musicale parla all’interprete che umilmente si predispone ad ascoltarla.

M. Zuccante: Una performance corale prevede varie fasi di lavoro. Dico le più importanti. Lo studio della partitura, l’istruzione delle sezioni del coro, la concertazione, l’esecuzione vera e propria. In quale momento concentri l’impegno maggiore? Vien da pensare che un coro ben addestrato possa cantare senza direttore. Eppure, c’è chi considera irrinunciabile il gesto del direttore, anche (o soprattutto) in concerto. Come la pensi?

M. Berrini: Il cammino che porta dalla scelta di un brano, al suo studio individuale e corale, alla concertazione e infine alla esecuzione è una sorta di cammino di iniziazione. Il primo a dover essere “iniziato” al significato della musica da eseguire è proprio il direttore. Prediligo pertanto uno studio molto approfondito della pagina da eseguire; questo mi aiuterà a condurre con più facilità il gruppo che con me dovrà condividere l’esperienza musicale lungo le strade della comprensione del brano. Una comprensione che dovrà nutrirsi di cognizioni storiche, estetiche, tecniche, vocali, corali. .. Il coro deve conoscere, comprendere e condividere i percorsi interpretativi del direttore, che si esprimono – durante le fasi di lavoro collettive – attraverso un uso sapiente della parola parlata, un uso ancor più intenso ed efficace della parola cantata nelle esemplificazioni vocali, in un gesto che istante dopo istante diviene sempre più visualizzazione del pensiero, non mera pulsazione metronometrica avulsa da quel dire espressivo che abita il suono. Un coro tecnicamente ben addestrato può arrivare a cantare senza un gesto direttoriale accademicamente inteso, ma può ugualmente non poter fare a meno di aver di fronte quella figura che nel momento della esecuzione è solo e semplicemente promemoria visivo di un percorso di iniziazione, condiviso e compreso, al di là del gesto chironomico. Il gesto del direttore può arrivare a sganciarsi da tutti i presupposti tecnici che lo abitano per divenire, nel momento della esecuzione, “medium” di una comunicazione, unica, intima ed esclusiva, con il coro che ha di fronte. È un gesto d’amore.

M. Zuccante: Il tuo palmarès è ricco di successi ottenuti in concorsi nazionali ed internazionali. Credo che in primis sia doveroso ricordare la splendida affermazione del 2003 all’Internazionale di Arezzo. con il conseguimento del Gran Prix. Vuoi raccontarci le emozioni di quei giorni.

M. Berrini: Il ricordo di quei giorni, e di quelli che gli sono seguiti riporta alla mente emozioni molto forti, anche contrastanti fra loro. Ripenso senz’altro in prima istanza al lavoro condiviso con il coro e ai brillanti riconoscimenti ottenuti, ma anche a un certo malsano clima della coralità italiana, che dietro a luminescenti vetrine nasconde, a volte neanche troppo, grandi povertà …

M. Zuccante: A giudicare dai tuoi impegni ti occupi molto di formazione. In forma stabile od occasionale, tieni corsi, stages e masterclass per direttori di coro in varie località italiane e straniere. Mi incuriosisce sapere se, dopo anni di questa attività, riconosci la tua impronta in qualche giovane direttore; insomma, se, come si dice, pensi di aver fatto scuola.

M. Berrini: Non è mai stato un mio obbiettivo quello di creare una “scuola di pensiero”. Sicuramente ci sono persone a me più vicine, con le quali oggi vivo lo stupore fecondo di un rapporto di discenza trasformato in vera amicizia, e che in maniera più diretta di altre hanno condiviso con me esperienze formative, didattiche e musicali forti e caratterizzanti, che oggi si riconoscono, come me, entro i confini di una determinata linea di pensiero musicale e più in generale di una idea del “far coro”. Mi preme comunque dire, che ho ricevuto moltissimo in ogni esperienza corsuale che ho avuto il privilegio di condividere con cantori e direttori: la mia crescita è passata prepotentemente anche attraverso questi incontri, nei quali il desiderio di approfondimento e conoscenza dei discenti è indiscutibilmente diventato uno stimolo per il sottoscritto.

M. Zuccante: Una questione spinosa. Ho assistito lo scorso anno alle selezioni per il Premio Nazionale delle Arti, riservato ai cori di conservatorio. Francamente, c’è stato poco da entusiasmarsi per il livello espresso dalle compagini che si sono esibite. Approfitto pertanto della tua schiettezza e del tuo ruolo di docente di esercitazioni corali, per chiederti i motivi per cui, all’interno dei conservatori italiani (cioè dei luoghi deputati all’alta istruzione musicale), stentano a formarsi gruppi corali di valore e di riferimento.

M. Berrini: Rispondo a questa domanda con la curiosità di chi verrà a contatto (in qualità di membro della commissione di ascolto) per la prima volta alla fine di questo mese di aprile con questa esperienza concorsuale nella quale vengono coinvolti i cori dei conservatori italiani. Lavoro ormai da un ventennio nei conservatori italiani e posso solo dire una cosa a questo riguardo: come per tutte le esperienze concrete della vita, quando accade (o non accade) qualcosa c’è sempre qualcuno che vuole che sia così. Nei conservatori italiani non ci sono cori? Quelli che ci sono non cantano o esprimono un livello decisamente basso? La risposta a questi interrogativi è presto data. Gli studenti dei conservatori italiani non hanno nulla da invidiare a nessuno studente di nessun altro conservatorio europeo. Dobbiamo soltanto porci con estrema franchezza alcune domande: in quale misura la gestione didattica dei conservatori italiani (e sto parlando in modo concreto, pensando ai direttori) promuove la coralità in seno al conservatorio? Obbligando gli studenti a un numero irrisorio di anni di frequenza alla classe di esercitazioni corali, in un momento della vita formativa dello studente che è magari non è neanche fisiologicamente idoneo (leggi, per le voci maschili: quello della muta della voce)? Esonerando gli studenti delle classi di canto a partecipare alle lezioni di esercitazioni corali? Ebbene sì, i cantanti vengono esonerati perché l’attività corale “danneggia il loro strumento” … Continuiamo pure a creare degli illusi! Coloro i quali dovrebbero far tesoro di una esperienza didattica che potrebbe essere – nel loro poco roseo futuro – l’unica valvola di sfogo per poter continuare a far musica dopo lo straccio di diploma che verrà loro rilasciato, vengono esonerati dalla stessa! Ma lo sanno questi cantanti che chiedono esoneri a raffica presentando false certificazioni mediche (se ci fosse lo spazio avrei una letteratura in proposito … ) che alcuni fra gli attuali più grandi cantanti al mondo (facciamo solo un paio di nomi: Anne Sofie von Otter, mezzosoprano svedese, e Brin Terfel, baritono gallese) provengono da qualificatissime esperienze corali? Ma forse, in Svezia e in Scozia, la voce ai cantanti che studiano non si rovina come in Italia! Che dire poi, quand’anche non ci si imbatta in situazioni come quella sopra descritta, delle scelte di repertorio delle classi di esercitazioni corali? Gli studenti dei conservatori italiani devono cantare, devono frequentare la pratica vocale come un nutrimento formativo per la parallela pratica strumentale: la voce, il coro, deve tornare – anche qui da noi – a essere un punto centrale del progetto formativo. I giovani che frequentano i conservatori italiani vanno formati alla coralità dalla base, con le difficoltà che si incontrano solitamente lavorando con un coro di dilettanti: hanno poca esperienza nella lettura cantata (mi esimo dall’esprimere opinioni sulle competenze acquisite dagli studenti nelle classi di teoria e solfeggio), nessuna esperienza vocale e tantomeno corale; non sono abituati a pensare all’intonazione di un suono come a un fatto legato alla volontà della coscienza … Quindi, in sostanza, cosa fargli cantare? Ma, come per tutte le esperienze della vita, ci sono le “eccezioni che confermano la regola”: laddove in un conservatorio si uniscono lungimiranza e competenza didattica e c’è una volontà “che vuole”, i cori cantano … e bene!

M. Zuccante: Una delle iniziative in cui sei stato di recente particolarmente attivo è quella della conduzione del Coro Regionale Valdostano e, fuori dai confini nazionali, del Coro Nazionale Giovanile Argentino. Forme analoghe di aggregazioni corali attorno a un progetto si ripetono altrove e in diversi contesti. Vuoi brevemente parlarci del senso di queste esperienze?

M. Berrini: L’esperienza del Coro Giovanile Nazionale Argentino è stata incredibile. Una formazione solidissima, formata da giovani tra i 18 e i 29 anni selezionati su scala nazionale e provenienti da tutto il territorio argentino (che conta una superficie pari a cinque volte quella italiana): il meglio del meglio dal punto di vista musicale e non soltanto per la qualità vocale! Ricordo che nei giorni immediatamente successivi alla mia produzione musicale a Buenos Aires (con un repertorio completamente dedicato alla letteratura italiana del ‘900) si sarebbero svolte selezioni nazionali per integrare l’organico alla fine della stagione sarebbe stato privato di un paio di voci per raggiunti limiti di età. Gli iscritti alla selezione per soli due posti erano più di 150! Sì, perché il Coro Giovanile Nazionale Argentino è un coro trattato professionalmente dallo Stato, che stipendia i cantanti che ne fanno parte per tutti gli anni di permanenza nella formazione. Come se non bastasse, in Argentina ci sono anche il Coro Nazionale dei Bambini, il Coro Nazionale dei Ciechi e il Coro Nazionale (degli adulti): anch’essi tutti regolarmente stipendiati. Necessità di commentare? Uno dei paesi al mondo che dopo anni di estrema congiuntura e difficoltà economica sta ora rialzando un poco la testa, ci dà una grande lezione di civiltà. Un intero popolo che canta … e come canta! Un bilancio decisamente positivo è anche quello che posso tracciare dopo la bella esperienza alla guida del primo Coro Regionale Valdostano: 17 cori su 31 hanno aderito all’iniziativa per un totale di 72 cantori abbastanza equilibrati numericamente nella distribuzione fra i registri vocali, soprattutto se si tiene conto della “fisiologica” mancanza di voci maschili. Ricordo ancora l’entusiasmo con il quale fu accolta la proposta dell’iniziativa da parte della commissione artistica e soprattutto del presidente dell’associazione dei cori valdostani, Marinella Viola, che non ha esitato a valutare concretamente la fattibilità dell’operazione. Ghiotta si rivelava poi l’opportunità di far coincidere il primo concerto di questa formazione regionale con il decennale dell’Arcova. Un progetto lungimirante, che spero venga portato avanti in futuro da questa piccola ma operosa associazione regionale; un’opportunità concreta, al di là di tante parole, per far crescere il senso di appartenenza attorno al valore del cantare insieme.

M. Zuccante: Nel tuo lavoro, oltre alla direzione stabile del prestigioso Ars Cantica Choir & Consort, collabori in Italia e all’estero con varie istituzioni corali professionali e non. In virtù di questa privilegiata posizione di osservazione e della tua esperienza, come giudichi le opportunità che si offrono oggi a un giovane che volesse intraprendere il mestiere di direttore di coro? Quali consigli ti senti di dargli?

M. Berrini: Ho il piacere di poter collaborare stabilmente con i cori dei teatri di Siviglia e Malaga, in Spagna, e questo mi ha offerto l’opportunità di confrontarmi con realtà musicali, e di formazione musicale, molto differenti dalla nostra. Gli studenti che si preparano alla professione del direttore di coro, all’estero, godono innanzitutto di una opportunità quasi totalmente negata in Italia: quella di poter studiare, almeno in alcuni momenti della loro carriera di studenti, di fronte a una formazione corale. È risaputo che in Italia al direttore di coro sono offerte pochissime opportunità per studiare con un coro: è incredibile, ma è la realtà, ormai consolidata e confermata da anni. Inoltre il direttore di coro italiano non ha reali sbocchi occupazionali: le formazioni professionali legate agli enti lirici e alle istituzioni sinfoniche usano criteri molto “originali” per la selezione degli eventuali maestri del coro, e comunque sempre senza indire alcuna forma di concorso pubblico; sono pochissime Ce piuttosto blindate anche esse) le istituzioni religiose propense a considerare in modo professionale la figura del maestro di cappella. E poi, in Italia, o sei direttore d’orchestra o non sei nessuno … Quindi le prospettive non sono rosee: una formazione “all’acqua di rose”, nessuna certezza lavorativa concreta nel campo specifico. Ma io mi sento di invitare i giovani e gli appassionati a non mollare. Soffriamo della mancanza di alcune fondamenta culturali a livello musicale (e non solo) che penalizzano pesantemente tutto il settore. A noi direttori di coro sta il compito di lavorare sul territorio, diffondendo quella cultura del far musica in prima persona che sola può recuperare alla musica (quella con la M maiuscola!) il posto che le spetta nella prospettiva culturale del nostro paese; lavorare all’interno di quel fecondo terreno di coltura che sono i cori amatoriali, con dedizione, pazienza, umiltà. facendo crescere una consapevolezza musicale individuale che possa poi esprimersi a livelli sempre più qualificati. Quella della bellezza è la migliore voce per rendere giustizia a chi fa sempre più fatica a farsi ascoltare.

[Choraliter, n. 31 Gennaio-Aprile, Ed. Feniarco, 2010]




Mauro Zuccante, “La Contessina Andreina Viola”, da Tre Piccoli Epitaffi, Coro da Camera del CONSERVATORIO DI ALESSANDRIA – Marco Berrini, direttore
Marco Berrini è Direttore di Coro, Direttore d’Orchestra e Didatta. Ha completato la sua formazione accademica con gli studi musicologici.Vincitore di Primi Premi nei più importanti Concorsi Corali Nazionali e Internazionali, è stato Finalista alla Prima edizione del Concorso Internazionale per Direttori di Coro “Mariele Ventre” di Bologna (2001) dove ha vinto il 3° premio ex-aequo.Dal 1989 al 1992 è stato Maestro Sostituto Direttore del Coro da Camera della Rai di Roma col quale ha effettuato registrazioni per RAI Radio Tre.È direttore artistico e musicale del complesso vocale professionale Ars Cantica Choir & Consort, e fino al giugno 2010 del Quartetto Vocale S. Tecla, formazione professionale del Duomo di Milano; ha fondato e dirige il Coro da Camera del Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria.

Ha diretto in Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Svizzera, Austria, Israele, Argentina, Emirati Arabi.

E’ stato Direttore Ospite al Co.Na.Jo. (Coro Nazionale Giovanile) dell’Argentina e del Coro del Teatro Municipale di Cordoba (Argentina). Collabora in qualità di Direttore Ospite con il Coro del Teatro dell’Opera di Malaga (Spagna), con il Coro del Teatro de La Maestranza di Siviglia e con l’Orchestra e Coro della Comunità di Madrid (ORCAM), (Spagna). Ha curato la pubblicazione di musica vocale per le case editrici Suvini Zerboni, Carrara, Rugginenti, Discantica, BMM, Carisch.

È regolarmente chiamato a far parte della giuria di concorsi corali nazionali ed internazionali e a tenere master di formazione e perfezionamento per cantori e direttori in Italia e all’estero.

Dal 2009 è direttore artistico della Milano Choral Academy, scuola internazionale di formazione perfezionamento per direttori di coro e cantori.

È titolare della cattedra di Esercitazioni Corali (vincitore di concorso nazionale) presso il Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria.

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Mario Mora – intervista

M. Zuccante: Caro Mario, nel ruolo di fondatore e direttore de “I Piccoli Musici” di Casazza, tu hai ottenuto meriti e riconoscimenti assai apprezzabili. Le affermazioni nei più importanti Concorsi nazionali ed internazionali, gli inviti a festival e stagioni concertistiche di prestigio in Italia e all’estero, la partecipazione ad eventi radiofonici e televisivi, le registrazioni discografiche, testimoniano l’alto livello artistico raggiunto dal coro e l’elevata professionalità del tuo mestiere. Alle considerevoli attività che ho citato, vanno aggiunte le collaborazioni nell’ambito di produzioni sinfonico-corali e di allestimenti di opere teatrali. Vorrei circoscrivere la nostra conversazione a questo tipo di impegni, iniziando col chiederti quali sono state le premesse che ti hanno portato a coinvolgere il coro in progetti teatrali di elevata complessità.

M. Mora: Fare musica con i bambini è un’esperienza bella e gratificante ma il lavoro deve essere paziente e proporzionato all’età, deve essere continuativo nel tempo per crescere con il bambino stesso. Nella scuola “I Piccoli Musici” i bambini iniziano la propedeutica a partire dall’età di 4 anni e il canto dai 6 anni come pure la lettura della partitura. Quando arrivano, attraverso i corsi preparatori alla formazione da concerto hanno maturato una buona musicalità e capacità espressiva. Ecco che sono pronti per l’avventura attraverso concerti e incisioni. Dopo anni di attività concertistica ci è stata chiesta, per la prima volta nel 1999, dal Teatro Donizetti la partecipazione alla stagione lirica del Circuito Lombardo con l’opera Carmen di Bizet. Furono nove recite suddivise tra i Teatri Donizetti di Bergamo, Ponchielli di Cremona, Grande di Brescia e Fraschini di Pavia. In un primo momento l’impegno mi spaventò perché le recite erano precedute da undici prove in teatro che richiedevano molto tempo, vista anche la durata dell’opera, pensavo ai rientri a tarda notte dalle varie città, ma fu un’esperienza che i ragazzi seppero affrontare con impegno, responsabilità e soddisfazione e, pur essendo in periodo autunnale, non mancò mai nessuno, nemmeno per i malanni di stagione!

M. Zuccante: Fra gli aspetti tecnici che tu affronti nel preparare il coro a sostenere la sonorità di una grande orchestra e gli spazi del palcoscenico, credo che sia basilare quello della vocalità. Consigli ai tuoi ragazzi delle modificazioni nell’emissione vocale, o la loro impostazione rimane la medesima che utilizzano nei concerti a cappella?

M. Mora: Voglio rispondere a questa domanda raccontando proprio il primo impatto con il direttore d’orchestra alla prima prova della Carmen. Dopo aver eseguito il pezzo di fronte al maestro responsabile del coro misto che aveva apprezzato la bella vocalità e impostazione, alla prima prova con l’orchestra il direttore concertatore fermò il coro e disse letteralmente: «bambini, non dovete cantare così bene, dovete cantare nel naso, siete un coro di monelli…». Io rimasi perplesso, ma pensai che forse chiedeva solo più spontaneità. Infatti già alla seconda prova si complimentò con i ragazzi che non avevano certo cambiato impostazione vocale, ma affrontavano la parte con più disinvoltura. Sono convinto che non esistono tecniche vocali diverse a secondo del repertorio, ma bisogna puntare sempre ad una corretta emissione vocale dei bambini sulla cui base il gusto, la cultura, l’esperienza di chi li istruisce potrà differenziare i diversi stili per il raggiungimento di risultati esecutivi desiderati. I bambini in teatro possono essere sì carini e divertenti, ma ancor più possono essere bravi artisticamente.

M. Zuccante: Una robusta padronanza vocale (che certamente non manca al tuo coro), è sufficiente per affrontare le insidie del palcoscenico, o essa va sostenuta da un’altrettanto solida preparazione musicale? Immagino che i tuoi ragazzi sappiano assecondare immediatamente le richieste del direttore, grazie alle loro competenze e alla maturità musicale generale che possiedono.

M. Mora: Grazie al costante lavoro settimanale durante l’anno con prove a sezioni e insieme, oltre alle lezioni di solfeggio, indipendenti dalle lezioni di coro, i ragazzi raggiungono una buona elasticità musicale, pronti ai cambi di tempo e di dinamiche che eventualmente il direttore concertatore in teatro può richiedere.

M. Zuccante: Il compito del maestro del coro in teatro è alquanto ridimensionato, poiché le scelte interpretative spettano prevalentemente al direttore d’orchestra. Credo, inoltre (ma dimmi se sbaglio), che a volte il tuo lavoro di rifinitura e cesello sul suono e sul fraseggio, sia stato vanificato da successivi interventi grossolani. Quali sono stati, finora, i tuoi rapporti con i direttori d’orchestra? Hai incontrato qualche direttore che si è dimostrato particolarmente sensibile nel valorizzare le potenzialità espressive del coro di bambini sulla scena?

M. Mora: Credo di essere stato fortunato perché ho sempre apprezzato quanto è stato richiesto ai ragazzi e come questi hanno risposto, sia nella partecipazione in opere di grande formazione scenica, sia nelle opere per bambini, come pure in opere sinfoniche. È chiaro che in teatro la preoccupazione maggiore è quella della sonorità e questa ricerca va a discapito delle sfumature e dell’inflessione della voce, ma diversi direttori come ad esempio Riccardo Chailly apprezzavano del mio coro la voce chiara, il suono morbido, l’intonazione. Helmut Rilling invece con l’orchestra della Rai per la Passione secondo Matteo di Bach, voleva un coro di 30 maschi. La direzione artistica dell’orchestra rispose che in Italia era difficile trovare un coro di soli maschi… alla prima prova mi chiese di far cantare ai miei ragazzi il primo corale a voci scoperte, ma dopo solo due battute disse senza tanti complimenti: «bella pronuncia e bel suono, proviamo con l’orchestra».

M. Zuccante: Negli allestimenti teatrali il regista impone la sua visione dello spettacolo. Egli rappresenta un’altra figura con la quale il maestro del coro deve collaborare e con il quale deve trovare un compromesso tra le esigenze musicali e le posizioni e i movimenti sulla scena. Quale è la tua esperienza in merito?

M. Mora: Ho conosciuto dei registi molto validi che hanno veramente saputo trasformare i ragazzi. Alcuni coristi sono stati subito spontanei e disinvolti sulla scena, ma altri hanno fatto più fatica e devo dire che veramente il regista ha saputo far emergere qualità che nemmeno il ragazzo stesso conosceva! Anche per questo è un’esperienza educativa, ho visto sorridere chi, nei rapporti di tutti i giorni non sorride quasi mai o anche realizzarsi chi all’apparenza sembra timido ma si è ben lasciato coinvolgere dalla sceneggiatura. Anche i costumi in teatro vengono indossati con particolare piacere e eccitazione e aiutano ad immedesimarsi nella parte. Naturalmente bisogna riuscire a conciliare il movimento con il canto… tutto si impara se c’è determinazione ed entusiasmo.

M. Zuccante: Come riescono i tuoi ragazzi a conciliare le fatiche degli spostamenti, la disciplina del lavoro in teatro, la tensione della prestazione sulla scena, con la quotidianità delle loro occupazioni e dei loro impegni di studio? Suppongo che i tempi lunghi delle prove e l’orario degli spettacoli li sottoponga (assieme alle loro famiglie) a sacrifici e rinunce di una certa entità.

M. Mora: Quando il bambino entra a far parte della formazione da concerto sa che l’esperienza è bella ma impegnativa: due prove settimanali a cui non deve mancare, tanti concerti, tanti viaggi anche lunghi. I più grandi si sono abituati, sono pazienti ed hanno un comportamento spesso davvero esemplare, i più piccoli… devono imparare da loro! Devo però dire che è un gruppo ben affiatato, carico di entusiasmo e ancor più di amicizia e stanno piacevolmente insieme. Sono in genere ragazzi che non hanno nessuna difficoltà anche a scuola per cui recuperano facilmente le lezioni scolastiche (anche di parecchi giorni) che perdono. Sembra proprio che anche l’attività musicale li renda più ricettivi, più inclini all’ascolto, alla concentrazione e allo studio. Ho sempre avuto anche genitori che capivano le esperienze uniche che i loro figli potevano fare a questa età magari non ripetibili.

M. Zuccante: Non di rado i compositori hanno inserito, accanto al coro di voci bianche, una parte da solista per qualche bambino. Si prospetta, quindi, un compito particolare per il maestro del coro. Come affronti la preparazione per questo tipo di ruoli?

M. Mora: Anche lì bisogna cercare il bambino più adatto al personaggio che però abbia anche le caratteristiche vocali necessarie… certamente non tutti i bambini del coro potrebbero cantare da solisti. Devo dire che in un’opera pochi anni fa ho insistito per un bambino solista, che inizialmente il regista non condivideva, ma in cui io riponevo molta fiducia, ottenendo veramente un ottimo risultato finale: anche se era quasi alla muta della voce ha saputo interpretare il personaggio (Donizetti bambino, Il Piccolo cantore) con vocalità e timbro brillante, molto ricco e carico dell’emozione del personaggio bambino e adolescente che deve fare la scelta del suo futuro; il tutto vissuto dopo un primo approccio timido con una presa molto disinvolta e sicura del palcoscenico. Nelle opere di Britten come Il Piccolo Spazzacamino e L’Arca di Noè, dove oltre al coro viene richiesto un numero considerevole di voci soliste, è stato utile aver già affrontato in passato e tuttora aver in repertorio, le stupende pagine Missa Brevis e A Ceremony of Carols. Affrontare partiture così complesse per ampiezza, articolazione, originalità di linguaggio, sono state per il coro occasioni di crescita senza precedenti.

M. Zuccante: Finora abbiamo parlato delle collaborazioni, ma non vanno dimenticati gli spettacoli che “I Piccoli Musici” hanno interamente autoprodotto, sotto la tua direzione. In particolare, trovo significativo il recente allestimento dell’operina Brundibar. Quali difficoltà hai dovuto affrontare in questo lavoro, sia dal punto di vista artistico-musicale, che da quello organizzativo?

M. Mora: Ho particolarmente apprezzato quest’operina, perché oltre ad essere piacevole musicalmente ha molteplici scopi educativi: il ricordo della shoah; la fiaba racconta la speranza segreta e profonda di chi l’ha composta, il desiderio che il bene vinca sul male. L’avevamo conosciuta anni fa e mi era piaciuta molto ma non avevo condiviso proprio l’allestimento del registra che proponendola ai bambini aveva evidentemente pensato di sdrammatizzarla con pupazzi, allora appena possibile ho desiderato produrla. Dovendo ridurre la partitura orchestrale mi sono affidato a te che l’hai sapientemente rielaborata per gli strumenti che avevo a disposizione; ho dovuto pensare all’allestimento del palcoscenico, i genitori si sono preoccupati dei costumi, ho chiesto a un regista di realizzare la coreografia tenendo conto anche di alcuni principi di base a cui tenevo… e ho aggiunto una presentazione teatrale per introdurre l’argomento storico… Un’esperienza faticosa che ha coinvolto anche insegnanti e ragazzi della scuola di musica agli strumenti e che ha reso ancora più partecipi le famiglie.

M. Zuccante: Infine, Mario, dopo averti ringraziato per la tua disponibilità, vorrei chiederti ancora un’ultima riflessione. Esprimi una valutazione sulle opportunità formative che i tuoi piccoli cantori possono sperimentare, praticando l’arte del teatro, ad arricchimento non solo del loro bagaglio musicale, ma, più in generale, della loro crescita personale e culturale.

M. Mora: Lavorando in teatro con grandi orchestre, direttori, registi, cantanti, ballerini ecc. i ragazzi hanno la possibilità di costruirsi un bagaglio culturale e musicale che li accompagna per tutta la vita. Hanno la fortuna di affrontare e conoscere opere e grandi capolavori musicali che solitamente nell’attività di un coro di voci bianche non si affrontano, con la possibilità di rafforzarsi nel carattere e nella loro sicurezza personale affrontando grandi platee, emozioni e rischi. Concludendo potrei dire che tutto questo e le altre esperienze che i ragazzi possono fare in un coro, li portano ad apprezzare tutto ciò che è bello e autentico: l’amicizia, l’impegno, la passione, l’arte, con la finalità di cantare insieme, ma maturando dei valori che vanno ben oltre.

[Choraliter, n. 26 Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2008]

Il Presidente Giorgio Napolitano e Mario Mora




Mauro Zuccante, Laudes creaturarum, Piccoli Musici di Casazza, Mario Mora, direttore
Mario Mora ha studiato pianoforte, organo e musica corale.
E’ fondatore (1986) e direttore artistico della Scuola di Musica e del Coro “I Piccoli Musici” con il quale svolge un’intensa attività artistica con concerti, incisioni, collaborando con Teatri, Orchestre e direttori quali Riccardo Chailly, Romano Gandolfi, Helmuth Rilling, Gabriel Garrido, Rudolf Barshai, Claus Peter Flor, Jeffrey Tate, Wayne Marshall, Steven Mercurio, Peter Schreier.
E’ docente di corsi, convegni ed atelier nazionali e internazionali, sulla vocalità infantile rivolti a cori di bambini, direttori e insegnanti: Levico Terme, Macerata, Genova, Arezzo, Malcesine, Jesolo, Loreto, Salerno, Lugano, Riva del Garda, Brescia, Bergamo, Trento, Università degli Studi Roma 3, Montecatini Terme, Bassano del Grappa.
E’ stato premiato quale miglior direttore al 29° Concorso Nazionale Corale di Vittorio Veneto, al 5° Concorso Corale Internazionale di Riva del Garda e al 26° e 28° Concorso Corale Nazionale di Quartiano
E’ membro di giuria in Concorsi nazionali e internazionali.
Con il coro I Piccoli Musici ha partecipato a concerti trasmessi da R.A.I. – MEDIASET – TV e Radio Svizzera; in particolare nel 2007, 2008 e 2010 il Concerto di Natale trasmesso da RAI UNO in EUrovisione dalla Basilica di Assisi.
E’ inoltre docente in qualità di Maestro e Direttore del Coro di Voci Bianche della Scuola Diocesana di Musica S. Cecilia di Brescia.
Nell’anno 2001, è stato nominato da Papa Giovanni Paolo II “Cavaliere dell’ordine di San Silvestro Papa” per l’attività educativa e musicale svolta in favore dei ragazzi.
La Fondazione “Guido d’Arezzo” gli ha conferito il premio alla carriera “Guidoneum Award 2008”
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Giovanni Bonato – intervista

M. Zuccante: Caro Giovanni, mi fa piacere che tu abbia accettato di rispondere ad alcune domande sul tema del testo letterario nella composizione corale. A giudicare dalle tue opere, per te il testo rappresenta un elemento di valore fondamentale. Mai pretesto, ma premessa basilare per l’invenzione poetico-musicale. Cominciamo con una domanda un po’ banale, ma che incuriosisce soprattutto i non addetti ai lavori. La scelta del testo precede sempre l’atto creativo vero e proprio, oppure ti è capitato qualche volta di sviluppare delle idee musicali alle quali hai applicato in seguito le parole?

G. Bonato: Direi che, a parte qualche tentativo … giovanile di carattere “leggero” o di studio, i miei brani corali o vocali sono sempre stati ispirati da un testo o dalla possibilità di far convivere più testi poetici.

M. Zuccante: In molte tue composizioni in effetti, invece di testo letterario, mi sembra sia più corretto parlare di testi letterari. Infatti, fai spesso ricorso alla commistione di testi. Aggiungo che l’origine dei testi e la lingua si presentano di natura molto diversa. In Audi, filia, ad esempio, l’antico testo latino s’incrocia con i versi di Dante Alighieri e con citazioni in inglese da John Milton, in francese da Eustorg de Beaulieu e in tedesco da Heinrich Heine. Quali sono le motivazioni estetiche che ti portano a fare un uso simultaneo di materiali letterari apparentemente così diversi?

G. Bonato: Parto innanzitutto dal presupposto che anche la lingua è un’espressione musicale. Ogni lingua possiede una sua musicalità. Vale a dire, i fonemi che la compongono creano una variopinta coloritura, una molteplice successione e combinazione timbrica, che attraverso l’impiego non solo di vocali, ma anche – e soprattutto oserei dire – di consonanti, mi attraggono e stimolano da sempre la mia creatività. Una creatività tesa verso la ricerca di un mondo sonoro cangiante non tanto sotto l’aspetto dello spettro armonico, quanto piuttosto nell’aspetto “fisico” del suono. In questo caso la mia formazione accademica, fondata su figure quali Manzoni, Ligeti, Berio, Nono – tanto per citare solo alcuni fra i nomi più significativi – influisce ancora in modo determinante su quanto scrivo, sebbene negli ultimi anni la mia attenzione nella musica corale si sia indirizzata verso una maggiore semplificazione del messaggio sonoro. In riferimento al mio “Audi, filia”, al quale tu poco fa alludevi, agli aspetti poc’anzi accennati, ne va aggiunto un altro, per così dire, d’occasione. Quando la Feniarco mi ha commissionato questo lavoro, è stato per il concerto del CGI, diretto da F.M. Bressan – e questo lo sai bene anche tu, visto che eri tra i compositori commissionati per quell’evento…memorabile, concedimi il termine – in occasione dell’Assemblea generale di “Europa Cantat” nel novembre 2004 a Venezia. E’ stata per me un’opportunità molto attraente: rendere un doveroso omaggio alle decine e decine di delegati da tutta Europa, producendo un brano poli-linguistico. Qui i testi da me scelti, giustamente come hai detto, solo in apparenza sono così diversi. Eccezion fatta per il testo latino, che ha un ruolo portante, centrale – “Audi, filia”, appunto – gli altri sono citazioni poetiche che, pur spaziando nel tempo e negli stili, sono accomunati nel contenuto da un riferimento strettamente musicale.     

M. Zuccante: Ricorrono nel tuo catalogo le composizioni su testo liturgico. Mi risulta però difficile classificarle nel genere della musica sacra tout court. Nella tua interpretazione musicale i testi trascendono la dimensione liturgica. Consideriamo Stetit Angelus: “visione sonora” di uno stato d’estasi religiosa, ma che potrebbe anche essere contemplazione platonica, nirvana. Mi sbaglio?

G. Bonato: Non ti sbagli. Effettivamente quello che di solito cerco nella musica sacra, ma anche in quella “profana”, è una dimensione mistica. L’aspetto liturgico mi interessa poco, anche perché avendo una sua precisa funzione “pratica”, non mi dà la possibilità di sperimentare, almeno in parte. Certo, ho una mia idea su come si potrebbe musicare un testo liturgico, coinvolgendo un coro amatoriale ed ev. un’assemblea di fedeli, ma finora, malgrado le proposte fattemi, non ho riscontrato ancora una convinta e convincente finalità artistica. Inutile dirlo, ma la Chiesa, da questo punto di vista ha le sue responsabilità, e qui non è il caso di ribadire la solita polemica. Ad ogni modo, ribadendo quanto detto poco fa, l’aspetto mistico e sacrale è una componente per me essenziale, che si può esprimere anche utilizzando testi profani, tanto meglio se intrisi di spiritualità e di visioni che stimolino la creatività musicale. Non dimentichiamo che la musica è un’espressione dello spirito e io la conduco attraverso un mio modo di intendere la religiosità. “Stetit angelus” rientra in questa dimensione, sebbene all’interno della mia produzione risulti un fatto episodico per la sua scarna semplicità. Normalmente per esprimermi in tal senso sento il bisogno di creare un’ampia suddivisione delle parti corali, secondo una tecnica compositiva che definirei quasi più strumentale/orchestrale che corale. Nella complessità di un gioco di squadra allargato trovo il mio habitat più naturale. Non mi so esattamente dare un spiegazione. Mah, forse dipende dalla mia attrazione per la scrittura orchestrale. Probabilmente molto dipende anche dalla mia cultura famigliare…

M. Zuccante: Affrontiamo ora una vexata quaestio. Risale ai tempi della Controriforma il tentativo di Palestrina di dimostrare, con la composizione della Missa Papae Marcelli, la compatibilità tra musica polifonica e comprensione del testo. Ma fra semplificazioni (il recitar cantando) e nuove complicazioni (i concertati d’opera), la questione è rimasta aperta. Nella musica contemporanea, infine, la faccenda si è ulteriormente intricata. In particolare, nelle composizioni di quegli autori che si ispirano alle tecniche delle avanguardie. Nelle loro opere il trattamento del testo (spesso affogato in una trama polifonica assai fitta, o disgregato nelle sue componenti fonetiche primarie), certamente non facilita il compito all’ascoltatore intento a ricostruire la parola cantata. Insomma, non è raro ascoltare oggi brani in cui le ragioni del processo compositivo prevalgono sul discernimento lineare del testo. Nei casi più complessi è addirittura necessario documentarsi sul testo letterario prima di procedere all’ascolto. Qual’è la tua opinione in proposito?

G. Bonato: Prima di risponderti a questa domanda, è giusto ricordare che anche nel periodo della Controriforma vi furono compositori (anche all’interno del mondo clericale) che disattesero i dettami conciliari (gli inni di Asola e di Lasso ne sono un esempio alquanto significativo). Ciò deve indurre a pensare che la comprensibilità del testo non è mai stata concepita dai compositori come un’esigenza primaria, tanto più se imposta per motivi dottrinali e soprattutto se consideriamo la loro volontà di sottolineare ed enfatizzare artisticamente, secondo le tecniche compositive del loro tempo, quanto il testo letterario intende esprimere. A mio avviso, qui sta il punto. Anche passando attraverso le varie fasi storiche e giungendo fino a noi, possiamo riscontrare un interesse dei compositori per il testo letterario, che va al di là di ciò che la parola, umanisticamente intesa e nel suo significato, vuole manifestare. Il testo stesso, da parte di molti compositori dell’Avanguardia storica è stato addirittura decomposto fino alla sua essenza sonora: il fonema. Che spesso da solo può esprimere sensazioni, essere autosufficiente ad esprimere perfino emozioni universali. Personalmente, anch’io sia come compositore sia come ascoltatore ritengo l’intelligibilità del testo, il più delle volte, un’inutile preoccupazione. Anzi, pur sembrando un paradosso, spesso l’incomprensibilità del testo risulta essere affascinante, quasi avvolta da un’arcana attrazione. Il latino per fare un esempio, quanto meno a livello popolare, gode ancora di questo fascino. Spesso poi nei concerti capita di sentire brani in una lingua che non si conosce o che si conosce in modo approssimativo. Nonostante ciò, la potenza del messaggio musicale prevale nella sua bellezza e la lingua sembra un valore aggiunto. Per molti questa affermazione, sebbene possa sembrare contraddittoria – me ne rendo conto e spero di non venir frainteso -, appare come una corbelleria. La prova dei fatti spesso comunque – siamo sinceri – lo conferma.       

M. Zuccante: Ricordo che nelle lunghe chiacchierate fatte durante i Seminari di Composizione di Aosta, hai lanciato una proposta, che ho immediatamente condiviso. In sostanza, hai suggerito di far lavorare i corsisti sul tema della Natura, considerato il magnifico paesaggio alpino che circonda la città di Aosta. Poi, non s’è fatto nulla. Peccato. Ma da uno che ha concepito musiche che sono state eseguite nelle grotte e composizioni dal titolo Alpenklang, c’era da aspettarsi uno spunto così stimolante. Sono convinto che non fosse nelle tue intenzioni proporre un lavoro di mera imitazione dei suoni della Natura, bensì di evocazione. Pertanto, vorrei chiederti quale idea letteraria ti viene in mente per una composizione del genere? Certamente non testi tipo i sonetti che hanno ispirato Le Stagioni di Vivaldi.

G. Bonato: A dire il vero un’idea letteraria particolare a questo riguardo non ce l’ho. O meglio, fermo restando che liriche stimolanti e meravigliose si possono trovare in ogni epoca e stile, potrei pensare ad accenni vari, tratti da differenti testi lirici e in prosa presi qua e là da vari autori. Oppure ad utilizzare semplici parole, in varie lingue, dal significato pertinente, le quali contengano fonemi adatti a sostenere una o più idee musicali, unitamente a particolari effetti e comportamenti vocali. Magari evitando scontati effetti onomatopeici. Proprio in quella occasione di Aosta comunque, se ti ricordi, la mia proposta era legata al fatto che ai corsisti avevo proposto una sorta d’indagine sulla qualità e sulle potenzialità dei fonemi nella musica vocale. L’idea della natura, ad ogni buon conto, mi era stata suggerita soprattutto dalla grande quantità e varietà di …stimoli sonori, che l’ambiente alpino offre ad un attento ascoltatore.

M. Zuccante: Una cifra stilistica che contraddistingue il tuo lavoro è l’attenzione che riservi alla dimensione della spazializzazione del suono. Il testo, in questo caso, assume un movimento rotatorio, generato dal gioco delle voci, che si rimandano parole e articolazioni fonetiche da un lato all’altro dell’auditorium. Attraverso questa tecnica anche una sola parola può offrire materiale sufficiente per la costruzione di un’architettura sonora molto suggestiva. Penso al tuo Amen, per coro spazializzato. Parla di questa tua tecnica.

G. Bonato: Sì, è vero. La spazializzazione del suono è una dimensione alla quale difficilmente so rinunciare, soprattutto quando devo scrivere un brano corale o un brano cameristico strumentale. Questa esigenza nasce dal fatto, non tanto di “spettacolarizzare” la performance, quanto piuttosto di offrire al pubblico una nuova dimensione dell’ascolto e la volontà di far interagire i suoni con l’ambiente, il contenitore (sala o chiesa che sia). L’ascolto frontale ha da secoli condizionato il modo di scrivere e di ascoltare un brano attraverso quelli che nel corso della storia sono diventati dei parametri indispensabili (ritmo, armonia, intreccio, ecc.). Quello spazializzato (Nono, tanto per fare un nome su tutti e altri del recente passato, senza contare la Scuola Veneziana del 500-600, ce l’ha insegnato) immerge l’ascoltatore in una dimensione avvolgente e spesso “coinvolgente”, dove il suono “fisicamente” inteso è protagonista. Certo, questa dimensione mette spesso l’ascoltatore in difficoltà. La poca abitudine a simili esperienze sonore impegna non poco chi ascolta (e anche chi esegue), sottoponendolo ad una concentrazione particolare. In base alle mie esperienze, ho potuto notare spesso tra gli ascoltatori non solo meraviglia e attenzione, ma anche stupore, disorientamento, perfino sconcerto. Fra le altre cose poi, il brano concepito secondo questa tecnica offre la possibilità di rendere “musicale” e artificialmente riverberante anche uno spazio (e noi sappiamo purtroppo quanti siano qui in Italia!) poco o per niente adatto ad un’esecuzione musicale. Riferendomi al mio Amen, vale quanto già detto in precedenza. In questo caso ho giocato con i fonemi che formano questa parola tramite la valorizzazione, oltre ovviamente delle vocali, anche delle consonanti fricative e intonabili (“m” e “n”, appunto), che permettono un uso prolungato del suono ad altezza determinata. Ciò mi ha concesso la possibilità di creare una trama fatta di altezze gradualmente in continua trasformazione timbrica e in costante movimento da un punto all’altro degli otto piazzati nella sala.     

M. Zuccante: Ora vorrei che mi rispondesse l’insegnante di composizione. Ricordo che nel curriculum dei miei studi di composizione era prevista la frequenza del corso di Letteratura poetica e drammatica. Una materia che aiutava ad approfondire, nell’ambito della tradizione, i canoni tecnico-formali che accomunano musica e poesia. Insomma, un utile ripasso della metrica e delle forme poetiche, già studiate al Liceo, in vista delle applicazioni musicali. Ora credo che nei Conservatori le cose siano cambiate e i percorsi molto diversificati. Che consigli dai ai tuoi allievi quando sono alle prese con un testo da mettere in musica? E quali sono gli errori che ti capita più spesso di riscontrare nelle loro prove, in merito alla disposizione del testo?

G. Bonato: A dire il vero, questo aspetto in ambito accademico viene trattato in modo abbastanza superficiale, o per lo più, in modo tradizionale e legato alle prove d’esame di composizione. Da parte degli allievi da questo punto di vista, noto una certa approssimazione, nonostante molti di loro abbiano alle spalle studi classici, nell’abbinare in modo metricamente corretto un testo ad una linea melodica. Capita di vedere qualcuno cadere dalle nuvole quando parli di “barbarismi”. Nelle prove accademiche legate al 500/600 (doppio coro, per esempio) vanno spesso informati sulle regole di versificazione e di scansione correttamente intese per quel periodo. L’analisi sistematica di molta musica di quel periodo, fortunatamente, pone rimedio a queste lacune e li rende consapevoli anche ricavandone delle regole tramite l’osservazione “sul campo”. Per quanto riguarda invece un utilizzo del testo su brani di loro composizione, personali, con tecniche attuali, noto spesso una certa ignoranza sulle potenzialità fonetiche. E’ sorprendente vedere la loro meraviglia quando scoprono le caratteristiche fonetiche dei contoidi! Spesso la stessa meraviglia che ho provato io da studente nella classe di Giacomo Manzoni.

M. Zuccante: Finiamo in tono più “leggero”. Spendiamo alcune parole sui testi di tua invenzione. Mi riferisco in particolare ad alcuni divertissements, dove dai libero sfogo alla tua vis comica: il “quadretto sonoro” Siamo senza vino (“Da cantarsi preferibilmente durante pranzi, cene e rinfreschi”) e il più articolato Pausa al Café Petrarca (dove inventi un rapidissimo refrain parlato, di stampo  rossiniano: «presto presto arrivo tosto, con bevande e con dei toast, se non corro perdo il posto, impossibile far sost’»). Il tuo sense of humour tradotto in musica?

G. Bonato: Premesso che l’ironia (sebbene mia moglie e chi mi sta intorno non siano sempre d’accordo…o non se ne accorgano) fa un po’ parte del mio modo di vedere la vita, i casi che tu citi, con tutta sincerità, sono fatti episodici e legati a particolari occasioni. Quello che tu definisci il mio sense of humour  è più espresso finora nella mia produzione strumentale. A tal proposito ti anticipo che sto ultimando un brano orchestrale (della durata di un minuto!) per l’Orchestra Filarmonica di Torino, che verrà eseguito nel prossimo concerto di S. Silvestro. La mia produzione vocale/corale invece ne è ancora scarsa, forse per il mio timore di non essere all’altezza (sovente capita di sentire brani che provocano un effetto opposto all’intento del compositore!), forse perché le occasioni propostemi non vanno solitamente in questa direzione e pertanto non ho sviluppato tale finalità. Certo, le idee non mancano e mi rendo sempre più conto che il coro è un terreno fertile per situazioni del genere. Per il momento mancano tempo e, come dicevo, valide opportunità per realizzarle come voglio io.

[Choraliter, n. 27 Settembre-Dicembre, Ed. Feniarco, 2008]




Giovanni Bonato, Four For Peace, per 4 violoncelli
GIOVANNI BONATO (Schio, 1961) è un compositore e docente di discipline musicali italiano.Ha iniziato gli studi di composizione con Fabio Vacchi a Vicenza, proseguendoli e perfezionandosi con Adriano Guarnieri e successivamente diplomandosi nel 1986 con Giacomo Manzoni al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano; ha inoltre studiato direzione d’orchestra alla Scuola Civica di Musica di Milano.Segnalatosi ben presto grazie a numerosi premi e riconoscimenti in concorsi internazionali di composizione, la sua musica viene eseguita da interpreti quali il Quartetto Arditti, Marco Fornaciari, Arturo Tamayo, l’Ex Novo Ensemble, Domenico Nordio, Leonard Slatkin, Mario Brunello, i Neue Vocalsolisten Stuttgart, Filippo Maria Bressan in festival e rassegne internazionali (tra cui la “Settimana Musicale Senese”, il “Festival Pontino”, il “Settembre Musica” di Torino, il “Gaudeamus Music Week a Amsterdam, il “Festival delle Nazioni”, la rassegna concertistica di “Nuova Consonanza” a Roma). Sue musiche sono state inoltre programmate da enti quali l’Orchestra “Toscanini” di Parma, l’Orchestra del “Teatro Verdi” di Trieste, l’Orchestra Sinfonica Siciliana, l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma.È stato più volte chiamato a far parte di giurie in premi nazionali ed internazionali di composizione ed esecuzione musicale; attualmente è docente di composizione al conservatorio “C. Pollini” di Padova, nonché docente di analisi (musica contemporanea) e composizione ai corsi estivi organizzati dalla FENIARCO.È stato designato “compositore in residenza” per la stagione concertistica 2002-2003 dell’Orchestra di Padova e del Veneto.

È autore di alcuni brani cameristici (vocali e strumentali), corali e sinfonici editi da Ricordi, Rugginenti, Agenda, Salabert, A Coeur Joie, Edizioni Suvini Zerboni, Edizioni Feniarco ed altri.

Si è specializzato nella musica corale, alla quale ha dedicato gran parte della propria produzione compositiva.

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Orlando Dipiazza – intervista

M. Zuccante: Caro Maestro Orlando, mi onora la tua disponibilità a concedermi quest’intervista. Ciò costituisce per me l’occasione di affermare pubblicamente l’ammirazione e la stima che nutro nei confronti della tua opera e della tua persona. Iniziamo dagli anni giovanili. Come si è articolato il tuo percorso di formazione? Da quali maestri hai appreso l’arte della composizione e della direzione di coro?

O. Dipiazza: Caro Mauro tu sai, perché ne abbiamo già parlato, che il mio percorso nel mondo accademico è stato molto breve. Posso esibire “solo” il diploma in Musica corale e Direzione di coro. Questo “solo” rappresenta però un traguardo conseguito in un’esistenza non facile. Sono nato nel 1929 in un piccolo paese del basso Friuli, da dove non mi sono mai allontanato. Nella mia famiglia, molto modesta, il problema principale era quello di trovare i mezzi sufficienti per tirare avanti e non certo per soddisfare l’aspirazione ad una crescita sociale e culturale. La musica nel mio paese era presente nelle cerimonie religiose con il coro e l’organo e in quelle civiche con la banda comunale, in seno alla quale desideravo poter suonare, ma nella quale non sono stato accolto per fragilità fisica. Nell’estate del 1943, in casa di parenti, ho potuto mettere le mani su un pianoforte scoprendo che mi sarei potuto accostare alla musica. Da quel momento, senza la guida di un insegnante e privo anche di uno strumento, ho peregrinato nelle case di parenti e conoscenti per suonare tutte le musiche che mi capitavano tra le mani. Alla fine della guerra ho potuto così accompagnare e poi istruire i cori parrocchiali dei paesi del circondario. La vera svolta nel mio percorso artistico è arrivata una decina di anni dopo, quando un amico, Giorgio Kirschner, in quegli anni maestro del coro al Teatro “Verdi” di Trieste, mi consigliò, ma potrei dire mi impose, di impegnarmi in uno studio mirato alla professionalità. Mi sono quindi iscritto al corso di Musica corale e Direzione di coro, presso il Conservatorio “Tartini” di Trieste, sotto la guida di Bruno Cervenca. Conseguito il diploma, Cervenca mi ha voluto ancora due anni con sé come tirocinante. Con questo si concluse il mio percorso di formazione.

M. Zuccante: Condivido con te il principio che un musicista (indipendentemente dai risultati che riesca a raggiungere) debba confrontarsi con le opere dei grandi compositori, tralasciando i prodotti di seconda mano. Quali, tra gli autori del passato e tra quelli dei tuoi anni giovanili, hanno influito maggiormente sulla tua formazione?

O. Dipiazza: Fondamentale per la mia formazione è stato lo studio delle opere di Palestrina per il magistero nell’uso del contrappunto vocale e di Monteverdi per la modernità del linguaggio. Se devo confessare una predilezione, non posso qui non citare Carlo Gesualdo, l’espressionista del cinquecento, che mi stupisce ancora oggi per l’esemplare aderenza musica-parola e per l’intensità che riesce ad ottenere anche nei particolari meno esibiti delle sue composizioni. Tra gli autori del novecento devo molto all’opera di Pizzetti, di Malipiero e di Dallapiccola, ai quali mi sono rivolto sempre con grande attenzione sia per i riferimenti culturali (il mondo greco-latino e il tardo Medioevo), sia per la strenua dedizione al loro lavoro che consideravano una missione.

M. Zuccante: Se dovessi indicare, oltre al possesso di un talento naturale, un paio di requisiti tecnici indispensabili per praticare l’arte del comporre per coro, quali sceglieresti?

O. Dipiazza: Desidero citare Bettinelli che diceva: «per comporre bisogna avere un po’ di talento, studiare molto e non avere fretta di conseguire il successo». Per la composizione corale invece direi una buona preparazione contrappuntistica e una buona conoscenza dell’organo vocale.

M. Zuccante: Potresti individuare il momento e le opere, a partire dalle quali ritieni di aver fissato ed affermato i tratti salienti del tuo stile e della tua visione poetica?

O. Dipiazza: Il periodo durante il quale ho iniziato il percorso che ancora oggi perseguo lo posso collocare durante il mio tirocinio con Cervenca, quando, pur conservando una grande stima e gratitudine per il mio maestro, ho indirizzato la mia attenzione verso il linguaggio dei neomadrigalisti italiani, che Cervenca non amava, e sul neoclassicismo hindemithiano. Quel momento di svolta e di riflessione è presente nell’ “Alcesti”, un mio lavoro per soli, coro e orchestra, inedito e che resterà tale perché riflette un periodo di incertezza e di smarrimento.

M. Zuccante: Ho avuto modo, nelle lunghe chiacchierate fatte insieme, di apprezzare la tua attenzione agli autori delle avanguardie storiche e ad alcuni compositori nostri contemporanei. Ciò nonostante, la tua arte sembra indirizzarsi verso i canoni e il linguaggio della tradizione. Mi chiedo se convivano nella tua esperienza artistica le aperture culturali vissute in una città, in questo senso privilegiata, come Trieste, con il culto per il canto gregoriano e l’an- tica tradizione polifonica.

O. Dipiazza: È fuori dubbio che partecipare al fermento culturale di una città come Trieste nell’immediato dopoguerra sia stata per me un’esperienza preziosa. Il mondo musicale triestino era ancora molto legato alla Mitteleuropa e ho potuto conoscere in tal modo la grande scuola del tardoromanticismo (Strauss, Mahler, ecc.) e degli slavi (Dvorák, Janácek). Mi piace ricordare, come nei primi anni sessanta Cervenca mi proponeva per il lavoro scolastico dei temi che mi colpivano per la loro bellezza e che poi ho scoperto egli traeva dalle sinfonie mahleriane.

M. Zuccante: Affermazioni nei Concorsi, esecuzioni di prestigio e pubblicazioni costituiscono le tappe attraverso le quali il tuo nome si è imposto nel panorama della musica corale. Facciamo delle considerazioni su ciascuno di questi aspetti. Innanzitutto i Concorsi. Sai che io ho rinunciato a parteciparvi dopo il compimento del quarantesimo anno di età. Tu, invece, hai seguitato ad impegnarti in queste competizioni. Immagino che vi siano delle valide motivazioni alla base di questa scelta.

O. Dipiazza: Quando, qualche tempo fa, mi hai detto che al compimento del quarantesimo anno di età avresti smesso di partecipare ai concorsi ho pensato subito al mio primo concorso affrontato poco dopo aver varcato il traguardo dei cinquanta. Perché così tardi? La realtà è che ritenevo assurdo e presuntuoso mettermi a confronto con compositori di fama e spesso titolari di cattedra nei conservatori. Nel 1979, pressato da amici musicisti, ho deciso di partecipare al concorso per il centenario di Balilla-Pratella. Ne sono risultato vincitore. Incoraggiato da questo risultato ho pensato di continuare, non per la smania di apparire, ma per l’opportunità che mi si offriva di avere delle valutazioni sul mio lavoro, verso il quale io sono sempre in atteggiamento molto critico.

M. Zuccante: Spesso ti trovi a far parte delle giurie nei Concorsi sia di composizione che di esecuzione corale. Quali sono i criteri che prevalentemente guidano il tuo giudizio?

O. Dipiazza: Per quanto riguarda i concorsi di composizione, guardo sempre alla professionalità della scrittura, sia formale che particolare. Sono convinto che le migliori intenzioni, la creatività e l’eventuale ricerca di un linguaggio innovativo, sono improponibili quando manca un solido mestiere. (Affermazione reiterata da Berio). Nei concorsi corali, dato per scontato il giudizio sui parametri noti, e cioè intonazione, vocalità, dizione, ecc., tengo molto in considerazione il lavoro del direttore, che è in ogni caso determinante nello stacco dei tempi, della ricerca del fraseggio, della tensione emotiva. Fondamentale è in ogni caso scoprire se l’interprete ha individuato e compreso l’idea germinale della composizione.

M. Zuccante: I tuoi lavori sono stati eseguiti da compagini di alto livello. Ciò costituisce per te giusto motivo di orgoglio e soddisfazione. Ma non sempre gli interpreti traducono a dovere una partitura. Insomma, il rapporto tra compositore e interprete è fatto di alti e bassi. Qual è la tua esperienza in merito?

O. Dipiazza: Il problema principale autore-interprete è quasi sempre da ricercare nelle diversità culturali dei due soggetti. Nel mio caso, anche in presenza di un coro dotato e ben preparato, il risultato esecutivo sarà sempre carente se il direttore non conosce bene il contrappunto. I gruppi stranieri, ottimi interpreti della produzione corale più innovativa, nel repertorio della polifonia classica sono in difficoltà perché la loro cultura non proviene da quella parte di storia della musica che ha prodotto le nostre radici.

M. Zuccante: Le finalità prevalentemente amatoriali dei cori italiani possono precludere alcune opportunità ai compositori che si dedicano alla musica corale. Credi che, se la tua attività si fosse svolta all’estero, avrebbe avuto esiti diversi? Tra le varie tradizioni corali europee, da quale ti senti maggiormente attratto?

O. Dipiazza: Penso che adeguarsi al livello medio dei cori italiani ponga dei limiti al lavoro compositivo ad essi destinato, mentre i buoni complessi stranieri sono in grado di superare anche notevoli difficoltà di scrittura. Per quanto riguarda invece la possibilità di ottenere all’estero maggiori vantaggi non mi sono mai posto questo interrogativo. A parte il fatto delle eventuali commissioni io compongo sempre per una esigenza interiore che mi suggerisce anche le scelte e il percorso da seguire. Al limite, se tutti i cori venissero catapultati su Marte io credo che continuerei a comporre musica corale. Ritornando alle tradizioni corali europee, pur apprezzando moltissimo lo sviluppo e i risultati raggiunti dalla coralità del Nord, sono più legato alla civiltà musicale mitteleuropea.

M. Zuccante: Le pubblicazioni hanno avuto un ruolo decisivo sulla diffusione dei tuoi lavori. Ma è innegabile che le grandi case editrici (soprattutto in Italia) riservano alla musica corale uno spazio marginale nei loro cataloghi. Qual è, a tuo avviso, il motivo di questa limitata attenzione?

O. Dipiazza: La scarsa attenzione dell’editoria musicale per il settore corale dipende dal fatto che l’interesse di buona parte dei cori italiani per il nuovo è molto limitato e che si perpetua l’abitudine del passa-partiture che determina anche uno scarso aggiornamento del repertorio.

M. Zuccante: Un merito che viene riconosciuto alle tue composizioni è costituito dalla si- cura resa sul piano corale e dalla pertinenza della scrittura vocale. Ritengo che ciò sia da attribuire (oltre alla solidità di un mestiere appreso con studio rigoroso e severo), anche alla tua lunga ed intensa attività di direttore di coro. Una pratica, quest’ultima, che ti ha consentito di sperimentare sul campo i limiti e le potenzialità tecnico-espressive dello strumento-coro. Sei d’accordo?

O. Dipiazza: Certamente.

M. Zuccante: Hai speso un’intera carriera ad insegnare i rudimenti della musica ai ragazzi della scuola dell’obbligo. Rimane traccia di questa tua meritevole quotidiana dedizione nella creazione di un repertorio dedicato all’infanzia e alla gioventù. Quale bilancio ricavi dall’esperienza scolastica? Ti rammarica il fatto di non aver lavorato nei Conservatori di musica?

O. Dipiazza: L’esperienza nella Scuola Media Statale ha consentito di accostarmi al mondo dei ragazzi e di verificare la validità delle varie metodologie applicabili nell’insegnamento dell’Educazione musicale. Da tener presente che sto parlando degli anni sessanta, quando con la riforma dei programmi scolastici la musica era entrata da poco nella scuola media. Purtroppo ancora oggi, dopo quarant’anni, l’insegnamento dell’Educazione musicale è lasciato soltanto all’iniziativa dei singoli insegnanti, senza una precisa indicazione di metodo. Dopo questa amara considerazione non posso dire che io provi un sentimento di limitazione per non aver insegnato in Conservatorio. In realtà ho avuto diverse proposte, ma per l’alta considerazione che avevo dei Conservatori ho sempre rifiutato, ritenendo la mia preparazione non adeguata all’impegno.

M. Zuccante: La musica sacra è un genere al quale ti dedichi con particolare propensione e predilezione. Credo che i tuoi convincimenti religiosi giochino un ruolo importante in ciò. Abbiamo assistito ad un progressivo distacco dal genere sacro da parte dei grandi autori del Novecento, ma di recente esso è tornato di interesse, grazie alle opere di alcuni musicisti del Nord Europa (mi riferisco, tra gli altri, a Pärt, Schnittke, Gubajdulina, Tavener, Penderecki, Górecki). Come spieghi questo andamento altalenante?

O. Dipiazza: L’inizio della frattura tra i compositori e il genere sacro è collocabile già alla fine dell’Ottocento con il progressivo disinteresse della Chiesa per il valore trascendente della musica. Certamente una delle cause è da ascrivere anche alla brutta musica, spesso di gusto teatrale, che circolava nelle cantorie e nei repertori organistici del tempo. La fase terminale di questo percorso si può fissare nel Concilio Vaticano II. È sempre vivo in me il ricordo di quel giorno in cui il mio maestro è arrivato al “Tartini” scuro in volto e con la voce roca e mi ha detto: «Non si può più comporre messe, hanno proibito il latino e tolto perfino il Credo». L’inarrestabile secolarizzazione incide sempre più negativamente sulla produzione musicale di ispirazione religiosa salvo l’opera di chi si dedica al genere sacro per rispondere ad un’esigenza interiore. Ed è il mio caso. I compositori del Nord Europa che tu citi si dedicano a lavori di carattere religioso per motivazioni che attengono al loro vissuto. Condizionati da situazioni politiche che hanno negato loro la libertà di espressione, hanno ripreso ora a rapportarsi con il mondo della Chiesa ortodossa che ha sempre contato molto nella grande musica slava.

M. Zuccante: Mentre nella tua produzione sacra ti sei confrontato con i testi delle scritture e della liturgia, nelle composizioni profane le tue scelte si sono necessariamente indirizzate altrove. Quale tradizione letteraria e quali autori hanno maggiormente ispirato i tuoi lavori? Il rapporto con il testo letterario determina in maniera vincolante le tue opzioni espressive e di linguaggio?

O. Dipiazza: I miei interessi letterari, sempre come testi da musicare, sono collocabili in due periodi storici. Il primo va dalla letteratura latina al Trecento. Il secondo ai poeti del primo Novecento. In particolare, D’Annunzio, Ungaretti, Saba. L’accostamento ai poeti latini, al volgare e alla poesia religiosa del sec. XII è dovuto allo studio dei compositori italiani del primo Novecento ai quali mi sento sempre legato. La produzione poetica italiana del secolo scorso mi ha invece suggerito l’uso di tecniche lega- te temporalmente ai testi. Le poesie del “Porto sepolto” di Ungaretti, così concise e “pietrose” le ho lette trovando il loro corrispettivo nell’espressionismo e nella serialità, mentre nel crepuscolarismo di Saba ho sentito musicalmente echi del postimpressionismo francese. Una grande suggestione ha sempre suscitato in me la letteratura romantica tedesca, ma mi sono trattenuto dall’accostarmi ad essa perché ritengo che l’uso di una lingua straniera pretenda una conoscenza non solo grammaticale di essa.

M. Zuccante: I musicisti della mia generazione e quelli ancor più giovani guardano a te come ad un maestro. Ti sembra di individuare per il futuro un solco di continuità, o ritieni che prevalgano gli atteggiamenti di rottura rispetto alle linee estetiche che ti appartengono?

O. Dipiazza: La fortuna di una lunga vita mi ha consentito di osservare e, in piccola parte di partecipare, al cammino della coralità dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. Negli anni cinquanta-sessanta il panorama corale e stato occupato da alcuni grandi compositori, Kodály, Britten, Poulenc, che per la loro forte personalità e per l’unicità del loro linguaggio hanno suscitato e quasi monopolizzato l’interesse degli studiosi e dei praticanti del canto corale. Stranamente negli stessi anni (ed è un fatto che non mi so spiegare), la tecnica seriale non ha trovato posto tra le tendenze della composizione corale. Nei primi anni settanta i gruppi corali svedesi e norvegesi hanno invece portato nei concorsi internazionali brani ispirati dall’avanguardia con i clusters, l’aleatorietà, le fasce sonore e più tardi il minimalismo. Queste nuove tendenze si sono presto diffuse, ma altrettanto presto si sono esaurite quando la novità è diventata normalità. Venendo ai nostri giorni mi sembra che si possano rilevare due linee prevalenti. La prima, portata avanti da compositori che si sono imposti a livello mondiale, (Orbán, Kocsár, Tavener, Vajda, Schnittke, Eben) che non hanno rinnegato il patrimonio del passato e procedono lungo un percorso che si potrebbe definire di rinnovamento della tradizione. Mi sembra quasi inutile dirti che io mi sento vicino a questa corrente. Nell’altro indirizzo mi sembra di intravedere la preoccupazione di non perdere il consenso della platea e il gradimento dei coristi. Nelle partiture che ho potuto esaminare si coglie subito la volontà di realizzare un prodotto gradevole servendosi di un linguaggio che ricalca certe formule della musica d’uso. Sarebbe molto triste se questo modo di intendere la coralità dovesse imporsi. Ma forse questo è uno degli aspetti del mondo d’oggi a cui bisogna adeguarsi. In ogni caso questo non è il mio mondo.

M. Zuccante: In conclusione, ti faccio una domanda che può sembrare sciocca, ma aiuta a conoscerti meglio. Se non fossi diventato un compositore, che altro mestiere avresti preferito fare?

O. Dipiazza: Il compositore. Quando non è condizionato dall’aspirazione al successo e al guadagno è il miglior lavoro che si possa desiderare.

[Choraliter, n. 24 Settembre-Dicembre, Ed. Feniarco, 2007]




Orlando Dipiazza, Lipa Ma Marica, per coro
ORLANDO DIPIAZZA (Aiello del Friuli, 1929) è un compositore e direttore di coro italiano.Si è diplomato con Bruno Cervenca al Conservatorio “G. Tartini” di Trieste.Insieme all’attività di compositore ha praticato per molti anni la direzione corale dirigendo gruppi come il Coro Polifonico di Ruda, i Madrigalisti di Gorizia, il coro del Liceo Musicale “J. Tomadini” di Udine, il coro di voci femminili “G.Fauré” di Romans d’Isonzo (realtà non più attiva), il coro “G. Verdi” di Ronchi dei Legionari, nel 1976 è stato il fondatore del Gruppo Polifonico Claudio Monteverdi di Ruda, gruppo che ha diretto fino al 1996.

Ha composto opere teatrali, tra cui “Il testamento di Arlecchino” e “La luna e il tamburino magico”, opere vocali, strumentali e orchestrali, ma la produzione più consistente è rivolta alla musica corale. Le sue partiture hanno ricevuto vari premi nazionali ed internazionali, dagli anni ’70 ad oggi (tra cui primi premi al Concorso internazionale “Guido d’Arezzo“, al Concorso internazionale di Tours, al Concorso internazionale di composizione ed elaborazione corale di Trento, al Concorso internazionale di composizione musicale per le Feste triennali del SS. Crocefisso, ecc.). Alla direzione di diverse formazioni corali ha vinto primi premi ai vari concorsi nazionali e internazionali di Roma, Orvieto, Ravenna, Arezzo e Gorizia.[senza fonte]

Dipiazza si è dedicato con particolare attenzione alla ricerca etnomusicologica producendo numerosissime elaborazioni di canti popolari di tradizione arcaica soprattutto provenienti dall’area veneta e friulana. Ha pubblicato con numerose case editrici italiane e straniere e collabora con riviste specializzate quali la Cartellina di Milano, Pro musica studium di Roma l Offerta Musicale di Bergamo e numerose sue opere sono raccolte nei fascicoli di “Polyphonia”.

Nell’occasione del suo ottantesimo compleanno (17 ottobre 2009) la FENIARCO, l’USCI regionale e la Casa Editrice Pizzicato gli hanno dedicato un’antologia musicale intitolata Florilegium Sacrum, nella quale sono raccolti una ventina di pezzi sacri, tra i quali la “Messe di San Durì” per coro misto e organo e una versione per solo coro virile, scritta proprio nell’anno 2009 e dedicata a Sant’Ulderico Patrono di Aiello del Friuli.

È membro della commissione artistica del Concorso Internazionale “Seghizzi” di Gorizia e della commissione artistica nazionale della Feniarco.

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