Sandro Bergamo – intervista

SBergamo2M. Zuccante: Sandro, iniziamo questo nostro colloquio con una riflessione sull’attualità. La crisi economica si porta dietro i drastici tagli ai finanziamenti pubblici e privati nel settore delle attività culturali. Questa deriva si avverte in modo sensibile in Italia. In una nazione in cui, già da tempo, sono messe a disposizione scarse risorse per l’ambito culturale. Ritieni che i tempi bui stiano passando, o il peggio – l’azzeramento cioè dei finanziamenti stessi – debba ancora arrivare?

S. Bergamo: Il vero rischio non sta nella crisi economica, ma nella mentalità dei cittadini e dei governanti che questi eleggono. La cultura è considerata un lusso per tempi di vacche grasse, da tagliare quando queste diventano magre. Non c’è l’idea che proprio da una popolazione colta e da persone colte possono scaturire le idee che ci facciano uscire dalla crisi. E non sto parlando di conoscenze tecnologiche: sto parlando di cultura, compresa e in testa la formazione umanistica e la sensibilità artistica. Sono queste a dare l’apertura mentale, l’elasticità, la fantasia necessaria ad elaborare soluzioni nuove per problemi inediti. A confermarlo, è il manifesto per la cultura pubblicato nel febbraio 2012 dal Sole 24 ore, quotidiano di Confindustria. Quando poi sento dire (anche da personaggi che stimavo, e sottolineo ‘stimavo’, come Baricco) che la cultura deve reggersi sulle proprie forze economiche (sui biglietti, insomma, per quanto riguarda ogni forma di spettacolo) capisco che siamo di fronte a un fenomeno di ‘non conoscenza’, per usare un eufemismo. Baricco evidentemente ignoscit che non solo il mecenatismo (talvolta realizzato sotto forma di incarichi, con stipendio a carico dello stato, che lasciavano molto tempo libero: Ariosto governatore di Garfagnana piuttosto che le mansioni amministrative di Goethe) è stato alla base della produzione artistica in ogni ambito, ma che la forma musicale commerciale per eccellenza, il melodramma, quando non era sovvenzionato, racconta una storia di clamorose bancarotte da parte degli impresari teatrali.

M. Zuccante: Nei momenti storici caratterizzati da forti aneliti ed aspirazioni collettive, il canto corale è stato un veicolo ideale attraverso cui si è potuta esprimere la vox multitudinis. Attualmente – mi riferisco in particolare alla situazione italiana – partecipazione e condivisione non occupano i primi posti nella scala di valori delle persone. Credi che questo fatto si rifletta anche in una crisi del canto corale, il quale corre il rischio di appiattirsi in espressioni di maniera, o di isolarsi in manifestazioni di accademismo?

S. Bergamo: La storia e la sociologia della musica mostrano che dove esistono società con un’identità e un senso di appartenenza forte, il coro prospera, mentre stenta dove la società è frammentata. La divisione, culturale prima che politica, dell’Italia, e la mentalità individualista degli italiani hanno lavorato contro il canto corale e la creatività musicale si è espressa altrove. Tuttavia credo che oggi i rischi di appiattimento stiano più nella generale tendenza della civiltà di massa all’omologazione (con conseguenti reazioni di chi si chiude in un orgoglioso isolamento: personalmente rischio più di scivolare da questa parte) che non in ragioni sociali e politiche. Trovo anzi che il movimento corale italiano dimostri più vitalità oggi che per il passato, quando le buone notizie giungevano solo da poche isolate punte di eccellenza. E questo è un dato incoraggiante, nel suo andare controtendenza, per tutto il Paese. Paragono spesso il coro a quelle rose che si usa piantare in capo ai filari dei vigneti, nella convinzione, forse scientificamente errata, che la loro ipersensibilità ai parassiti segnali la malattia prima che si manifesti in forma irreparabile nelle viti. La vigna d’Italia è malata, ma la rosa del coro è sana e questo fa ben sperare.

M. Zuccante: Anche la Chiesa cattolica stenta oggi a mantenere vivo tra i suoi fedeli il sentimento di comunità. Di conseguenza la viva pratica del canto comunitario, attorno alla quale si sono raccolte per secoli le comunità cristiane, ha perduto la sua ragion d’essere. Il canto gregoriano viene oggi conservato in virtù di oggetto museale d’élite, o evocato come tinta (condimento) arcaicizzante. Sei d’accordo?

S. Bergamo: La crisi del canto liturgico è indubbia ed è crisi della Liturgia stessa, che ha rinnovato le sue forme, dopo il Concilio, in modo confuso e contraddittorio. La stessa Sacrosantum Concilium, il documento conciliare sulla Liturgia, riflette una situazione transitoria e offre interpretazioni a sostegno di tutte le cause. Ci dibattiamo in un mondo di credenti indifferenti all’estetica della Liturgia, sacerdoti impreparati sul fronte musicale, musicisti indifferenti alle ragioni della Liturgia, spesso perché non coinvolti a livello personale nella fede che dovrebbero cantare. Si inseguono modelli teorici, per esempio in merito alla partecipazione dei fedeli, che non tengono conto della realtà in cui viviamo, dove, ad esempio, il canto non è più competenza diffusa e generale e non si capisce quindi come i fedeli possano fare in chiesa ciò che non sanno fare fuori.

M. Zuccante: Il canto gregoriano è considerato la linfa vitale che ha per secoli alimentato gli elementi costitutivi (formali e melodici) della musica liturgica. Può essere che l’abbandono della pratica del canto gregoriano abbia, di fatto, causato il rinsecchimento della vena che ispira la produzione contemporanea di musica liturgica?

S. Bergamo: C’è sempre stato dialogo fecondo tra musica sacra e musica profana, con reciproca influenza. I canti trovadorici hanno strutture mutuate dal gregoriano, le laudi si cantavano su melodie profane, sostituendovi il testo, tra mottetto e madrigale non si coglie differenza, se non nella stagione tarda di Gesualdo e della seconda pratica monteverdiana, e non per tutti gli autori. Possono lasciare oggi perplessi certe composizioni organistiche di padre Davide da Bergamo o altri autori coevi che trasferiscono quasi senza mediazione lo stile dei melodrammi rossiniani o verdiani su strumenti dai caratteri ‘bandistici’, ma si conserva un livello di competenza e di gusto, sia pure datato, valido. Il problema è l’abbandono di un linguaggio del passato, ma il tipo di musica ‘profana’ con cui si deve confrontare quella sacra. Il rischio della chiusura accademica o dell’appiattimento cui accennavi prima, si manifesta in pieno, tra modelli scolastici superati (spesso nemmeno aggiornati: so di compositori giovani e freschi di studio che hanno scoperto sul campo, al rifiuto del parroco, che Sanctus e Benedictus costituiscono oggi un’unica preghiera e vanno quindi cantati di seguito, quali parti di un’unica composizione) e modelli canzonettistici che, assunti acriticamente e da improvvisati strimpellatori, danno esiti privi di valori estetici.

M. Zuccante: Con la fine dell’eurocentrismo assistiamo al declino di valori plurisecolari. La Weltanschauung europea, che ha retto in passato all’urto di altre civiltà, non sembra più essere in grado di rispondere alle aspirazioni dell’uomo. Pensi che anche il destino del canto corale nella sua impostazione polifonica classica – espressione artistica connaturata con la storia musicale occidentale – sia segnato? Ritieni che stili e linguaggi elaborati altrove siano sul punto di sopravanzare la nostra tradizione?

S. Bergamo: Mi piace ricordare un passo di Max Weber, quasi in chiusura de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo che identifica in alcuni elementi musicali (la struttura dell’orchestra, l’armonia basata sulla triade…) i dati identificativi e distintivi della civiltà europea. E’ ovvio che la crisi della civiltà europea diventi anche trasformazione degli elementi culturali che ne erano alla base. Si tratta di capire se prenderemo la strada che ci porti a costruire il domani sulla base dell’immenso patrimonio ereditato o se ci faremo invadere da patologie spirituali esogene: se ripeteremo l’operazione che all’inizio dell’era volgare portò a fondere nel cristianesimo la vecchia cultura greco-romana e il nuovo mondo barbarico dando origine al nostro medioevo o se, stavolta, saranno i culti mitraici a plasmare il futuro orizzonte. La musica, anche quella corale, cambierà, sebbene non sia dato sapere come. Spero solo non avvenga di essa quello che vedo accadere della lingua, portata ad appiattirsi su un inglese (forse meglio: americano), che non mi pare sia quello di Shakespeare e nemmeno di Joyce. Non conoscendo l’inglese e non praticando la musica commerciale mi vedrei immerso in una vecchiaia di totale isolamento.

M. Zuccante: Ti conosco da tempo, Sandro, e mi sento di affermare che sei una persona che crede nel compito di educare il gusto comune. Ti adoperi affinché ciascuno possa estendere ed affinare le proprie competenze e sensibilità; ti impegni affinché si diffonda il grado di apprezzamento delle opere della cosiddetta “alta cultura”. Sei convinto che anche nella musica corale si debba fare una distinzione – alquanto manichea, consentimi – tra repertori “alti” e “bassi”? E c’è proprio bisogno di questa premessa pedagogica per accrescere la popolarità dei capolavori della musica colta?

S. Bergamo: Non mi spaventa prendermi la responsabilità di distinguere i valori delle cose, nemmeno in ambito di scelte estetiche. Il soggettivismo non è un dato assoluto, quasi fossimo a tavola, dove è buono ciò che piace. Nemmeno lì, per la verità, è così. Se qualcuno fa seguire, a un sapore forte, uno più blando, precludendosi la possibilità di gustarlo fino in fondo, semplicemente sbaglia l’ordine. E anche Carnacina o Artusi, se mai avranno fatto un’escursione in montagna, si saranno portati un panino confezionato con le loro mani, ma questa non è alta cucina. La soggettività del gusto non può diventare la scusa per negare i valori. Dopodiché so come nella storia della musica dalle forme basse siano nate, in mano ai grandi compositori, i capolavori: penso alle suites barocche, ai valzer e alle polonaises di Chopin… Oggi la musica corale deve inevitabilmente confrontarsi con pratiche e stili, compositivi e vocali, maturati altrove: l’importante è che lo facciano musicisti attrezzati nella tecnica e nel buon gusto e che lo accolgano coristi preparati culturalmente e musicalmente.

M. Zuccante: Si è da poco concluso con successo un evento eccezionale, il XVIII Festival di Europa Cantat 2012. Una manifestazione che la Feniarco e la città di Torino hanno avuto l’onore di ospitare. Dal tuo punto di vista ritieni che raduni di questo genere, al di là del loro positivo valore di incontro sociale, promuovano i repertori più originali e creativi, o, al contrario, livellino il canto corale intorno a modelli di facile ed immediata condivisione?

S. Bergamo: E’ inevitabile che manifestazioni della dimensione di Torino diano ampio spazio a fenomeni che rispecchiano il gusto di massa. Ma proprio le dimensioni ‘di massa’ del Festival consentono proposte che in situazioni più contenute non troverebbero adesioni sufficienti. Va dato atto a chi ha curato la programmazione artistica del festival, in primis a Carlo Pavese, di aver garantito sia la qualità dei momenti ‘di massa’ sia l’esaustività della proposta, offrendo occasioni impensabili altrove. Tra quelle che ho vissuto, ne voglio citare tre: la realizzazione delle Laudi di Hermann Suter, con alcuni cori giovanili nazionali (tra cui il CGI) e l’orchestra sinfonica della RAI e la giornata dedicata al gregoriano, iniziata con le Laudi e conclusasi col Vespro, in un itinerario che ci ha accompagnato attraverso diverse chiese torinesi; e, infine, la grande giornata alla Venaria Reale, che ha visto concentrati, in poco spazio e poche ore, decine di concerti con ogni tipo di musica e di organico corale. Penso proprio che a Torino si sia riusciti a ottenere visibilità senza deflettere da una serietà nel proporre i nostri valori culturali.

M. Zuccante: Sei direttore di Choraliter, la rivista ufficiale della Feniarco, l’associazione che si occupa della promozione del canto corale a livello nazionale. Quali sono state le tappe più significative che hanno delineato il percorso (iter) della rivista, sotto la tua direzione? E quali sono le mete che ti proponi di raggiungere in futuro?

S. Bergamo: E’ un percorso condiviso con una redazione divenuta via via, in questi 13 anni, sempre più qualificata, potendo contare sull’aiuto di redattori di grande spessore, tra i quali, Mauro, anche il tuo. Abbiamo cercato di creare una rivista che fosse anzitutto un punto di incontro tra tutti gli attori del canto corale, in primis i compositori e i direttori. Una rivista che invitasse all’approfondimento, scandagliando, attraverso i dossier, vari aspetti della vita corale. La seconda fase, dove la nuova veste grafica esprime anche i nuovi contenuti, si rivolge a un pubblico più largo, attraverso più spazio agli eventi corali, una maggiore attenzione alla coralità di derivazione popolare, l’affiancamento al dossier di altri temi trattati in modo più divulgativo, l’inclusione, una volta l’anno, di un CD. Siamo ancora, tuttavia, una rivista associativa. La meta del futuro resta quella di raggiungere anche il lettore esterno all’associazione, il musicofilo, cui proporre la musica corale a pari dignità con quella strumentale. Choraliter in edicola, insomma: sarebbe, in quest’ambito, il compimento delle finalità di promozione della musica corale che sono la ragione di vita di FENIARCO.

M. Zuccante: Ogni forma di editoria tradizionale si trova oggi a competere con i nuovi media della comunicazione, in particolare con Internet. Sei convinto che la rivista Choraliter, nella sua tradizionale impostazione cartacea, si possa ancora a lungo offrire come alternativa al web, o è giunto anche per essa il momento di aprirsi alle opportunità messe a disposizione dalle nuove tecnologie?

S. Bergamo: Credo che ogni nuova forma di comunicazione si aggiunga a quelle precedenti, senza eliminarle. In questo modo le nostre possibilità di accrescono. Ovviamente la forma determina anche i contenuti. Fin dall’inizio abbiamo escluso che Choraliter, anche in considerazione della sua periodicità, potesse essere strumento di informazione cronachistica: il suo ruolo di strumento di approfondimento, con articoli che durano nel tempo, giustifica ancora, almeno per ora, la forma cartacea. Si potrà piuttosto interagire col web: già ora si è iniziato a caricare sul sito di Feniarco alcune cose che avrebbero occupato troppo spazio sulla carta, come il catalogo completo delle opere di alcuni compositori particolarmente prolifici di cui abbiamo trattato nelle nostre pagine. Questo apre altri spazi di interazione, caricando, tanto per fare un esempio, i files sonori in relazione ai brani di cui si parla nelle pagine della rivista. Potrebbe esser il momento di trasferire sul web il magazine Italiacori.it: ma dobbiamo essere consapevoli che non basta pubblicare in forma digitale ciò che prima era cartaceo, ma si deve cambiare modo: l’informazione on-line non può essere aggiornata quadrimestralmente come quella cartacea.

M. Zuccante: Infine, due parole sul Friuli Venezia Giulia, la tua regione. In Friuli esiste una lunga e diffusa tradizione di musica corale. In particolare il filo conduttore che unisce le figure di Antonio Illersberg, Luigi Dallapiccola, fino ad Orlando Dipiazza, colloca la musica corale friulana su un piano storico-artistico di assoluta eminenza. Dal tuo punto di vista ritieni che ancor oggi il Friuli esprima un livello di eccellenza altrettanto valido nel contesto del movimento corale nazionale?

S. Bergamo: Direi di si, benché solo il tempo ci potrà dire se i compositori attuali, più o meno giovani, saranno all’altezza di chi li ha preceduti. Tieni conto che i nomi da te citati vengono tutti da un’area che risente, e ancor più risentiva all’epoca della loro formazione, dell’influenza del mondo austroungarico, di cui ha fatto parte fino al 1918: un mondo dove le occasioni di ‘far musica’, tra cui rientra a pieno titolo la pratica corale, erano coltivate molto più che in Italia. Oggi quel mondo si allontana sempre più e il mondo corale deve contare sempre più solo su se stesso. Per fortuna, cammina su gambe solide.

SBergamo1Sandro Bergamo




“Priusquam Te Formarem”, graduale, Cappella Altoliventina, S. Bergamo, dir.
Sandro Bergamo dirige La Cappella Altoliventina fin dalla sua fondazione. Diplomato in clarinetto e in canto, ha diretto diverse formazioni corali (Campiello di Meduna di Livenza, Jacopo Tomadini di San Vito al Tagliamento) e dirige tuttora il gruppo vocale Dumblis e Puemas di Udine. Ha registrato, come cantante e direttore, diversi CD. Giornalista, è direttore della rivista Choraliter, quadrimestrale della FENIARCO, associazione nazionale dei cori italiani. E’ presidente della commissione artistica provinciale dell’USCI (Unione Società Corali Italiane) di Pordenone.
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Sandro Filippi – intervista

Sandro_FilippiM. Zuccante: Caro Sandro, vorrei iniziare questo nostro colloquio con una riflessione sulla specificità – se esiste – del canto corale in Trentino. Pensi che la coralità trentina possa a tutt’oggi identificarsi prevalentemente con la tradizione del coro virile di tipo alpino, oppure che accanto a questo modello si stiano radicando sul territorio altre tipologie corali ed altri repertori? E come ti sembra che gli uni e gli altri coesistano?

S. Filippi: Per quanta riguarda il canto corale cosiddetto “popolare”, chiaramente la SAT ha fatto scuola non solo in Trentino ma anche “fuori le mura”. Questo coro è stato infatti per anni un faro di riferimento per i cori popolari trentini. Ma nell’ultimo ventennio vi è qualche realtà che ha tracciato una nuova via per esprimersi, ottenuta soprattutto con lo studio di nuovi repertori che si discostano di molto dal modello SAT. Anche la coralità “classica” esprime un notevole numero di cori, in modo particolare cori misti. In questo settore credo manchi però una certa identificazione, data soprattutto dalla ricerca di un repertorio che caratterizzi la coralità trentina. In Trentino ma anche in Italia i nostri cori polifonici fanno fatica ad esempio a far convivere il canto popolare nostrano con il grande repertorio classico; cosa che invece risulta normale nei cori nordici. Sono fermamente convinto che tale aspetto ai nostri giorni dovrebbe essere superato. Alcune elaborazioni nulla hanno infatti da invidiare ad una partitura corale del Novecento, anzi a volte possono essere più difficili. Tornando quindi alla coralità trentina, il repertorio popolare – se ben elaborato – oltre ad essere “patrimonio che vive” potrebbe diventare fonte di curiosità e di stimolo, oltre a creare un repertorio “nostrano” sarebbe oggetto di indagine ad esempio per una ricerca di suono che identifichi i cori trentini. Ricca è infatti la semantica che esprimono i vari dialetti. Penso alla Valle di Non e alla Valle di Fassa ma anche alle minoranze germanofone come i Cimbri e la Valle dei Mocheni. Noto invece con curiosità e con interesse il percorso di alcuni cori di voci bianche e giovanili che fanno ben sperare per la futura coralità trentina; è un percorso che si delinea soprattutto per alcune formazioni corali nella ricerca sempre fresca e originale di repertorio.

M. Zuccante: Il coro alpino è indubbiamente un’invenzione tutta trentina. Un prodotto culturale che ha una grande rilevanza nel più ampio contesto dell’immagine della provincia. Ritieni che i tratti stilistici che lo caratterizzano – prassi esecutiva e forme di arrangiamento dei canti – vadano preservati nella loro ormai remota norma originale (conformemente al modello del Coro della SAT, per intenderci), o auspichi un superamento della tradizione?

S. Filippi: Sicuramente il repertorio che il Coro della SAT, nei suoi ormai oltre 85 anni di attività, ci ha tramandato quale enorme patrimonio è un repertorio che ha radici profonde nel tempo, fa quindi parte come il DNA delle persone trentine e non solo. E’ un repertorio che nel tempo ha lasciato il segno e sicuramente anche nel futuro questo repertorio che possiamo ormai definire “classico” non passerà inosservato. Ma sono altrettanto convinto che non ci si possa fermare lì. Se siamo consapevoli che la società si è evoluta molto e quindi è sempre più difficile pensare di poter portare alla luce ancora delle melodie popolari, è altrettanto vero che ciò cha abbiamo raccolto lungo tutto il secolo precedente possa essere ancora rivisitato, come ad esempio hai fatto tu con la realizzazione di alcune melodie fra le più note del repertorio SAT nella versione per coro misto e quartetto d’archi: l’accostamento degli strumenti va ad evidenziare ancora di più che cosa trasmettono queste immagini poetico-sonore. Ma il tuo non è certamente un caso isolato. Si pensi ad esempio alla realizzazione dei Folk Song da parte di Luciano Berio per voce ed ensemble strumentale; ed ancora, in una delle sue ultime opere scritte poco prima di morire, elabora E se tu fossi pisci, melodia popolare siciliana, mettendo in evidenza con l’uso del parlato – e non solo – alcuni momenti salienti della parola.

M. Zuccante: Il mestiere di arrangiatore per coro di canti della tradizione popolare è solo uno degli aspetti della tua attività di compositore. Vuoi accennare ora a quali altri settori della composizione è indirizzata la tua produzione?

S. Filippi: Devo ammettere che l’elaborazione popolare occupa una bella parte di quanto ho composto. E’ sempre stato per me uno stimolo elaborare del melos popolare, al di là dell’esecuzione. L’idea di partire da una semplice melodia e vedere che cosa ne può scaturire mi ha sempre incuriosito molto, anche sulla spinta di vari concorsi di composizione nei quali viene richiesto da bando di elaborare delle melodie date. Poi ancora non posso negare di essere stato molto influenzato dal nostro comune maestro di composizione Renato Dionisi. Per quanto riguarda invece l’aspetto compositivo nel repertorio sacro, il melos gregoriano è fonte inesauribile per elaborare delle idee. Infatti in diverse mie partiture alcuni frammenti gregoriani sono stati la guida per comporre; mentre sul repertorio profano alcuni testi di Giuseppe Calliari (penso a Wolley, Piccoli quadri vocali per coro di voci bianche e Frammenti Amorosi) mi hanno colpito fin da subito ed è stato per me immediato mettermi a scrivere. Ma anche l’elaborazione di materiale popolare realizzato per banda e voce mi ha stimolato molto: poter usare la tavolozza ricchissima di colori che offre una Simphonic band è risultato altrettanto stimolante già sul versante compositivo (prima ancora dell’ elaborazione), partendo da un piccolissimo segmento melodico di tradizione orale.

M. Zuccante: Nell’ambito delle composizioni originali, quali ritieni siano stati i tuoi punti di riferimento degli anni di apprendistato e come ti collochi (mi riferisco alla tipologia di scrittura, allo stile e ai contenuti poetico-espressivi) nel panorama della musica corale attuale?

S. Filippi: Per quanto riguarda le mie partiture originali devo dire che la letteratura corale ungherese – ed in particolar modo Bartók, Kodály fin su a Ligeti – è sempre stata per me un punto di riferimento, in modo particolare le composizioni per coro a cappella di Ligeti come Lux aeterna o i Nonsense Madrigal. Ma anche alcune opere corali a cappella di Dallapiccola e Petrassi sono state assolutamente dei punti di riferimento. Chiaramente anche la lezione di Dionisi per quanto riguarda il mio modo di pensare la partitura non posso dire non mi abbia influenzato. Ricordo come Dionisi insisteva sempre di non tirare per le lunghe ma di applicare “la legge del ‘minimo mezzo’: legge economica e legge artistica fondamentale”. Quindi nel panorama italiano mi colloco come un compositore che scrive intanto per il piacere di comporre senza particolari pregiudizi di linguaggio, ma anche nella consapevolezza – avendo alle spalle una buona esperienza artigianale che nel tempo ho potuto forgiare anche come direttore di coro – delle difficoltà esecutive che anche un buon coro amatoriale si trova poi ad affrontare.

M. Zuccante: Ancora una questione per Sandro Filippi compositore. Nella tua esperienza hai verificato che i migliori risultati vengano dallo svolgere un lavoro su commissione – e quindi, tenendo conto delle qualità del coro committente -, o piuttosto dalla libera creatività? Accenna, quindi, nello specifico, ad alcuni lavori che ti hanno dato particolare soddisfazione.

S. Filippi: Dirò che non sono un compositore che ha molte commissioni; tutt’altro, devo dire che lo scrivere è per me un’esigenza che va al di là dell’esecuzione e quindi molte mie partiture sono state scritte per il piacere di mettere giù delle idee. Penso ad esempio a Nana ščeričica che ho avuto il piacere di sentire in una ottima esecuzione a Lubiana dal Coro APZ T. Tomšič diretto da Stojan Kuret. Oppure alla Missa brevis per coro di voci bianche o femminile eseguita dalle Voci Nobili di Bergem dirette da Maria Gambor e ancora dai Piccoli Musici di Casazza diretti da Mario Mora o Noi siamo i tre re cantato ed inciso dal coro dell SAT. Il Corpo Bandistico di Albiano diretto da Marco Somadossi mi ha invece chiesto di lavorare su materiale popolare da strumentare per Simphonic Band e voce. Queste ultime partiture sono state fra l’altro incise per l’etichetta Amadeus in un CD dal titolo Trentino senza tempo.

M. Zuccante: Nel corso degli anni, credo non ti sia mai venuta meno l’aspirazione a confrontarti direttamente con le problematiche dell’esecuzione corale. Sei stato – e tutt’ora sei – alla guida di diverse formazioni. In virtù di questa tua esperienza, quale idea ti sei fatto sul mestiere del direttore di coro? Come si apprende (e come si coltiva nel tempo) quest’arte? E quali sono le qualità che un buon maestro di coro deve possedere?

S. Filippi: Ho incominciato a “fare il domatore di cori” (fra l’altro è una tua frase) ancora nel 1980 alla guida de I Musici cantori di Trento, coro che ho portato avanti fino al 2002. Devo dire che è stata un’esperienza esaltante ed una palestra di formazione assolutamente indimenticabile. Chiaramente la coralità in questi ultimi vent’anni si è evoluta e cresciuta molto. Oggi quindi le esigenze sono diverse, l’aspetto esecutivo tende ad elevarsi e le proposte repertoriali si sono molto ampliate. Il direttore di coro oggi, se vuol ottenere dei risultati, deve avere un bagaglio culturale molto ampio: ritengo che aver svolto studi di composizione, ad esempio, sia fondamentale per poter entrare nelle ‘segrete stanze’ di una partitura. Come tanti altri aspetti che riguardano lo stile, il coro deve saper esprimere il suono in base ai repertori che affronta. Ad esempio deve tenere presente che la vocalità del Rinascimento si sposa molto bene con la vocalità del Novecento e che la vocalità romantica richiede un suono più corposo. Quindi non basta saper gesticolare bene ed avere, come si usa dire, ‘un bel gesto’. Poi al giorno d’oggi devi fare i conti con una società che vuole subito tutto e velocemente, che tradotto in termini più mirati è una società che punta più all’apparire che non a essere. Ecco quindi che si innesca fin da subito la difficoltà di far capire al corista l’importanza di frequentare con assiduità le prove per costruire insieme nel tempo suono, colore, amalgama, intonazione: tutti parametri assolutamente indispensabili per ottenere dei buoni risultati. Se poi lavori su repertori a cappella – che ritengo il momento più esaltante e soprattutto dove un direttore può evidenziare le reali capacità di un coro – allora credo che senza provare molto difficilmente andrai lontano. Certo, saper lavorare sotto il profilo psicologico, dialogare in senso lato e capire le dinamiche che si innescano all’interno del coro è di fondamentale importanza. Devo dire che questa esperienza (almeno per me) riesci a costruirla nel tempo e soprattutto avendo l’umiltà di metterti in postura di ascolto.

M. Zuccante: Recentemente, all’interno del Coro Filarmonico Trentino – il complesso corale del quale rivesti attualmente la responsabilità artistica -, ha preso vita una sezione giovanile. Quali motivazioni ti hanno spinto ad intraprendere questa nuova sfida? 

S. Filippi: Era da tempo che pensavo all’idea di dar vita ad una sezione giovanile. Poi devo dire che la vera spinta è arrivata da parte dei miei tre figli con la collaborazione di alcuni loro amici. Quindi ecco una delle motivazioni, ma sarebbe ben poco. Chiaramente le loro motivazioni erano di stare in gruppo e divertirsi con la musica e la scelta dei repertori: dalle tue elaborazioni di alcune canzoni di De Andrè, alle liriche giovanili di J. Joyce alle elaborazioni fra le più note degli Abba, Mama mia fu di vitale importanza. Ma anche alcune mie elaborazioni di canti popolari realizzati appositamente per loro hanno arricchito il repertorio. Ti dirò che l’esperienza fino ad oggi è stata veramente esaltante sia per l’aspetto umano che artistico. Veder crescere questi ragazzi di mese in mese e vederne via via concretizzare i risultati è stato veramente motivo di grande gratificazione e di gioia anche se in mezzo a non poche difficoltà. Oggi molti di loro sono anche fonte preziosa per completare l’organico del Coro Filarmonico Trentino.

M. Zuccante: A te va riconosciuto il merito di non esserti mai sottratto al confronto nelle competizioni corali. Sottoporre te stesso ed il coro al giudizio di colleghi musicisti può rivelarsi una decisione a volte appagante, a volte scoraggiante. Prova a parlarne.

S. Filippi: L’ultimo concorso riguarda la sezione giovanile del Filarmonico con la quale abbiamo partecipato alla prima edizione per cori giovanili al Concorso nazionale di Vittorio Veneto nel 2010. Edizione fra l’altro – a detta degli organizzatori – di qualità molto alta ed in particolare in questa sezione, che vedeva presenti ben 12 cori. Ci siamo piazzati a metà della graduatoria e siamo comunque rimasti contenti, dato che siamo nati nel 2008. Ma visto che parliamo di Vittorio Veneto, non posso dimenticare quando appena venticinquenne con un coro femminile (direi più ancora verso le voci bianche ) nel lontano 1983 – era la prima volta che partecipavo ad un concorso, quindi privo di esperienza e con tanta ingenuità – rimasi felicemente sorpreso nell’ottenere un secondo premio con primo non assegnato nella categoria cori femminili. Non mi sembrava vero. Tale piccolo risultato fu motivo di grande sprone per il mio futuro di direttore. Ricordo ancora questo momento nei minimi dettagli e con grande affetto.

M. Zuccante: Sempre nell’ambito dei concorsi corali ti sei spesso trovato nei panni opposti del giurato. Con quale atteggiamento affronti questo diverso e delicato ruolo?

S. Filippi: Intanto cerco di non lasciarmi influenzare da cori (se ve ne sono) che conosco e mi pongo fin da subito in posizione di ascolto senza nessun pregiudizio. Poi è chiaro che negli anni ti sei fatto ad esempio (ed è uno ma non l’unico dei parametri importanti) un’idea del suono che ti puoi aspettare, ma senza dogmatismi. Nel giudicare un coro sono sempre più convinto si debba incominciare nel mettere in discussione il tuo modo di pensare al coro, che non deve essere per forza anche quello di altri. Così saremmo tutti standardizzati e per tanti aspetti questo succede. Ad esempio lo noti nelle scelte repertoriali: in tanti direttori manca la curiosità di cercare del repertorio che sia adatto alle possibilità del proprio coro e che nel contempo esprima un contenuto artistico elevato che tenda a far crescere il gruppo. Poi sono dell’idea che il concorso fine a se stesso rischia di non dare nessun motivo di stimolo per i cori. Sono sempre più convinto che i concorsi attraverso la stesura dei bandi debbano diventare per i cori dei momenti di vera crescita e non un puro momento agonistico, dove la graduatoria che viene stilata mette solo a nudo e crudo i vinti e i vincitori. Ben vengano quindi incontri o festival o momenti come ‘Coro vivo’ nei quali il coro si può esprimere con progetti ben preparati ed anche collaudati con brani che fanno parte del repertorio del coro da tempo.

M. Zuccante: Ci avviamo, Sandro, alla conclusione e rimane un altro aspetto della tua attività di musicista che vale la pena di approfondire. Da veterano docente di Conservatorio, vorrei da te una valutazione in merito al seguente argomento. C’è stata negli anni una positiva evoluzione nell’ambito della formazione dei direttori di coro? Il Conservatorio, insomma, è oggi in grado di offrire un percorso didattico adeguato a soddisfare le esigenze di chi si appresta ad intraprendere questa attività?

S. Filippi: Il Conservatorio («dove si conserva tutto» era una delle frasi lapidarie di Dionisi), a parte la struttura muraria, vive perchè i docenti lo fanno vivere. Non in tutti i Conservatori italiani è presente la cattedra di Musica corale e direzione di coro ma questo non è un motivo sufficiente perchè non si possa respirare il mestiere del direttore di coro. Se nello stesso Conservatorio privo di questa cattedra vi è ad esempio il docente di Esercitazioni corali, o ancora quello di Direzione di coro per didattica della musica che sa fare bene il suo mestiere e trasmette la gioia di fare coro, anche questo prezioso tassello nel grande puzzle della struttura organizzativa di un Conservatorio potrà essere più che sufficiente per invogliare studenti ad intraprendere questa direzione. Tanti ottimi direttori di coro (non voglio fare nomi per non lasciarne fuori qualcuno) che ormai da anni sono in piena attività  si sono formati all’interno di queste istituzioni. Ma sicuramente si potrebbe e si dovrebbe ancora fare di più.

SFilippi4Sandro Filippi




S. Filippi, “Nana ščeričica”, Coro APZ T. Tomšič, S. Kuret, dir.
Ha studiato con Renato Dionisi, Bruno Zanolini, Carlo Pirola. Si è diplomato presso il Conservatorio di Milano in “Composizione polifonica vocale” e in “Strumentazione per banda” e presso il Conservatorio di Verona in “Musica corale e direzione di coro”.
Ha diretto per molti anni il coro “I Musici cantori” di Trento con i quali ha svolto una intensissima attività concertistica vincendo in concorsi nazionali e internazionali (Vittorio Veneto, Arezzo ecc.). È stato inoltre direttore de “Le Istitutioni Harmoniche” di Verona e del coro polifonico “R.Lunelli”. È stato direttore artistico dell’Accademia Musicale S. Giorgio di Verona e del coro da camera annesso alla stessa. È inoltre fondatore e direttore del Coro Filarmonico Trentino. Alla direzione di quest’ultimo nell’ambito del Bolzano Festival Bozen ediz. 2008 ha eseguito in Prima esecuzione mondiale la Missa I. quatuor vocibus cantanda op. 34 e l’Ave Maria a 4 voci Kind. 95 di F. Busoni.
Fa parte della Commissione artistica della Fondazione coro SAT ed è consulente artistico dell’ASAC. Viene regolarmente invitato quale membro di giuria in concorsi corali che di composizione sia nazionali che internazionali.
È titolare della cattedra di Direzione di coro e repertorio corale per la scuola di didattica della musica presso il Conservatorio “Monteverdi” di Bolzano.
Come compositore collabora con alcune riviste specializzate tra cui La Cartellina diretta da Marco Boschini.
Compositore prolifico si dedica prevalentemente alla musica corale con numerose composizioni di carattere sacro – profano e con eguale competenza alle elaborazioni per coro misto, maschile e voci bianche di canti popolari provenienti dalla tradizione arcaica italiana. Nell’ambito della composizione corale ha ottenuto numerosi primi premi a concorsi nazionali ed internazionali (Concorso internazionale di composizione “Ivan Spassov ” a Plovdiv Bulgaria), Concorso di composizione ” Paolo Valenti- Musica e Sport ” a Roma; Concorso nazionale Città di Pontremoli 2001 per la didattica; il concorso di elaborazione corale città di Biella, Salisburgo, ecc..). Diversi suoi lavori sono stati eseguiti sia in Italia che all’estero dai cori “Tone Tomsic” di Lubiana, “Voci Nobili” di Bergen, “I Piccoli Musici di Casazza”, “I Minipolifonici” di Trento, coro della SAT, la Corale Zumellese di Mel dal Coro Giovanile Italiano e dal Corpo Bandistico di Albiano. Oltre a composizioni per coro ed elaborazioni di canti popolari, ha scritto per organo e pianoforte, per organici cameristici. Sue opere sono state scelte come brani d’obbligo in concorsi corali nazionali ed internazionali.
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Guido Gozzano – La Notte Santa

La Notte Santa

di Guido Gozzano

Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

– Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

– Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

– O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
– S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
– Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.

Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.

Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!

Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

GGozzanoGuido Gozzano



“La Notte Santa” di G. Gozzano, musica di M. Zuccante,
recitazione di P. Cagnazzo, PolifonicoMonteforte


 

LaNotteSanta-YT

“La Notte Santa” di G. Gozzano, musica di M. Zuccante,
recitazione di P. Cagnazzo, PolifonicoMonteforte

 

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Bepi De Marzi – intervista

M. Zuccante: Innanzitutto, grazie, maestro Bepi, di aver accettato di colloquiare con me. Sono sicuro che i lettori di Choraliter gradiranno approfondire, attraverso le tue stesse parole, alcune delle tematiche inerenti alla tua opera. Un capitolo cospicuo della tua produzione raccoglie i canti di ispirazione popolare legati, più o meno direttamente, all’ambiente alpino. A distanza di diversi decenni dal suo fiorire, ed in un momento che coincide con il compiersi di un arco generazionale, prova a tracciare un bilancio della stagione dei cori di montagna.

B. De Marzi: A Milano c’è un coro di poche ma ottime voci molto giovani. Il repertorio che propone, eseguito con fedeltà e accuratezza, è quello classico, elaborato a Trento dai Pigarelli, i Pedrotti, poi i Mascagni, i Dionisi e l’ispiratissimo grande pianista Benedetti Michelangeli. Chiedere a questi giovani “perché cantano” potrebbe essere illuminante per capire l’attuale situazione corale. La montagna? In montagna non si è mai cantato così. Nelle valli alpine, questo genere vocale e armonico è arrivato dalle città con l’escursionismo. Alla fine degli Anni ’60, in un convegno a Cortina, si è detto che i cori maschili erano tutti “trentinizzati”. Ma se non ci fosse stato il Coro della SAT, nessun coro maschile sarebbe sorto nel secondo dopoguerra. Questo è un tempo sospeso, dove nell’incertezza del futuro si propone di tutto. Ma io vorrei tornare a quel “perché”, ben sapendo che rimarrebbe senza risposta. E non basta ricordare la celebre frase “perché la montagna è là!”. L’alpinismo classico è finito da tempo. Anche l’escursionismo di massa. Oggi si va nei boschi con il fuoristrada e sui sentieri con la moto da cross. E mi viene da piangere.

M. Zuccante: Alcuni detrattori ti accusano di confondere i generi. I tuoi canti sarebbero invenzioni personali che rischiano di contaminare la purezza e l’autenticità del repertorio storico di tradizione orale, esito di operato anonimo e collettivo. Premesso che l’intero repertorio dei cori alpini è, di fatto, un’invenzione, pensata per le sale da concerto – a partire dal modello-SAT –, condividi l’idea che l’apporto creativo dell’artista-individuo giochi, invece, un ruolo determinante, ai fini della sublimazione poetica dei contenuti e delle storie raccontate nelle cosiddette canzoni popolari?

B. De Marzi: Nel mirabile repertorio SAT ci sono dei generici canti d’autore che nessuno ha mai discusso perché proseguono dallo stile riconosciuto. Molte delle mie storie cantate dicono della mia partecipazione alla vita sociale, gridano la mia indignazione, invitano al rispetto della memoria, alla pace. Nella tradizione, non mi sono mai posto il problema della purezza, consapevole che un canto autenticamente popolare viene falsato appena lo si tocca, appena lo si elabora armonicamente e vocalmente. Certo: il mio modello iniziale è stato il coro trentino con i suoi inimitabili musicisti-armonizzatori. Oh, le armonizzazioni! Si è sempre parlato solo di armonizzazioni, per i nostri repertori. Mi intenerisce sentire tanti coristi delle centinaia di gruppi maschili che, nominando Beethoven, dicono che ha fatto “nove armonizzazioni”. Un coro piuttosto noto, nel registrare “La contrà de l’acqua ciara” ha scritto: “Testo di Giuseppe De Marzi, armonizzazione di Bepi De Marzi”. C’è ancora della confusione, qua e là. I detrattori? Dicono che sono “troppo semplice, troppo cantabile, tardoromantico”; scrivono che non pratico le dissonanze, che ignoro la tecnica moderna. Ma le cattiverie più organizzate sono venute dai cacciatori dopo che ho scritto “La Sisilla”, e soprattutto “Scapa, oseleto”, Scappa, uccellino, violino della siepe…

M. Zuccante: Il tuo linguaggio musicale esclude ogni sorta di complessità e persegue piuttosto la via della linearità nella scrittura, della semplicità espressiva e dell’immediatezza comunicativa. Sia nella prestazione esecutiva che in quella della percezione, insomma, le tue canzoni si attengono a quello che potremmo definire un “lessico popolare”. Eppure mi pare che qua e là affiorino modelli di origine colta. Tra gli altri esempi, mi vengono in mente la policoralità di Pavana, l’esordio in stile imitato di Nikolajewka, gli stretti ritmici presenti nelle ultime righe di Sanmatìo. Qual è dunque il debito che ti vincola alla formazione di musicista colto?

B. De Marzi: Grazie per essere entrato nel giusto significato del mio lavoro. L’immediatezza comunicativa me la impongo continuamente perché mi chiedo: “Chi canterà le mie storie? uomini, donne, ragazze, ragazzi che per lo più non sanno leggere la musica…”. Ecco: voglio facilitare il loro impegno. Potrei elaborare tessiture più complesse, certo. Ma a me basta, come diceva il mio grande amico Rigoni Stern “fare compagnia a qualcuno” con le mie storie cantate.  Però vorrei che dai concerti corali si uscisse con la memoria di qualche passaggio melodico, di qualche motivazione poetica e sociale, per continuare a vivere la tormentosa felicità di quel “perché”. Ciò che ho scritto lungo gli anni è stato dettato in parte dai miei studi giovanili, che sono anche i tuoi. Venendo dal conservatorio e operando nella musica nei diversi campi, ci si lascia tentare dalle grandi forme polivocali, pur se consapevoli che tutto il meglio sia già stato realizzato.

M. Zuccante: Tra le qualità più apprezzate nelle tue creazioni c’è quella di una semplice, ma attraente e coinvolgente vena melodica. Ritieni che questo sia il dato che più di ogni altro favorisca la popolarità del tuo repertorio?

B. De Marzi: Ne ho la certezza. “Cosa fai di mestiere?”, mi ha chiesto un mite fraticello della Verna nel tempo in cui ancora andavo a confessarmi. Di solito, a chi mi fa una simile domanda rispondo “faccio l’idraulico”. Quella volta, lassù, non potevo mentire:: “Il melodista”, ho risposto. “Oh, Gesù, e che mestiere sarebbe?”. Proseguendo dai pensieri precedenti, confermo il mio costante impegno nel realizzare piccole immagini cantate, facili da memorizzare. Molti dei miei canti vengono da tempo accompagnati con la chitarra o con altri strumenti. Vivono perciò per la sola melodia. A Lourdes, una volta che facevo servizio in un pellegrinaggio, mi sono avvicinato a dei coristi italiani che intonavano un mio mottetto con organo. “Lo sa anche lei?”, mi hanno chiesto. Sono queste, le piccole e inattese felicità.

M. Zuccante: Tra le tue canzoni, La contrà de l’Acqua ciara è quella che preferisco. Ogniqualvolta mi capita di ascoltare questo struggente motivo, la familiarità con i luoghi, in cui entrambi viviamo – ora ahimè imbruttiti da scempi indecenti -, accresce la partecipazione emotiva. L’amara malinconia di questa canzone consolida in me l’immagine di Bepi De Marzi cantore dell’inesorabile fine del mondo contadino-montanaro veneto. Mi sbaglio?

B. De Marzi: Mi conosci bene, ma bene. La mia è una infinita disperazione. Io, il “perché” l’ho sempre avuto, l’ho sempre espresso in diversi modi. Piango un mondo umiliato e offeso. Urlo anche per lo scempio delle città: “Come fosse morto il mondo, se la città d’autunno non ha più foglie gialle nei viali di cemento nero. Le foglie non sono mai nate, son rimaste nel cuore dei rami duri come pietra…”. Questo canto ha sorpreso i miei amici milanesi. Nella contrada che ho cantato, come in altre delle nostre montagne, ora vivono molti immigrati; e sono tornati i giochi dei bambini, magari in lingue diverse. Ecco un’altra felicità che consola i miei giorni inquieti.

M. Zuccante: Hai percorso la tua carriera a fianco di una nutrita schiera di musicisti, con i quali hai condiviso con successo un progetto di crescita e valorizzazione del canto corale. Quali, tra i compositori e direttori di coro della tua generazione, consideri più affini alla tua esperienza artistica?

B. De Marzi: Ho conosciuto e ammirato le dilatazioni vocali di Malatesta, le seduzioni armoniche di Bon, il sapiente fervore di Agazzani, la nobiltà internazionale di Gervasi, la passione popolare di Vacchi, l’arguzia di Corso, la poliedricità di Bordignon, il puntiglio popolare di Vigliermo, l’acutezza di Leydi. Ma il mio pensiero riconoscente va ai miei maestri di pianoforte, di organo, di composizione. E quanti sogni! Determinante è stato il mio entrare nei Solisti Veneti come clavicembalista e organista. Da Claudio Scimone ho imparato che nella musica non si deve mai finire di cercare, cercare e cercare. Anche nel dirigere i cori per Vivaldi, Mozart o Beethoven, il mio fraterno amico e maestro padovano ha sempre cercato la chiarezza per una emozionante comunicazione. Bandito l’intimismo, ha cercato, e ancora cerca, di parlare al mondo, di illuminarlo, di renderlo migliore. Si può fare con Vivaldi, con Bach! Ma anche con Pigarelli. Mi ha incoraggiato e aiutato Silvio Pedrotti, proprio il grande Silvio che ora più nessuno ricorda. Lui sì che manifestava il “perché” del cantare in coro. “Non basta cantare: bisogna far pensare”, mi ha scritto affettuosamente quarant’anni orsono.

M. Zuccante: Vorrei ora mettere a fuoco un paio di punti sul tuo ruolo di direttore di coro. I Crodaioli di Arzignano sono la fucina presso la quale hai plasmato gran parte delle tue creazioni. Mi sembra di cogliere in questo complesso vocale anche una certa originalità timbrica. Quali sono a tuo avviso i connotati fonici che distinguono I Crodaioli nel panorama dei cori alpini?

B. De Marzi: Forse eravamo un coro alpino. Le mie prime 6 raccolte pubblicate dalle Edizioni Curci avevano l’unico titolo “Voci della montagna”. Per la vocalità, è risaputo, bisogna adattarsi alle voci disponibili, plasmandole per la soluzione migliore nell’amatorialità. Nelle tre raccolte seguenti ci sono anche dei rifacimenti, delle rielaborazioni. Qualche canto tra i più diffusi l’ho proposto addirittura all’unisono. Ho creduto nella vocalità vagamente aggressiva, intensa, per una varietà dinamica tendente a provocare emozioni. Ultimamente ho un poco attenuato questo atteggiamento. Mi ripeto nel dire che questo è un momento di attesa. Perciò, rimanendo nel presente, dopo una pausa di un paio d’anni abbiamo deciso insieme di mutare l’impostazione vocale limitando l’estensione sui modelli polifonici a voci uguali. Ora i tenori primi hanno un timbro pieno e reale, non più di “falsetto”. Le armonie sono più intense con le voci “vicine”.

M. Zuccante: C’è un particolare nel tuo modo di condurre il fraseggio che mi ha sempre incuriosito. Quello cioè di “tirare la frase” senza interruzione e, alle volte, con alquanta lentezza, mettendo a dura prova le voci nel sostenere i suoni; quasi volessi cercare una continuità sonora in grado di oltrepassare i limiti del respiro. Penso ad un brano come Bènia Calastoria. Mi chiedo se si tratta di emulazione di sonorità strumentali, come possono essere, ad esempio, quelle dell’organo. Insomma, vezzo o scelta motivata da ragioni espressive?

B. De Marzi: Forse hai ascoltato qualche mio canto dai cori che non fraseggiano chiaramente. Benia Calastoria ha i respiri ben segnati. La mia esecuzione può dare l’impressione della continuità che tu sottolinei, ma è solo un’impressione perché c’è un pedale continuativo affidato prima ai bassi, poi ai baritoni, che riempie le brevissime sospensioni dei respiri. Pur usando per lo più l’omoritmia, tengo molto alle possibilità umane per un fraseggio naturale. Non ho mai contato i canti che ho fatto. Ma ci sono pedali all’alto, bassi ostinati, forme cicliche… La nona raccolta, edita sempre dalla Curci di Milano, contiene anche un canto in tre movimenti, Brina Brinella. C’è un Largo come introduzione, un Corale-Andante e una Fuga-Vivace costruita con soggetto, controsoggetto, modulazioni, divertimenti e stretti. In questo caso, il “perché” sta nel raccontare l’ansia del contadino per il raccolto minacciato dalle improvvise gelate primaverili.

M. Zuccante: Un lato non secondario della tua poliedrica personalità è rappresentato dalla vis polemica con la quale affronti pubblicamente tematiche relative alla vita musicale e non. Vorrei riservare ad esso le ultime riflessioni. Tralascio, e rimando ad una prossima puntata, lo spinoso argomento della musica liturgica, pur sapendo quanto ti stia a cuore e quanto ti sia speso per tutelarne il decoro. Qualche tempo fa fecero un certo scalpore alcune tue apocalittiche previsioni in merito al futuro del canto corale. Tra le altre, leggo queste affermazioni: «Il mondo corale amatoriale sta attraversando una profonda crisi, ma non solo per la mancanza di voci giovani, bensì per la confusione dei repertori. I testi in italiano non interessano più, tanto meno quelli nei vari dialetti». Sei ancora convinto di tutto ciò?

B. De Marzi: Manca la curiosità e la caratterizzazione. Il problema del ricambio delle voci nei cori maschili è sempe più sentito. Mi preoccupavo però della perduta dignità dei complessi corali che proponevano espressioni senza precise motivazioni. I cori misti nascono e si spengono in continuazione anche per la mancata ricerca di una personalizzazione. Per la musica sacra, e spero che se ne parli presto a più voci in queste pagine, non c’è niente da fare: siamo da tempo nel degrado. Le messe sono ovunque un’avventura locale e i canti prediligono i versi tronchi in “ai, ei, oi, ui”. Le musiche? Impera la “non melodia”. Hanno inventato la cantillazione, un recitativo con effetti esilaranti.

M. Zuccante: Infine, vorrei dire che reputo meritoria la tua indefessa azione di denuncia del degrado socio-culturale in cui siamo sprofondati da un paio di decenni a questa parte. Pensi che la crisi eclatante e finalmente riconosciuta ad ogni livello, si possa ergere a spartiacque tra un’epoca di infimo decadimento ed una nuova stagione di rigenerazione morale e riscoperta di valori culturali, morali e sociali più autentici? Insomma, c’è una speranza dietro l’angolo, o no?

B. De Marzi: Mia mamma era di Milano e mi diceva come “i veri milanesi non sono mai indifferenti davanti alle vicende del mondo”. La mia amata Milano, però, ha perduto molto del suo cosmopolitismo per diventare una specie di bigottificio provinciale. Mio papà, per il suo lavoro di tecnico elettromeccanico, aveva l’abbonamento per tutta la rete ferroviaria italiana e mi diceva: “Non accontentarti mai di ciò che ti dicono: vai a vedere e racconta la verità”. Per uscire da questo grigiore qualunquistico c’è solo da sperare nell’Europa, dove dobbiamo portare il calore della nostra rinnovata poesia.

[Choraliter, n. 37, Gennaio-Aprile, Ed. Feniarco, 2012]

Bepi De Marzi




B. De Marzi, “La Contrà de l’acqua ciara”, Coro “I Crodaioli”, B. De Marzi, dir.
Giuseppe (Bepi) De Marzi è nato ad Arzignano il 28 maggio 1935.Dopo i diplomi in organo e composizione organistica, pianoforte e gli studi di direzione e composizione si è dedicato alla musica da camera e al basso continuo diventando dal 1978 fino al 1998 l’organista e clavicembalista, nonché vicedirettore, de I Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone. Insegnante nel Conservatorio di Padova dal 1976. Attualmente è direttore del coro maschile I Crodaioli da lui fondato nel 1958.
È certamente uno tra i più conosciuti ed eseguiti compositori di canto d’autore di ispirazione popolare. Sue sono pagine celebri come Signore delle cime, Sanmatio, Benia Calastoria, Improvviso, Joska la rossa, tratte da poesie i cui testi spesso dialettali, composti di sovente dall’amico Carlo Geminiani, incontrano una tessitura compositiva armonico-melodica di natura strumentale.
Durante la sua carriera ha conseguito numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il “Premio Masi” per la Civiltà Veneta. È chiamato spesso quale membro di giuria in concorsi nazionali e internazionali, corali e di composizione.
Il 21 giugno 2012 ha ricevuto a Salice Terme il Premio Antonio Cagnoni alla carriera (Prima edizione di questa manifestazione).Spesso critico nei confronti dell’attuale situazione, da lui definita confusa, nell’ambito della musica liturgica, ha composto molta musica sacra. Tra gli anni Settanta e Ottanta, con il Coro polifonico “Nicolò Vicentino” da lui fondato e diretto, ha realizzato per la Fonit-Cetra di Milano la prima incisione dei Salmi elaborati con Padre David Maria Turoldo e Ismaele Passoni. Gli stessi Salmi sono stati incisi nuovamente nel 2006 con le voci del suo coro I Crodaioli, accompagnato all’organo da Francesco Finotti. Le Edizioni Curci di Milano hanno registrato e pubblicato nove raccolte di suoi canti corali.
Notevole la sua produzione di musica per le scuole primarie, materna e elementare, diffusa dalla Casa Musicale Carrara di Bergamo. L’editore Galla di Vicenza ha raccolto nel volume “L’esclusiva dell’evento”, una settantina di suoi articoli di critica musicale, di viaggi e di costume, tra i quasi mille pubblicati su vari giornali (in particolare su Il Giornale di Vicenza) lungo gli ultimi trent’anni. L’editore Panda di Padova ha pubblicato una bizzarra e vivace raccolta di suoi scritti con il titolo “Contrà de l’acqua ciara”.

01Bepi De Marzi, “Signore delle cime” – PolifonicoMonteforte, M. Zuccante, dir.

Bepi De Marzi, “La Contrà de l’Acqua ciara” – PolifonicoMonteforte, M. Zuccante, dir.

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Alearda Parisi Pettena – in memoriam

Alearda Parisi Pettena se n’è andata. Quanta tristezza in quel suo saluto premonitore. Un gesto di commiato, rivolto al pubblico al termine di quell’ultima e faticosa esibizione alla guida del coro Dames de la Ville d’Aoste. Il coro da lei fondato e con tanta passione curato negli anni.

Ho conosciuto Alearda una decina d’anni fa. Era già anziana. Ma ancora musicista attiva. Conquistava per la verve, la naturalezza ed il garbo, attraverso cui sapeva porsi come direttrice di coro e come persona.

Ricordo il diletto la prima volta che ebbi l’occasione di vederla dirigere. Mi trovavo in una posizione defilata, che mi consentiva però di apprezzare la vivacità degli occhi, la misura del gesto chironomico e gli spiritosi ammiccamenti delle spalle. Un insieme di amabili movenze che comunicavano leggerezza e piacevolezza, in perfetta sintonia con lo spirito della musica che andava interpretando.

Un privilegio realizzare per lei un florilegio di arrangiamenti di chansons francesi. Nel tono cortese, squisito e un po’ malinconico delle melodie degli chansonniers sembra s’incarni l’indole gentile e discreta di Alearda.

Il coro Dames de la Ville d’Aoste, maggio 2012




C. Trenet – M. Zuccante, “L’Âme des poètes”, Dames de la Ville d’Aoste, Alearda Parisi Pettena, dir.
Il coro femminile Dames de la Ville d’Aoste è nato nel 1975 come Le Fauvettes, ma l’esperienza con le voci bianche delle Petites Fleures era iniziata già nel 1969. Nel ricambio naturale delle coriste, la grande costante delle Dames de la Ville d’Aoste è sempre stata la direttrice. Signorile nel portamento, solida nel trasmettere musica e passione, «La Pettena» ha formato voci uniche nel panorama dei cori, spesso fidelizzando nel tempo, o affascinando nuove ragazze, un numero di coriste che va dalle trenta alle quaranta. Nemmeno gli acciacchi più o meno pesanti le hanno impedito di seguire le sue “Dames” fino alla fine, fino all’ultima “Rassegna di canto corale” ad Aymavilles, la partecipazione numero quarantatré, nel maggio scorso.

I concerti delle Dames hanno stupito molte volte, non solo per la precisione tecnica e la accuratezza nella interpretazione musicale: il repertorio del coro a voci pari femminili ha sfruttato ogni sfumatura della vocalità, spaziando dal gospel al gregoriano, tipicamente maschile, e con un bel lavoro di ricerca nella musica popolare tradizionale così come tra i brani di ogni epoca, dall’antica alla contemporanea, sacra o profana, anche con l’accompagnamento di strumenti.

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Paolo Bon – profilo

Paolo Bon, musicista e studioso veneto di nascita e di formazione, ha percorso un itinerario artistico, per cui si è progressivamente allontanato dalla realtà musicale locale ed è approdato su territori più lontani nello spazio e nel tempo. Egli, infatti, pur avendo ancorato solidamente i suoi interessi all’ambito dell’elaborazione di canti popolari per coro (ma il suo catalogo presenta anche un cospicuo numero di composizioni originali), ha saputo felicemente confrontarsi con materiali di origine diversa: dal canto alpino, a quello franco-provenzale, a quello di altre realtà etno-musicali.

L’appassionato lavoro di raccolta e analisi di testi e melodie, e la successiva elaborazione in forma corale, hanno costituito la premessa per un’attenta riflessione sui dati musicali primordiali, su quelli che egli ama definire “l’arcaico”, ovvero quel substrato di archetipi comuni a tutte le culture musicali e dai quali si è generato (sulla base di precise ed indagabili leggi naturali) il nostro linguaggio musicale. Paolo Bon è convinto (e i suoi studi musicologici questo intendono dimostrare), che le strutture sintattiche (anche quelle più complesse del linguaggio diatonico, come quelle armoniche e contrappuntistiche), non siano la risultante di un’evoluzione storica, né l’esito della creatività dei singoli musicisti, ma il “disvelamento” di processi, le cui leggi e i cui principi motori sono contenuti “in nuce” nelle forme musicali primigenie (ad esempio, nelle ninne nanne, nenie e cantilene varie). Egli, dunque, sostiene che l’operato del compositore si identifichi con l’invenzione, non nel senso di creare ex novo, ma in quello di “invenire” (trovare), scoprire sviluppi di “architetture e trame musicali” possibili, i cui presupposti sono necessariamente impliciti nel materiale musicale di partenza.

Il rigore scientifico su cui si fondano le tesi teorico-musicali di Paolo Bon, si traduce (soprattutto nelle opere più recenti) in composizioni musicali, in cui emerge una certa prevalenza della “complessità” e, in particolare, del dato contrappuntistico, come se il contrappunto fosse il mezzo che meglio si presta a definire sul pentagramma procedimenti strutturati ed “intelligenti”. Ciao, Lele, Il Quaderno di Katja e Ilaria, Laine des moutons, En lisant Villon, Sei matto! sono brani, che celano, al di sotto dei contenuti poetico-espressivi, una fitta trama di giochi canonici di ogni specie e di precise e simmetriche relazioni strutturali. Contrariamente, i lavori di quella che potremmo definire una “prima maniera” (quella, per intenderci, del periodo passato alla guida del Coro “Cesen” e della cosiddetta “Nuova Coralità”), sembrano maggiormente ispirati da una condotta più libera e a prevalenza armonica. Assai suggestive sono le celebrate realizzazioni (a tutt’oggi assai eseguite) di Le Roi Renaud, Appunti Andalusi, Viva la Quince Brigada, e della Piccola Suite Infantile, in cui vengono felicemente introdotti contaminazioni stilistiche ed elementi armonici modali, in un contesto di composizione corale che, all’epoca, era fortemente condizionata da modelli tonali tradizionali.

[Musica Insieme, Periodico dell’ASAC-Veneto, n. 83, Gennaio 2004]

Paolo Bon nel 1975




Paolo Bon, “Appunti Andalusi”, Gruppo Nuovocorale Cesen – P. Bon, direttore
Paolo Bon è nato a Volpago del Montello nel 1940 e dal 1980 vive e lavora a Firenze.Presidente della Commissione Artistica dell’Associazione Regionale Cori della Toscana e membro della Commissione Artistica della FE.N.I.AR.CO.
Fra gli anni ’60 e ’70 ha dato vita al movimento Nuova Coralità, ispirato alla ricerca delle implicazioni profonde della musica arcaica ed alla loro liberazione nel processo compositivo e nell’espressione corale.
Diatonomia è il nome da lui dato ad un’originale linguistica musicale costruita sulla sua teoria evolutiva del diatonismo.
Viene frequentemente invitato a partecipare a convegni, congressi, tenere conferenze, corsi per direttori di coro, a far parte delle commissioni giudicatrici di concorsi corali e di composizione corale, nazionali ed internazionali.Pubblicazioni principali:
– Cronache di Esperienza Corale 1964-1974, ed. Zanibon, Padova, 1976;
– Il Quaderno di Katja e Ilaria, ne La Cartellina, da N. 58/1988 a N. 66/1990, ed. suvini Zerboni, Milano (ristampa a cura delle Ed. Pizzicato, Udine, 2003);
– La Musica, l’Arcaico, l’Effimero, ibidem, da N. 82-1992 a N. 117-1998;
– Nova summula Canonica cum Interludio, ed. Giardini, Pisa, 1992;
– Recueil de chants de recherche élaborés par Paolo Bon, su commissione dell’Assessorato alla Cultura della Regione Valle d’Aosta, ed. Regione Valle d’Aosta, 1994;
– La Teoria Evolutiva del Diatonismo e le sue Applicazioni, ed. Giardini, Pisa, con contributo C.N.R., 1995;
– Cantar Storie, 2 Voll., con altri aa., ed. Grossi -Domodossola, 1999 – 2001; contiene 29 elaborazioni dell’Autore;Altri suoi contributi sono sparsi in riviste specializzate, quotidiani, atti congressuali, etc.

Riconoscimenti :
– Castello d’Oro, Conegliano, 1972
– Premio Rigo Musicale “Guglielmo Zanibon”, Adria, 1973
– Diapason d’argento, Lodi, 1988
– Premio “La Bollente”, Acqui Terme, 1992
– Premio “Un diapason miranese”, Mirano, 1994
– Premio Ezzelino, Romano d’Ezzelino, 1994
– Premio Sante Zanon, Spresiano, 1997

Il 16 novembre 2002 l’Amministrazione Comunale di Volpago del Montello, sua cittadina natale, gli ha dedicato un affettuoso omaggio con un concerto di musiche corali sue.

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Armando Corso – intervista

M. Zuccante: Gentile Maestro Armando Corso la notorietà di cui lei gode nell’ambito corale è soprattutto dovuta al fatto di essere lo storico direttore (ma potremmo dire l’anima motrice) del Coro Monte Cauriol di Genova. Partiamo perciò da qui. Un coro alpino radicato in terra di mare. Pare un controsenso. Ci spieghi.

A. Corso: A Genova e in Liguria in generale ci sono molte associazioni alpinistiche, cioè che organizzano gite, escursioni, arrampicate, scalate anche difficili. Il C.A.I. ligure a Genova è uno dei più grossi. C’è molta passione per la montagna. Forse per un contrasto, si vive tutto l’anno in mare, ma quando si può si fanno gite. Vicino sull’Appennino, oppure un po’ più lontano sulle Apuane e poi d’estate o in Valle d’Aosta o in Dolomiti. Si pratica anche molto sci. C’è molta passione per la montagna. Ci sono molti cori: sei cori di montagna, a Genova. Ma poi ci sono ancora a Savona, Imperia e qualcuno a La Spezia.

M. Zuccante: Difficile negare che il canto corale alpino abbia accompagnato l’arco vitale di una generazione segnata dagli avvenimenti bellici e dalle vicende della ricostruzione. Le prospettive di apertura geografica e culturale attuali sembrano inevitabilmente allontanarci da quel passato. Nonostante ciò, si registrano segnali di ripresa di interesse verso questa forma di canto corale, proprio da parte di gruppi formati da giovani cantori. Come spiega questo fenomeno? Ritiene che il canto alpino possa avere un futuro?

A. Corso: Certamente. Noi abbiamo cominciato con il repertorio della Società Alpinisti Tridentini. Avevamo gli spartiti e il libro del Coro della SAT. Da lì siamo partiti e siamo fortemente ancorati come base a quel tipo di canto. Naturalmente abbiamo aggiunto molte cose. Nell’ultimo Canzoniere abbiamo raccolto circa 245 armonizzazioni. La maggior parte nostre e poche di altri, in particolare di Dodero. Abbiamo sempre cercato di pescare nel canto popolare, canto di montagna, canto di gite, canto giovanile, di escursioni. Molti di noi hanno camminato per tutta la gioventù e qualcuno ancora adesso. Quindi sentiamo molto questi canti. Sentiamo anche il bisogno ogni tanto di allargare. Abbiamo qualche spiritual, canti natalizi, canti religiosi e anche canti popolari di altre regioni. Naturalmente scegliamo cose molto belle. Noi riscontriamo un interesse nei giovani. Tant’è vero che noi abbiamo cominciato in 10-12. Anzi, per la verità, il primo gruppo nel 1949 era solo di 4 e sono sopravvissuto solo io di quel gruppo. Però, adesso siamo più di 60 e dobbiamo frenare le richieste. Abbiamo molti giovani che vogliono entrare. Forse alcuni hanno tradizione di famiglia. Non dico di canto, ma di alpinismo o escursionismo, oppure di vita militare negli Alpini.

M. Zuccante: I Cori alpini si formano, in genere, in ambito prettamente amatoriale; e amatoriale è, di frequente, la formazione del loro direttore. Se non sbaglio, anche lei non è musicista di professione. Crede che il presupposto di sano diletto contribuisca a valorizzare l’autenticità di chi si esprime attraverso il canto corale alpino?

A. Corso: Sicuramente sì. Non nego che per i professionisti la musica nelle sue varie forme sia proprio la vita. Ma nel coro tutti noi abbiamo una vita professionale diversa, che va dall’operaio, al perito, al geometra, al laureato in ingegneria, come me, oppure in economia e commercio, oppure in giurisprudenza, molti in medicina. Il coro era nato a ingegneria, quando eravamo studenti. Quindi, c’è una cultura abbastanza elevata nel coro e questo l’abbiamo visto anche in altri cori di città importanti, come Milano, Trento e altre. Il fatto di essere liberi, perché abbiamo altre professioni, ci rende veramente consoni con un bisogno interno di questo tipo di vocalità e di musica, che non è stato imparato in un Conservatorio, ma magari cantando in montagna, cantando in gita. Io ho cominciato perché ero sfollato a Rovereto nel Trentino con i miei compagni di Liceo. Abbiamo fatto gite e cantavamo in cima. Lì ho sentito alcune delle cante che non conoscevo, ad esempio Sul rifugio. In molti di noi non c’è l’aver sentito questi canti e gradirli, ma c’è l’aver vissuto la montagna, aver passato la serata fuori dal rifugio a guardare le stelle, o il plenilunio e così via. Quindi, cerchiamo di restituire qualche cosa di autentico che abbiamo dentro, che abbiamo vissuto.

M. Zuccante: Di certo non si impara lo stile del canto corale alpino frequentando i Conservatori di musica. Ad eseguire il canto alpino s’impara piuttosto sul campo, dall’esperienza diretta di chi già lo pratica. L’istruzione di un coro alpino presuppone il possesso di un insieme di perizie che non sempre coincidono con le competenze necessarie per la direzione di un coro di tipo accademico. E’ d’accordo? Se sì, in cosa consistono le qualità peculiari di un direttore di coro alpino?

A. Corso: Sicuramente all’inizio c’è non una preparazione, ma un istinto e una certa musicalità da parte di tutti i cantori e del malcapitato direttore. Alle volte uno lo è perché, tra tanti ciechi, l’orbo, cioè uno che ce l’ha, diventa il re. E questo è successo a me e ad altri. Altri invece che hanno una preparazione accademica nella musica. Però prevale sicuramente l’istinto che porta a cantare in questo modo chi già lo ha fatto in gita, in montagna, in rifugio o durante la gioventù, o nella vita militare. E poi affinando un po’ opportunamente le proprie istintive qualità di orecchio, canore e di vocalità porta ad entrare in sintonia con questo modo di cantare, che ci permette di esprimere tanti sentimenti umani, restituire proprio umanità, che poi è la base di tutto questo discorso.

M. Zuccante: Il Coro Monte Cauriol viene annoverato tra le compagini che hanno fatto la fortuna del canto alpino. Vorrei chiederle su quali aspetti espressivi lei ha lavorato più insistentemente, per differenziare lo stile del Coro Monte Cauriol da quello delle altre formazioni storiche, che potremmo definire “di riferimento” nello stesso genere corale.

A. Corso: C’è un dato fondamentale. Su 250 armonizzazioni, più un centinaio di quelle della SAT (che non sono perciò nel nostro Canzoniere), parlo quindi di tutte quelle che noi eseguiamo, c’è per noi radicata la convinzione che un canto di questo tipo debba essere stato levigato da secoli di tradizione orale, in modo che tutte le falsità, le asperità sono state tolte e ne esce proprio qualche cosa di puro, di estremamente valido, che sentito una volta rimane nella testa di chi ha un po’ di orecchio, di musicalità. Quindi noi privilegiamo assolutamente canti non d’autore, salvo rarissime eccezioni, cito Stelutis alpinis, La Paganella, La montanara e qualche altra. Ma in generale privilegiamo i canti che sappiamo sono rimasti nelle orecchie della gente, delle famiglie. Siamo andati in giro, anche in Trentino, a farci cantare nelle osterie i canti, lo stesso a Trieste e così via. Abbiamo sentito le preferenze e anche l’entusiasmo di chi le cantava senza preparazione musicale, ma evidentemente con un orecchio di base e una certa abitudine, data una melodia, a fare a orecchio il secondo, il basso. E quindi, secondo noi, questi canti sono molto più validi degli altri, noi li privilegiamo.

M. Zuccante: Sveliamo l’arcano della dizione «Armonizzazione: Cauriol», che contrassegna il maggior numero delle partiture del Canzoniere del suo coro. In verità, è lei l’autore degli arrangiamenti corali dei brani che costituiscono il grosso del repertorio del Coro Monte Cauriol. Quali sono le corrispondenze stilistiche tra le sue stesure e la prassi esecutiva del Coro Monte Cauriol?

A. Corso: Perché non ho voluto firmare le mie armonizzazione fin da 61 anni fa? Perché ho desiderato fin dall’inizio che il coro le sentisse proprie, non mie, cioè che non ci fosse un maestro con degli altri che lo seguivano, ma che fossimo tutti uguali. Perciò ho cercato, finché qualche sciagurato non ha tirato fuori il mio nome, di non comparire. Io lo ringrazio naturalmente questo sciagurato, questo gruppo di sciagurati, però avrei preferito di no, perché c’è nel nostro coro un forte senso di appartenenza al coro, sentiamo proprie queste canzoni. Altri non le cantano, altri le imitano magari adesso da un po’ di tempo. Ma è molto importante questo aspetto di comproprietà, di orgoglio da parte dei cantori. Volevo insomma che le sentissero proprie.

M. Zuccante: Da un coro alpino c’è da aspettarsi una coerente adesione a canti popolari di derivazione storico-geografica circoscritta.  Eppure, nel repertorio del Coro Monte Cauriol si annoverano alcuni sconfinamenti. Canzoni napoletane, sarde, armene, americane, gospel, pop e così via. Quali sono le ragioni di queste divagazioni?

Perché ci piacciono e secondo noi sono altrettanto popolari, antiche, valide. Ne ho parlato con Silvio Pedrotti a suo tempo e mi ha detto «Fate bene. Lo dovete fare. Perché dovete anche un po’ aprire la vostra testa verso altre musicalità, altre culture». Nel caso degli spirituals, siccome io ho una parallela attività jazzistica, non ho avuto nessuna difficoltà. Anzi, siamo stati pionieri in Italia. Perché ora c’è pieno di cori che cantano gospel, eccetera, ma noi li cantavamo 50 anni fa.

M. Zuccante: Per finire, vorrei formulare la seguente questione. Abbiamo detto che i cori alpini si formano, di norma, in ambito amatoriale. Ma le origini del Coro Monte Cauriol ci portano negli ambienti colti delle aule universitarie genovesi. Analogamente, altri cori alpini si sono formati tra persone non musiciste di professione, ma comunque di estrazione colta. E aggiungo che Massimo Mila definì il Coro della SAT «ll Conservatorio delle Alpi», come a volere attribuire al canto dei satini di Trento un marchio di prodotto d’arte. Insomma, l’ingrediente popolare nel genere del canto corale alpino in che misura è filtrato e valorizzato dall’anima colta di chi lo mantiene vivo?

A. Corso: In misura massima. E’ importantissima la cultura di tutti i coristi, dei vice maestri, del maestro, perché è necessario avere molta misura, rispetto per lo stile, rispetto per questi canti, senza voler strafare o debordare. Molti dei coristi – me compreso – hanno fatto studi, anche studi classici – io ho avuto quella fortuna, ho fatto il Liceo classico, ho studiato filosofia, ho studiato l’estetica, ho studiato Benedetto Croce – e questo mi ha insegnato tante cose, tante cose su che cosa è valido e su che cosa è invece cerebrale. Tutto sommato noi siamo dei romantici. Il Coro Monte Cauriol è formato da persone romantiche, cioè che credono che la musica non sia altro che un’espressione dell’umanità, dell’uomo: cosa c’è dentro quello che scrive, che canta, che suona, che dipinge. I suoi pensieri, i suoi sentimenti. Quando io sento un coro e dico «Ah come sono tecnicamente bravi», la cosa finisce lì. Ma ci sono stati dei cori oggi – non mi vergogno a dirlo – che mi hanno fatto piangere. Ma non tutti, alcuni. Sanno esprimere l’umanità che hanno dentro. Forse questa è la chiave più importante per fare queste cose

[Choraliter, n. 32, Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2010]

Armando Corso




F. Mingozzi: “Sul Rifugio”, Coro MONTE CAURIOL – A. Corso, direttore
Armando Corso è nato a Genova il 25.2.1929, ha conseguito la laurea in Ingegneria Meccanica e Navale nel 1954. Assunto all’Italsider nel 1955, alla Segreteria Tecnica della Direzione.
Nel 1960 Dirigente del servizio Ricerca Operativa.
Nel 1967 Vice Direttore Organizzazione della Produzione e Ricerca Operativa.
Nel 1968 Vice Direttore “ad interim” della Produzione Aziendale. Nominato in seguito Direttore Centrale.
Nel 1971 passato alla Direzione Studi dell’Italimpianti, nella quale ha creato il nucleo di Ricerca Operativa.
Nel 1975 Direttore Pianificazione e Sviluppo dell’Italimpianti (salvo una parentesi per organizzare la nuova Direzione Relazioni Esterne). Ad interim, nel 1986, Assistente all’Amministratore Delegato dell’Italimpianti
Nel 1987 anche Presidente della Nuova Mecfond di Napoli.
E’ stato per 5 anni Presidente nazionale dell’AIRO (Ass. Ital. di Ricerca Operativa).
E’ stato Vice Presidente nazionale dell’ANIPLA (Ass. Italiana per l’Automazione).
E’ stato membro di Consigli Direttivi di numerose associazioni scientifiche, fra cui l’Associazione Nazionale di Impiantistica (ANIMP) e quella di Letture Scientifiche di Genova.Libero docente in Ricerca Operativa, incaricato stabilizzato di “Metodi di Conduzione Aziendale” dal 1967; superato l’esame di idoneità, nel 1988 ha preso servizio come professore associato di “Sistemi di controllo gestionale” e dal 1991 anche di “Economia ed Organizzazione Aziendale”presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova. A queste materie sono state aggiunte le due seguenti per i diplomandi: “Sistemi Organizzativi” (per il Polo di Savona della Facoltà) e “Organizzazione della produzione e Logistica”.Nel 1993 è stato Direttore Responsabile della Rivista Scientifica “IMPIANTISTICA ITALIANA”. Ha diretto dallo stesso anno al 2003 tutti i corsi organizzati dall’ANIMP sul territorio nazionale.
Ha pubblicato una cinquantina di lavori scientifici.Armando Corso agisce nel campo del jazz dal 1947. Ha inciso con Albert Nicolas, Bobby Hackett e vari complessi nazionali; ha suonato in numerosi concerti e festival in Italia e all’estero, con molti fra i maggiori jazzisti stranieri. Tra essi citiamo Max Kaminsky, Bud Freeman, Bill Coleman, Wild Bill Davison, Billy Butterfield, Eddie Miller, Oscar Klein, Bennie Morton, Louis Nelson e Joe Venuti.Fondatore e direttore, dal 1949, del Coro “Monte Cauriol”, dal 1980 al 2002 del Coro “Cinque Terre”, dal 1982 al 2002 dei “Mississippi Minstrels” e dal 1989 al 1998 del “Trio Vaudeville”, dal 2002 del “Mississippi Mainstream Group”. Nel 1993 ha formato un Duo Pianistico con Ljuba Pastorino, poi col figlio Massimo Corso, e dal 2003 con la violinista Lucia Tozzi.Esegue concerti solista di pianoforte e di fisarmonica.

E’ stato insignito dei seguenti Premi al merito musicale: Castello d’oro (Conegliano Veneto 1973), La Bollente (Acqui Terme 1990), Rigo Musicale (Adria 1990), Diapason d’argento (Lodi 1992), il Caravaggio (1997).

Già membro del Consiglio Direttivo e Presidente della Commissione Artistica della Associazione Cori Liguri. Ha Fatto parte della Commissione Artistica della FE.N.I.A.R.CO (Fed. Naz. Associazioni Regionali Corali). Dal 2002 è “Probo Viro” della stessa FE.N.I.A.R.CO.

E’ stato membro di giuria a molti concorsi nazionali corali, a Ivrea, Adria, Genova, Savignone, S.Daniele del Friuli, ecc.

Ha vinto il premio di poesia indetto dall’Ordine del Cardo per il componimento “Un canto di montagna”.
Di lui sono state pubblicate recentemente alcune poesie, ed altre sono in corso di pubblicazione.

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Marco Crestani – in memoriam

A pochi giorni dalla scomparsa di Marco Crestani, riprendo, in suo ricordo, l’articolo con cui avevo tracciato un breve profilo del musicista vicentino. Quello scritto è comparso nel 2003 all’interno del N.81 della rivista Musica Insieme, il periodico dell’ASAC, l’Associazione corale del Veneto. Ma ora che il Maestro non c’è più, sento la necessità di integrare quelle parole con annotazioni sul temperamento della persona, che ho avuto modo di apprezzare direttamente.

Gli studi e la passione per la Musica corale hanno orientato Marco Crestani a privilegiare il coro come strumento ideale, attraverso il quale realizzare le diverse attività che hanno contrassegnato la sua carriera musicale: compositore, direttore di coro e animatore del movimento corale.

Il percorso rappresentato dalla sua notevole produzione per le varie formazioni corali segue, in parallelo, le tappe più significative dell’evoluzione storica e della crescita qualitativa della coralità italiana e veneta in particolare.

Tra i primi esiti significativi del mestiere di Marco Crestani vanno menzionate le numerose raccolte di armonizzazioni ed elaborazioni di canti popolari italiani e stranieri, realizzate con lo scopo di assecondare la richiesta dei tanti cori amatoriali che hanno dedicato il loro repertorio al canto di montagna e più in generale popolare. AI musicista marosticano va riconosciuto il merito di aver contribuito in modo significativo, assieme ad altri autori veneti (tra i quali ricordiamo De Marzi, Bon, Malatesta), alla definizione di una prassi e di uno stile corale di riferimento nel trattamento del folclore musicale. In particolare, Crestani si differenzia per l’innesto di canti scelti da tradizioni diverse, soprattutto sarda e occitana. Indimenticabili gli arrangiamenti di Triste ei lo cèu, Tristu Passirillanti, Pasci, Angionedda e Hava nagila.

Marco Crestani sapeva entrare nella sede di un coro amatoriale alpino con l’immediatezza di chi ha familiarità con quelle persone e quell’ambiente. Una volta consumato il rito della captatio benevolentiae con un paio di battute da caserma, entrava nel merito di quel genere di canto che frequentava fin dalla giovinezza e di cui conosceva a menadito le coloriture espressive. Era stato il fondatore del Coro CAI di Marostica e aveva successivamente diretto il Coro Monte Grappa di Bassano. Scudisciava le pigre ugole dei cantori con l’impeto di un capitano degli Alpini. Ad ascoltare il brano E gira che te gira – sua libera invenzione sulla falsariga dei canti alpini – si coglie fino a che grado di autenticità egli avesse introiettato quel modello canoro e quello stile corale.

La formazione organistica e gli incarichi ricoperti nelle chiese hanno inevitabilmente condotto Crestani a confrontarsi con la musica liturgica. Anche su quello che pur rimane un terreno minato (almeno dal Concilio Vaticano Il ad oggi), egli si è mosso con perizia, confezionando pagine in cui l’immediatezza e la semplicità del canto non risultano svilite a livello di facilità e banalità, ma conservano un certo grado di decoro musicale ed ispirazione spirituale.

Un fraterno legame di amicizia lo univa al collega padre Terenzio Zardini. Forse in virtù di questo, si sentiva al riparo dall’accusa di irriverenza, quando si lanciava in infuocate invettive contro l’insipienza musicale delle gerarchie ecclesiastiche. Monsignori, preti e sacrestani chitarristi non la scampavano.

In sintonia con la valorizzazione di repertori più impegnati, di cui si sono fatti promotori molti cori di buon livello di impostazione polifonica classica, la produzione di Crestani tende ad assumere, negli ultimi decenni, connotati più colti: prevalgono, quindi, composizioni che fanno riferimento a grandi autori della modernità (Kodaly, Hindemith), senza però dimenticare la lezione dei sommi polifonisti del passato e del Canto gregoriano, origine della vocalità occidentale. La scrittura lineare, l’autonomia delle voci e la ricerca di giochi contrappuntistici e ritmici, prevalgono ora sugli aspetti armonici e timbrici. Queste le premesse che motivano la composizione dei brani più riusciti per complessità e originalità di ispirazione (Rex autem David, Antiphonae, Sequentia Paschalis, Enfant, si j’etais roi, Les compagnons), che hanno contribuito all’ottenimento di importanti riconoscimenti in campo nazionale ed internazionale.

«Posso, Mauro, farmi un regalo per i miei 70 anni?!». Così sembrava giustificarsi, allorché mi annunciava l’intenzione di pubblicare Momenti di polifonia sacra e profana. Un CD monografico caparbiamente autoprodotto, che sanciva un affrancamento dalle forme corali generalmente considerate meno avvaloranti. Lo preoccupava l’apprezzamento di musicista a tutto tondo, che sapeva esprimersi parimenti nei generi alti e bassi.

La professione di insegnante, esercitata, per lo più, ricoprendo il ruolo di Cultura musicale generale presso il Conservatorio di Verona, oltre a consentirgli di mantenere vivo il contatto con le giovani generazioni, ha tenuto desta la sua attenzione per le problematiche della didattica musicale; nel campo prediletto della musica corale, egli ha prodotto numerosi lavori (destinati soprattutto ai cori di bambini), che testimoniano questo particolare aspetto della sua sensibilità.

Quanti docenti (giovani, troppo giovani profeti!) sperimentano nelle classi di armonia didattiche rivoluzionarie e personali; improbabili, quanto inutilmente complicate metodologie di analisi; astruse ricostruzioni dei modelli armonici. Il tutto sulla pelle ancora delicata di imberbi studenti. Marco Crestani aveva, invece, il dono della chiarezza e della semplicità nello spiegare le fondamenta del linguaggio musicale occidentale. Un “maestro elementare” come non se ne trovano più. Faceva il suo mestiere con l’umiltà e con l’orgoglio di chi si fa carico di trasmettere ai principianti i rudimenti con limpida intelligibilità. «Fai i complimenti a chi ti ha insegnato in modo così chiaro la teoria armonica», mi disse Renato Dionisi alla prima lezione di composizione musicale.

Marco Crestani fu musicista appassionato del coro e della sua dimensione educativa e socializzante. Ha sempre testimoniato fiducia nei valori dell’associazionismo corale. Ha speso gran parte del suo lavoro, cercando la propria collocazione in questo particolare ambito musicale. Ha scritto di lui Marco Materassi: «Una trasparente sincerità d’espressione e una solida coscienza artigianale del comporre come “servizio” reso alla musica, e nello specifico alla coralità e ai suoi cultori, appaiono essere i tratti unificanti  […] di Marco Crestani».

La fisionomia di Marco Crestani mi ricordava i lineamenti di Arnold Schönberg. Entrambi avevano un volto severo, ma gli occhi furbetti e le sopracciglia incidevano sull’ampia fronte di Crestani curvature scherzose e beffarde, tracce delle storielle d’ogni genere che sapeva raccontare con spirito irresistibile, meglio di chiunque altro. «Dài, Maestro, ‘naltra barzeleta!»

[Choraliter, n. 32, Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2010]

Marco Crestani nel 1954, direttore del Coro CAI di Marostica




M. Crestani, “E gira che te gira”, Coro PICCOLA BAITA di San Bonifacio

Marco Crestani (1926-2010) è nato nell’Altopiano di Asiago, in comune di Conco, l’11 settembre 1926. Ancora in giovanissima età si trasferisce con la sua famiglia a Marostica. All’età di 9 anni, spinto dalla passione del padre per la musica, inizia i suoi primi studi d’organo.
Viene assunto da subito in qualità di organista titolare della chiesa arcipretale di S. Maria Assunta dove resterà fino al 1959.
Il suo primo insegnante, il M. Bevilacqua di Bassano del Grappa, lo prepara a sostenere il primo esame presso il Conservatorio di musica di Bolzano e, in seguito, lo consiglia di rivolgersi ad altri maestri poiché lui “non ha più nulla da insegnargli”. Nel frattempo compie gli studi di ragioneria a Bassano prima e a Vicenza poi.
Nel 1945, al termine della guerra, si iscrive al Conservatorio di musica “Benedetto Marcello” di Venezia, diretto allora da Gianfrancesco Malipiero: vi rimarrà per 11 anni, conseguendo i diplomi di composizione, pianoforte, organo e composizione organistica, musica corale e direzione di coro. Lo guidano insegnanti di fama: Gabriele Bianchi per la composizione; Sandro Dalla Libera, famoso organista e redattore di testi organistici, per l’organo; Sante Zanon, direttore del coro del Teatro “La Fenice”, per la musica corale e direzione coro; e il noto pianista Gino Tagliapietra per il pianoforte.
La sua preparazione musicale gli vale l’apprezzamento dei suoi rispettivi insegnanti, testimoniato da alcune loro lettere indirizzate al direttore d’orchestra Yohn Barbirolli il quale, a quel tempo, cercava giovani insegnanti per l’istutuendo Conservatorio di Brisbane in Australia.
L’attività di direttore di coro di Marco Crestani inizia con la fondazione del coro “Monte Grappa” dei CAI Marostica, l’attuale Coro Bassano. Saranno 10 anni di proficuo lavoro e di meritati successi che porteranno il gruppo corale ad un alto grado di preparazione musicale tanto da renderlo famoso in Italia e all’estero. Il coro Monte Grappa si esibirà in diverse città italiane e straniere, cantando alla radio italiana e svizzera, nonché alla televisione, allora ai suoi primi passi. Il buon nome di Marostica valica così i confini territoriali non solo per merito dell’entusiasmo e della seria preparazione del coro stesso ma anche grazie alla manifestazione folkloristica de “La Partita a Scacchi” (v. marosticascacchi.it) di cui il M. Crestani sarà valente collaboratore per le musiche.
Nel 1959 lascia Marostica per approdare in Sardegna, dopo aver vinto il concorso per l’incarico di titolare della Cattedrale di Sassari, posto che occuperà fino al 1970.
In questa città, oltre all’impegno del servizio liturgico, viene chiamato a dirigere la corale polifonia “Luigi Cànepa” con la quale farà diverse tournèe in Europa (Debrecen, Budapest, Berna, Le Locleville, La Chaux de Fonds, Llanghollen); in particolare, nel 1965, a Budapest, il coro si è esibito alla presenza del grande compositore ungherese Zoltan Kodaly che esprimerà un apprezzamento lusinghiero sia per le qualità vocali ed espressive del coro sia l’interesse verso alcuni canti sardi proposti. Con lo stesso coro il M. Crestani collabora con diversi direttori d’orchestra nel campo della lirica in diverse stagioni teatrali in Sardegna.
Come organista si esibisce in varie città italiane ed estere, suonando anche per conto della RAI italiana, per radio Monteceneri (Svizzera) e per la radio austriaca di Vienna. Ha fatto parte, sempre in qualità di organista, del gruppo strumentale “Ottoni di Verona” col quale ha partecipato al festival internazionale di Magadino (Svizzera) e alla commemorazione di Andrea e Giovanni Gabrieli nella Basilica di San Marco a Venezia; ambedue queste manifestazioni sono state trasmesse dalle rispettive reti radiofoniche. Ha in seguito diretto il complesso strumentale veronese “Organa et bucinae” formato da due trombe, due tromboni e organo.
In qualità di compositore si è dedicato quasi esclusivamente alla musica corale. Le sue composizioni (circa 300 lavori di carattere sacro e profano) sono eseguite da svariati complessi corali italiani e stranieri e molte sono incise.
Ha partecipato parallelamente a numerosi concorsi nazionali e internazionali di composizione corale sempre con lusinghieri successi che gli hanno permesso di far conoscere ed apprezzare il suo nome in questo campo. Ha al suo attivo circa una ventina di riconoscimenti ufficiali di premi vinti in vari concorsi (vedi concorsi).
Molte delle sue composizioni sono state inoltre pubblicate dalle più importanti case editrici musicali come la Ricordi, la Suvini-Zerboni, la Zanibon e la Carrara (vedi pubblicazioni). Ha collaborato con La Cartellina anche in qualità di scrittore.
Ha fatto parte di giurie in varie competizioni corali (Arezzo, Gorizia, Trento, Trieste, Vittorio Veneto) ed è stato membro della Commissione artistica dell’USCI di Roma per tutti i cori italiani. Attualmente, fino alla sua scomparsa, faceva parte della Commissione artistica dell’ASAC per tutti i cori del Veneto.
Ha insegnato presso i Conservatori di musica di Sassari, Cagliari e Verona.
Ormai da anni ritirato dall’insegnamento e residente a Marostica ha sempre continuato a scrivere musica e ad incontrare musicisti, studenti e ammiratori di ogni dove. Marco Crestani si è spento il 1 luglio del 2010 in seguito alla malattia che lo costrinse immobile negli ultimi anni della sua vita.

Concorsi vinti:
Pieve di Cadore (1954/55/56), Varese (1956), Roma (1968), Lecco (1972), Bergamo (1976), Carrara (1977), Loreto (1981), Trento (1982/86/88), Tours (1983/86), Codroipo (1984/86), Verona (1985), Vaison-la-Romaine (1992)

Case editrici che hanno pubblicato i suoi lavori:
Ricordi, Suvini-Zerboni, Zanibon, Carrara, Ares, Incas, Eco, Porfiri & Horváth, A Cœur Joie, Crestani (autopubblicazioni)
Diversi pezzi sono pubblicati anche per varie riviste corali fra le quali: Fondazione Guido d’Arezzo, ASAC, La Cartellina (Carrara).

Incisioni (principali):
– Coro Monte Grappa, registrazione storica del concerto di Sandrigo, Vicenza – Reg. privata, 1958
– I canti dei nostri alpini, Gruppo Corale “Monte Grappa”, dir. Antonio Piotto, contenente un paio di arrangiamenti di canti alpini e il brano E gira che te gira) – EMI / emidisc, 1963
– Momenti di polifonia sacra e profana, con il Coro città di Rovigo (dir. Giorgio Mazzucato) e il Gruppo corale polifonico Isola Vicentina (dir. Pierluigi Comparin) – Ed. privata, 1996

Onorificenze ricevute:
– Rigo musicale del Comune di Adria per la ricerca, la diffusione e lo sviluppo del canto corale italiano.
– Premio speciale alla carriera, dell’ASAC (Associazione per lo Sviluppo delle Attività Corali del Veneto), con la motivazione di essere un “grande protagonista della coralità veneta”.
– Riconoscimento per i 60 anni di attività del Coro Bassano (ex coro Monte Grappa) sotto l’egida del Comune di Bassano del Grappa e del Comune di Marostica.

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Marco Berrini – intervista

M. Zuccante: Caro maestro Marco, a te il compito di aprire il nuovo spazio che la rivista Choraliter intende riservare al mestiere del direttore di coro. Un’arte alla quale ci si appassiona per motivi diversi. Vuoi riassumere brevemente quali sono stati, nel tuo caso, i fattori stimolanti?

M. Berrini: Senza alcun dubbio, voglio anzitutto ricordare l’incredibile esperienza che è stata per me cantare in un coro. Ho iniziato molto presto come voce bianca, proseguendo senza interruzioni di sorta anche dopo la muta della voce, fino a occupare, precocemente e con una buona dose di incoscienza, il ruolo di direttore. Sono di fatto cresciuto, anagraficamente e musicalmente, in un coro, che quasi per gioco mi sono trovato un giorno a dirigere. Un’esperienza della quale soltanto a posteriori ho capito la reale portata e la fondamentale incidenza sul mio essere musicista, tanto da ritenerla oggi l’unica veramente formativa a livello musicale. Consiglierei di anteporla a qualunque studio strumentale e di coltivarla comunque parallelamente, anche dopo aver scelto di specializzarsi in un qualsiasi strumento. Sì, ogni musicista dovrebbe poter includere nel proprio percorso formativo un’approfondita esperienza corale.

M. Zuccante: Tra le altre competenze, alla base della tua professionalità c’è una preparazione pianistica notevole. Posso affermare ciò perché ti ho ascoltato suonare il pianoforte con estrema disinvoltura. Quanto e in che circostanze ti facilita questa abilità nell’esercizio di dirigere il coro?

M. Berrini: Lo studio del pianoforte è stata una diretta conseguenza dell’esperienza corale: cantare provocava in me un tale piacere da chiedermi un ulteriore avvicinamento alla musica. Il pianoforte e l’organo sono stati, pertanto, i miei primi contatti con uno strumento e con una letteratura diversa da quella vocale. La pratica e l’approfondita conoscenza della tastiera mi sono infatti di aiuto in molte circostanze: dalla lettura delle partiture, al momento di studio con le formazioni vocali, nelle audizioni e nel lavoro con i cantanti. Mi rende autonomo e indipendente nel mio lavoro e questo è tanto utile quanto piacevole per me. Quindi se da un lato studiare approfonditamente uno strumento ha significato in realtà tornare alla mia passione iniziale per il canto con maggiore competenza e consapevolezza, dall’altro questo mio primario contatto con la voce si è rivelato e si rivela determinante anche quando suono o dirigo un’orchestra. Cerco sempre di portare nella pratica pianistica e strumentale quel bisogno di respiro che troppo spesso manca a chi suona uno strumento. La necessità del respiro (che nel canto e nell’espressione verbale diviene irrinunciabile veicolo di intenzioni espressive) è bisogno primario della musica come lo è per l’esistenza stessa dell’esecutore. L’assenza di respiro in musica uccide la musica stessa, come l’assenza del respiro è prerogativa di un corpo morto. Non è facile, da semplici strumentisti – figli della scuola italiana – capire di primo acchito questo postulato se non si ha una solida esperienza vocale alle spalle. Nella pratica strumentale, tutto rimanda alla voce e all’atto del cantare: i primi a capirlo furono, secoli fa, i trattatisti che hanno codificato nei loro testi informazioni e indicazioni mediandole dalla coeva pratica vocale, ossia usando la voce come modello per le istanze del nuovo idioma strumentale. Molte volte mi sono trovato a chiedere ai miei studenti di conservatorio (ottimi strumentisti, ma privi per formazione di qualunque esperienza vocale) cosa significasse per loro il termine cantabile col quale spesso si trovano a confrontarsi nella loro pratica strumentale; bene, la risposta è sempre stata univoca: «Cantabile deve essere qualcosa che attiene al cantare, che avvicina il mio far musica al modo del canto». Ma la risposta non è mai arrivata quando replicavo: «Ma per te che non hai mai cantato e sei in procinto di conseguire un diploma, cosa significa cercare sul tuo strumento un suono che attenga al cantare»? Paradossale, ma vero!

M. Zuccante: Nei concerti da te diretti, ai quali ho avuto il piacere di assistere, mi ha sempre colpito la cura riservata all’articolazione della parola. Ho l’impressione che nelle tue interpretazioni il disegno della frase musicale scaturisca da un minuzioso lavoro di limatura fatto attorno alla singola parola. Condividi?

M. Berrini: Ti ringrazio molto per questa tua osservazione, che mi rende molto felice perché rende giustizia a quella che è la mia idea fondamentale del far musica con la voce, con il coro: chi canta, canta la parola! E anche in questo, lo scontro con i presupposti dello studio accademico, si fa ruvido. Ci hanno sempre insegnato a “leggere le note e a suonarle tutte esattamente intonate e a tempo” (presupposto sicuramente imprescindibile), quasi che la fedele e corretta riproduzione dei suoni possa esaurire in sé stessa il nostro rapporto di interpreti con l’opportunità semantica che il codice scritto ci offre. Per chi fa musica con la voce, la parola rappresenta quel che può trasformare la pagina che avviciniamo, silenziosa e ferma nella sua staticità grafica, in un veicolo di comunicazione espressiva, in un medium tra sé e gli altri. La parola è già musica: lo diceva già Cicerone parlando del cantus obscurus; in essa già convivono tutti quegli ingredienti che la rendono espressione musicale per eccellenza (altezza dell’intonazione, ritmo, opportunità timbrica, intenzione espressiva … ). E la prerogativa che connota la parola, l’accento, non ha forse un’etimologia (ad cantus, verso il canto) che lo lega intimamente all’atto del cantare? L’accento è il canto della parola stessa, è la sua naturale intonazione, e questa deve mantenersi altrettanto espressiva in musica. Quando il compositore ha saputo rendere giustizia alla parola, dipingendola con un gesto grafico che asseconda il suo corretto modo di pronunciarla, è compito della sensibilità dell’interprete lasciar risuonare la sua intrinseca e connaturata musicalità nel suono che emette. Perché, domando sempre ai direttori con i quali ho il piacere di confrontarmi, pur riconoscendo un valore espressivo e musicale alla parola e non potendo fare a meno di sentire la grande potenza espressiva della musica che la riveste, alla fine riusciamo a far sì che la feconda unione di parola e suono risulti sterile, monocorde? Forse il condizionamento stilistico di certe esecuzioni d’oltralpe pesa sulle nostre idee …

M. Zuccante: Nella tua carriera hai avuto modo di spaziare nei diversi generi della musica corale e di eseguire musiche di autori di epoche diverse. Ma qual è il repertorio dove ti senti più a tuo agio e dove pensi di saper esprimere al meglio la tua sensibilità artistica?

M. Berrini: Agli inizi della mia attività di direttore ho indirizzato le mie scelte verso la letteratura del periodo rinascimentale e barocco, anche in ragione del fatto che il gruppo con cui lavoravo in quel periodo non mi consentiva di avvicinarmi consapevolmente e con cognizione di causa da un punto di vista tecnico e musicale ad altri repertori. Ho sempre creduto, e ancor oggi lo credo fermamente, che i propri desiderata di interprete musicale vadano consapevolmente filtrati e mirati sulle reali potenzialità del gruppo di cui si dispone. In quegli anni, davvero fecondi per lo studio, il lavoro di formazione con Domenico Zingaro e di approfondimento con Giovanni Acciai ha contribuito in maniera sostanziale a strutturare il mio pensiero di interprete. Oggi ho il piacere di poter avvicinare letterature corali di epoche diverse: la formazione che dirigo me lo consente e credo che, nel tempo, anche io sia cresciuto con loro. Resto sempre però particolarmente attratto e stimolato dalla letteratura più antica, anche perché la lunga e intensa frequentazione della stessa mi ha aiutato a leggere e interpretare meglio quel che è seguito. In ogni caso, quale che sia l’autore e il periodo da affrontare, cerco sempre di pormi in modo intellettualmente onesto di fronte alla pagina da interpretare, e solo dopo aver dedicato cura e tempo all’analisi e allo studio della partitura lascio che le istanze estetiche e stilisti che di un linguaggio musicale risuonino in me: la pagina musicale parla all’interprete che umilmente si predispone ad ascoltarla.

M. Zuccante: Una performance corale prevede varie fasi di lavoro. Dico le più importanti. Lo studio della partitura, l’istruzione delle sezioni del coro, la concertazione, l’esecuzione vera e propria. In quale momento concentri l’impegno maggiore? Vien da pensare che un coro ben addestrato possa cantare senza direttore. Eppure, c’è chi considera irrinunciabile il gesto del direttore, anche (o soprattutto) in concerto. Come la pensi?

M. Berrini: Il cammino che porta dalla scelta di un brano, al suo studio individuale e corale, alla concertazione e infine alla esecuzione è una sorta di cammino di iniziazione. Il primo a dover essere “iniziato” al significato della musica da eseguire è proprio il direttore. Prediligo pertanto uno studio molto approfondito della pagina da eseguire; questo mi aiuterà a condurre con più facilità il gruppo che con me dovrà condividere l’esperienza musicale lungo le strade della comprensione del brano. Una comprensione che dovrà nutrirsi di cognizioni storiche, estetiche, tecniche, vocali, corali. .. Il coro deve conoscere, comprendere e condividere i percorsi interpretativi del direttore, che si esprimono – durante le fasi di lavoro collettive – attraverso un uso sapiente della parola parlata, un uso ancor più intenso ed efficace della parola cantata nelle esemplificazioni vocali, in un gesto che istante dopo istante diviene sempre più visualizzazione del pensiero, non mera pulsazione metronometrica avulsa da quel dire espressivo che abita il suono. Un coro tecnicamente ben addestrato può arrivare a cantare senza un gesto direttoriale accademicamente inteso, ma può ugualmente non poter fare a meno di aver di fronte quella figura che nel momento della esecuzione è solo e semplicemente promemoria visivo di un percorso di iniziazione, condiviso e compreso, al di là del gesto chironomico. Il gesto del direttore può arrivare a sganciarsi da tutti i presupposti tecnici che lo abitano per divenire, nel momento della esecuzione, “medium” di una comunicazione, unica, intima ed esclusiva, con il coro che ha di fronte. È un gesto d’amore.

M. Zuccante: Il tuo palmarès è ricco di successi ottenuti in concorsi nazionali ed internazionali. Credo che in primis sia doveroso ricordare la splendida affermazione del 2003 all’Internazionale di Arezzo. con il conseguimento del Gran Prix. Vuoi raccontarci le emozioni di quei giorni.

M. Berrini: Il ricordo di quei giorni, e di quelli che gli sono seguiti riporta alla mente emozioni molto forti, anche contrastanti fra loro. Ripenso senz’altro in prima istanza al lavoro condiviso con il coro e ai brillanti riconoscimenti ottenuti, ma anche a un certo malsano clima della coralità italiana, che dietro a luminescenti vetrine nasconde, a volte neanche troppo, grandi povertà …

M. Zuccante: A giudicare dai tuoi impegni ti occupi molto di formazione. In forma stabile od occasionale, tieni corsi, stages e masterclass per direttori di coro in varie località italiane e straniere. Mi incuriosisce sapere se, dopo anni di questa attività, riconosci la tua impronta in qualche giovane direttore; insomma, se, come si dice, pensi di aver fatto scuola.

M. Berrini: Non è mai stato un mio obbiettivo quello di creare una “scuola di pensiero”. Sicuramente ci sono persone a me più vicine, con le quali oggi vivo lo stupore fecondo di un rapporto di discenza trasformato in vera amicizia, e che in maniera più diretta di altre hanno condiviso con me esperienze formative, didattiche e musicali forti e caratterizzanti, che oggi si riconoscono, come me, entro i confini di una determinata linea di pensiero musicale e più in generale di una idea del “far coro”. Mi preme comunque dire, che ho ricevuto moltissimo in ogni esperienza corsuale che ho avuto il privilegio di condividere con cantori e direttori: la mia crescita è passata prepotentemente anche attraverso questi incontri, nei quali il desiderio di approfondimento e conoscenza dei discenti è indiscutibilmente diventato uno stimolo per il sottoscritto.

M. Zuccante: Una questione spinosa. Ho assistito lo scorso anno alle selezioni per il Premio Nazionale delle Arti, riservato ai cori di conservatorio. Francamente, c’è stato poco da entusiasmarsi per il livello espresso dalle compagini che si sono esibite. Approfitto pertanto della tua schiettezza e del tuo ruolo di docente di esercitazioni corali, per chiederti i motivi per cui, all’interno dei conservatori italiani (cioè dei luoghi deputati all’alta istruzione musicale), stentano a formarsi gruppi corali di valore e di riferimento.

M. Berrini: Rispondo a questa domanda con la curiosità di chi verrà a contatto (in qualità di membro della commissione di ascolto) per la prima volta alla fine di questo mese di aprile con questa esperienza concorsuale nella quale vengono coinvolti i cori dei conservatori italiani. Lavoro ormai da un ventennio nei conservatori italiani e posso solo dire una cosa a questo riguardo: come per tutte le esperienze concrete della vita, quando accade (o non accade) qualcosa c’è sempre qualcuno che vuole che sia così. Nei conservatori italiani non ci sono cori? Quelli che ci sono non cantano o esprimono un livello decisamente basso? La risposta a questi interrogativi è presto data. Gli studenti dei conservatori italiani non hanno nulla da invidiare a nessuno studente di nessun altro conservatorio europeo. Dobbiamo soltanto porci con estrema franchezza alcune domande: in quale misura la gestione didattica dei conservatori italiani (e sto parlando in modo concreto, pensando ai direttori) promuove la coralità in seno al conservatorio? Obbligando gli studenti a un numero irrisorio di anni di frequenza alla classe di esercitazioni corali, in un momento della vita formativa dello studente che è magari non è neanche fisiologicamente idoneo (leggi, per le voci maschili: quello della muta della voce)? Esonerando gli studenti delle classi di canto a partecipare alle lezioni di esercitazioni corali? Ebbene sì, i cantanti vengono esonerati perché l’attività corale “danneggia il loro strumento” … Continuiamo pure a creare degli illusi! Coloro i quali dovrebbero far tesoro di una esperienza didattica che potrebbe essere – nel loro poco roseo futuro – l’unica valvola di sfogo per poter continuare a far musica dopo lo straccio di diploma che verrà loro rilasciato, vengono esonerati dalla stessa! Ma lo sanno questi cantanti che chiedono esoneri a raffica presentando false certificazioni mediche (se ci fosse lo spazio avrei una letteratura in proposito … ) che alcuni fra gli attuali più grandi cantanti al mondo (facciamo solo un paio di nomi: Anne Sofie von Otter, mezzosoprano svedese, e Brin Terfel, baritono gallese) provengono da qualificatissime esperienze corali? Ma forse, in Svezia e in Scozia, la voce ai cantanti che studiano non si rovina come in Italia! Che dire poi, quand’anche non ci si imbatta in situazioni come quella sopra descritta, delle scelte di repertorio delle classi di esercitazioni corali? Gli studenti dei conservatori italiani devono cantare, devono frequentare la pratica vocale come un nutrimento formativo per la parallela pratica strumentale: la voce, il coro, deve tornare – anche qui da noi – a essere un punto centrale del progetto formativo. I giovani che frequentano i conservatori italiani vanno formati alla coralità dalla base, con le difficoltà che si incontrano solitamente lavorando con un coro di dilettanti: hanno poca esperienza nella lettura cantata (mi esimo dall’esprimere opinioni sulle competenze acquisite dagli studenti nelle classi di teoria e solfeggio), nessuna esperienza vocale e tantomeno corale; non sono abituati a pensare all’intonazione di un suono come a un fatto legato alla volontà della coscienza … Quindi, in sostanza, cosa fargli cantare? Ma, come per tutte le esperienze della vita, ci sono le “eccezioni che confermano la regola”: laddove in un conservatorio si uniscono lungimiranza e competenza didattica e c’è una volontà “che vuole”, i cori cantano … e bene!

M. Zuccante: Una delle iniziative in cui sei stato di recente particolarmente attivo è quella della conduzione del Coro Regionale Valdostano e, fuori dai confini nazionali, del Coro Nazionale Giovanile Argentino. Forme analoghe di aggregazioni corali attorno a un progetto si ripetono altrove e in diversi contesti. Vuoi brevemente parlarci del senso di queste esperienze?

M. Berrini: L’esperienza del Coro Giovanile Nazionale Argentino è stata incredibile. Una formazione solidissima, formata da giovani tra i 18 e i 29 anni selezionati su scala nazionale e provenienti da tutto il territorio argentino (che conta una superficie pari a cinque volte quella italiana): il meglio del meglio dal punto di vista musicale e non soltanto per la qualità vocale! Ricordo che nei giorni immediatamente successivi alla mia produzione musicale a Buenos Aires (con un repertorio completamente dedicato alla letteratura italiana del ‘900) si sarebbero svolte selezioni nazionali per integrare l’organico alla fine della stagione sarebbe stato privato di un paio di voci per raggiunti limiti di età. Gli iscritti alla selezione per soli due posti erano più di 150! Sì, perché il Coro Giovanile Nazionale Argentino è un coro trattato professionalmente dallo Stato, che stipendia i cantanti che ne fanno parte per tutti gli anni di permanenza nella formazione. Come se non bastasse, in Argentina ci sono anche il Coro Nazionale dei Bambini, il Coro Nazionale dei Ciechi e il Coro Nazionale (degli adulti): anch’essi tutti regolarmente stipendiati. Necessità di commentare? Uno dei paesi al mondo che dopo anni di estrema congiuntura e difficoltà economica sta ora rialzando un poco la testa, ci dà una grande lezione di civiltà. Un intero popolo che canta … e come canta! Un bilancio decisamente positivo è anche quello che posso tracciare dopo la bella esperienza alla guida del primo Coro Regionale Valdostano: 17 cori su 31 hanno aderito all’iniziativa per un totale di 72 cantori abbastanza equilibrati numericamente nella distribuzione fra i registri vocali, soprattutto se si tiene conto della “fisiologica” mancanza di voci maschili. Ricordo ancora l’entusiasmo con il quale fu accolta la proposta dell’iniziativa da parte della commissione artistica e soprattutto del presidente dell’associazione dei cori valdostani, Marinella Viola, che non ha esitato a valutare concretamente la fattibilità dell’operazione. Ghiotta si rivelava poi l’opportunità di far coincidere il primo concerto di questa formazione regionale con il decennale dell’Arcova. Un progetto lungimirante, che spero venga portato avanti in futuro da questa piccola ma operosa associazione regionale; un’opportunità concreta, al di là di tante parole, per far crescere il senso di appartenenza attorno al valore del cantare insieme.

M. Zuccante: Nel tuo lavoro, oltre alla direzione stabile del prestigioso Ars Cantica Choir & Consort, collabori in Italia e all’estero con varie istituzioni corali professionali e non. In virtù di questa privilegiata posizione di osservazione e della tua esperienza, come giudichi le opportunità che si offrono oggi a un giovane che volesse intraprendere il mestiere di direttore di coro? Quali consigli ti senti di dargli?

M. Berrini: Ho il piacere di poter collaborare stabilmente con i cori dei teatri di Siviglia e Malaga, in Spagna, e questo mi ha offerto l’opportunità di confrontarmi con realtà musicali, e di formazione musicale, molto differenti dalla nostra. Gli studenti che si preparano alla professione del direttore di coro, all’estero, godono innanzitutto di una opportunità quasi totalmente negata in Italia: quella di poter studiare, almeno in alcuni momenti della loro carriera di studenti, di fronte a una formazione corale. È risaputo che in Italia al direttore di coro sono offerte pochissime opportunità per studiare con un coro: è incredibile, ma è la realtà, ormai consolidata e confermata da anni. Inoltre il direttore di coro italiano non ha reali sbocchi occupazionali: le formazioni professionali legate agli enti lirici e alle istituzioni sinfoniche usano criteri molto “originali” per la selezione degli eventuali maestri del coro, e comunque sempre senza indire alcuna forma di concorso pubblico; sono pochissime Ce piuttosto blindate anche esse) le istituzioni religiose propense a considerare in modo professionale la figura del maestro di cappella. E poi, in Italia, o sei direttore d’orchestra o non sei nessuno … Quindi le prospettive non sono rosee: una formazione “all’acqua di rose”, nessuna certezza lavorativa concreta nel campo specifico. Ma io mi sento di invitare i giovani e gli appassionati a non mollare. Soffriamo della mancanza di alcune fondamenta culturali a livello musicale (e non solo) che penalizzano pesantemente tutto il settore. A noi direttori di coro sta il compito di lavorare sul territorio, diffondendo quella cultura del far musica in prima persona che sola può recuperare alla musica (quella con la M maiuscola!) il posto che le spetta nella prospettiva culturale del nostro paese; lavorare all’interno di quel fecondo terreno di coltura che sono i cori amatoriali, con dedizione, pazienza, umiltà. facendo crescere una consapevolezza musicale individuale che possa poi esprimersi a livelli sempre più qualificati. Quella della bellezza è la migliore voce per rendere giustizia a chi fa sempre più fatica a farsi ascoltare.

[Choraliter, n. 31 Gennaio-Aprile, Ed. Feniarco, 2010]




Mauro Zuccante, “La Contessina Andreina Viola”, da Tre Piccoli Epitaffi, Coro da Camera del CONSERVATORIO DI ALESSANDRIA – Marco Berrini, direttore
Marco Berrini è Direttore di Coro, Direttore d’Orchestra e Didatta. Ha completato la sua formazione accademica con gli studi musicologici.Vincitore di Primi Premi nei più importanti Concorsi Corali Nazionali e Internazionali, è stato Finalista alla Prima edizione del Concorso Internazionale per Direttori di Coro “Mariele Ventre” di Bologna (2001) dove ha vinto il 3° premio ex-aequo.Dal 1989 al 1992 è stato Maestro Sostituto Direttore del Coro da Camera della Rai di Roma col quale ha effettuato registrazioni per RAI Radio Tre.È direttore artistico e musicale del complesso vocale professionale Ars Cantica Choir & Consort, e fino al giugno 2010 del Quartetto Vocale S. Tecla, formazione professionale del Duomo di Milano; ha fondato e dirige il Coro da Camera del Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria.

Ha diretto in Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Svizzera, Austria, Israele, Argentina, Emirati Arabi.

E’ stato Direttore Ospite al Co.Na.Jo. (Coro Nazionale Giovanile) dell’Argentina e del Coro del Teatro Municipale di Cordoba (Argentina). Collabora in qualità di Direttore Ospite con il Coro del Teatro dell’Opera di Malaga (Spagna), con il Coro del Teatro de La Maestranza di Siviglia e con l’Orchestra e Coro della Comunità di Madrid (ORCAM), (Spagna). Ha curato la pubblicazione di musica vocale per le case editrici Suvini Zerboni, Carrara, Rugginenti, Discantica, BMM, Carisch.

È regolarmente chiamato a far parte della giuria di concorsi corali nazionali ed internazionali e a tenere master di formazione e perfezionamento per cantori e direttori in Italia e all’estero.

Dal 2009 è direttore artistico della Milano Choral Academy, scuola internazionale di formazione perfezionamento per direttori di coro e cantori.

È titolare della cattedra di Esercitazioni Corali (vincitore di concorso nazionale) presso il Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria.

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Mario Mora – intervista

M. Zuccante: Caro Mario, nel ruolo di fondatore e direttore de “I Piccoli Musici” di Casazza, tu hai ottenuto meriti e riconoscimenti assai apprezzabili. Le affermazioni nei più importanti Concorsi nazionali ed internazionali, gli inviti a festival e stagioni concertistiche di prestigio in Italia e all’estero, la partecipazione ad eventi radiofonici e televisivi, le registrazioni discografiche, testimoniano l’alto livello artistico raggiunto dal coro e l’elevata professionalità del tuo mestiere. Alle considerevoli attività che ho citato, vanno aggiunte le collaborazioni nell’ambito di produzioni sinfonico-corali e di allestimenti di opere teatrali. Vorrei circoscrivere la nostra conversazione a questo tipo di impegni, iniziando col chiederti quali sono state le premesse che ti hanno portato a coinvolgere il coro in progetti teatrali di elevata complessità.

M. Mora: Fare musica con i bambini è un’esperienza bella e gratificante ma il lavoro deve essere paziente e proporzionato all’età, deve essere continuativo nel tempo per crescere con il bambino stesso. Nella scuola “I Piccoli Musici” i bambini iniziano la propedeutica a partire dall’età di 4 anni e il canto dai 6 anni come pure la lettura della partitura. Quando arrivano, attraverso i corsi preparatori alla formazione da concerto hanno maturato una buona musicalità e capacità espressiva. Ecco che sono pronti per l’avventura attraverso concerti e incisioni. Dopo anni di attività concertistica ci è stata chiesta, per la prima volta nel 1999, dal Teatro Donizetti la partecipazione alla stagione lirica del Circuito Lombardo con l’opera Carmen di Bizet. Furono nove recite suddivise tra i Teatri Donizetti di Bergamo, Ponchielli di Cremona, Grande di Brescia e Fraschini di Pavia. In un primo momento l’impegno mi spaventò perché le recite erano precedute da undici prove in teatro che richiedevano molto tempo, vista anche la durata dell’opera, pensavo ai rientri a tarda notte dalle varie città, ma fu un’esperienza che i ragazzi seppero affrontare con impegno, responsabilità e soddisfazione e, pur essendo in periodo autunnale, non mancò mai nessuno, nemmeno per i malanni di stagione!

M. Zuccante: Fra gli aspetti tecnici che tu affronti nel preparare il coro a sostenere la sonorità di una grande orchestra e gli spazi del palcoscenico, credo che sia basilare quello della vocalità. Consigli ai tuoi ragazzi delle modificazioni nell’emissione vocale, o la loro impostazione rimane la medesima che utilizzano nei concerti a cappella?

M. Mora: Voglio rispondere a questa domanda raccontando proprio il primo impatto con il direttore d’orchestra alla prima prova della Carmen. Dopo aver eseguito il pezzo di fronte al maestro responsabile del coro misto che aveva apprezzato la bella vocalità e impostazione, alla prima prova con l’orchestra il direttore concertatore fermò il coro e disse letteralmente: «bambini, non dovete cantare così bene, dovete cantare nel naso, siete un coro di monelli…». Io rimasi perplesso, ma pensai che forse chiedeva solo più spontaneità. Infatti già alla seconda prova si complimentò con i ragazzi che non avevano certo cambiato impostazione vocale, ma affrontavano la parte con più disinvoltura. Sono convinto che non esistono tecniche vocali diverse a secondo del repertorio, ma bisogna puntare sempre ad una corretta emissione vocale dei bambini sulla cui base il gusto, la cultura, l’esperienza di chi li istruisce potrà differenziare i diversi stili per il raggiungimento di risultati esecutivi desiderati. I bambini in teatro possono essere sì carini e divertenti, ma ancor più possono essere bravi artisticamente.

M. Zuccante: Una robusta padronanza vocale (che certamente non manca al tuo coro), è sufficiente per affrontare le insidie del palcoscenico, o essa va sostenuta da un’altrettanto solida preparazione musicale? Immagino che i tuoi ragazzi sappiano assecondare immediatamente le richieste del direttore, grazie alle loro competenze e alla maturità musicale generale che possiedono.

M. Mora: Grazie al costante lavoro settimanale durante l’anno con prove a sezioni e insieme, oltre alle lezioni di solfeggio, indipendenti dalle lezioni di coro, i ragazzi raggiungono una buona elasticità musicale, pronti ai cambi di tempo e di dinamiche che eventualmente il direttore concertatore in teatro può richiedere.

M. Zuccante: Il compito del maestro del coro in teatro è alquanto ridimensionato, poiché le scelte interpretative spettano prevalentemente al direttore d’orchestra. Credo, inoltre (ma dimmi se sbaglio), che a volte il tuo lavoro di rifinitura e cesello sul suono e sul fraseggio, sia stato vanificato da successivi interventi grossolani. Quali sono stati, finora, i tuoi rapporti con i direttori d’orchestra? Hai incontrato qualche direttore che si è dimostrato particolarmente sensibile nel valorizzare le potenzialità espressive del coro di bambini sulla scena?

M. Mora: Credo di essere stato fortunato perché ho sempre apprezzato quanto è stato richiesto ai ragazzi e come questi hanno risposto, sia nella partecipazione in opere di grande formazione scenica, sia nelle opere per bambini, come pure in opere sinfoniche. È chiaro che in teatro la preoccupazione maggiore è quella della sonorità e questa ricerca va a discapito delle sfumature e dell’inflessione della voce, ma diversi direttori come ad esempio Riccardo Chailly apprezzavano del mio coro la voce chiara, il suono morbido, l’intonazione. Helmut Rilling invece con l’orchestra della Rai per la Passione secondo Matteo di Bach, voleva un coro di 30 maschi. La direzione artistica dell’orchestra rispose che in Italia era difficile trovare un coro di soli maschi… alla prima prova mi chiese di far cantare ai miei ragazzi il primo corale a voci scoperte, ma dopo solo due battute disse senza tanti complimenti: «bella pronuncia e bel suono, proviamo con l’orchestra».

M. Zuccante: Negli allestimenti teatrali il regista impone la sua visione dello spettacolo. Egli rappresenta un’altra figura con la quale il maestro del coro deve collaborare e con il quale deve trovare un compromesso tra le esigenze musicali e le posizioni e i movimenti sulla scena. Quale è la tua esperienza in merito?

M. Mora: Ho conosciuto dei registi molto validi che hanno veramente saputo trasformare i ragazzi. Alcuni coristi sono stati subito spontanei e disinvolti sulla scena, ma altri hanno fatto più fatica e devo dire che veramente il regista ha saputo far emergere qualità che nemmeno il ragazzo stesso conosceva! Anche per questo è un’esperienza educativa, ho visto sorridere chi, nei rapporti di tutti i giorni non sorride quasi mai o anche realizzarsi chi all’apparenza sembra timido ma si è ben lasciato coinvolgere dalla sceneggiatura. Anche i costumi in teatro vengono indossati con particolare piacere e eccitazione e aiutano ad immedesimarsi nella parte. Naturalmente bisogna riuscire a conciliare il movimento con il canto… tutto si impara se c’è determinazione ed entusiasmo.

M. Zuccante: Come riescono i tuoi ragazzi a conciliare le fatiche degli spostamenti, la disciplina del lavoro in teatro, la tensione della prestazione sulla scena, con la quotidianità delle loro occupazioni e dei loro impegni di studio? Suppongo che i tempi lunghi delle prove e l’orario degli spettacoli li sottoponga (assieme alle loro famiglie) a sacrifici e rinunce di una certa entità.

M. Mora: Quando il bambino entra a far parte della formazione da concerto sa che l’esperienza è bella ma impegnativa: due prove settimanali a cui non deve mancare, tanti concerti, tanti viaggi anche lunghi. I più grandi si sono abituati, sono pazienti ed hanno un comportamento spesso davvero esemplare, i più piccoli… devono imparare da loro! Devo però dire che è un gruppo ben affiatato, carico di entusiasmo e ancor più di amicizia e stanno piacevolmente insieme. Sono in genere ragazzi che non hanno nessuna difficoltà anche a scuola per cui recuperano facilmente le lezioni scolastiche (anche di parecchi giorni) che perdono. Sembra proprio che anche l’attività musicale li renda più ricettivi, più inclini all’ascolto, alla concentrazione e allo studio. Ho sempre avuto anche genitori che capivano le esperienze uniche che i loro figli potevano fare a questa età magari non ripetibili.

M. Zuccante: Non di rado i compositori hanno inserito, accanto al coro di voci bianche, una parte da solista per qualche bambino. Si prospetta, quindi, un compito particolare per il maestro del coro. Come affronti la preparazione per questo tipo di ruoli?

M. Mora: Anche lì bisogna cercare il bambino più adatto al personaggio che però abbia anche le caratteristiche vocali necessarie… certamente non tutti i bambini del coro potrebbero cantare da solisti. Devo dire che in un’opera pochi anni fa ho insistito per un bambino solista, che inizialmente il regista non condivideva, ma in cui io riponevo molta fiducia, ottenendo veramente un ottimo risultato finale: anche se era quasi alla muta della voce ha saputo interpretare il personaggio (Donizetti bambino, Il Piccolo cantore) con vocalità e timbro brillante, molto ricco e carico dell’emozione del personaggio bambino e adolescente che deve fare la scelta del suo futuro; il tutto vissuto dopo un primo approccio timido con una presa molto disinvolta e sicura del palcoscenico. Nelle opere di Britten come Il Piccolo Spazzacamino e L’Arca di Noè, dove oltre al coro viene richiesto un numero considerevole di voci soliste, è stato utile aver già affrontato in passato e tuttora aver in repertorio, le stupende pagine Missa Brevis e A Ceremony of Carols. Affrontare partiture così complesse per ampiezza, articolazione, originalità di linguaggio, sono state per il coro occasioni di crescita senza precedenti.

M. Zuccante: Finora abbiamo parlato delle collaborazioni, ma non vanno dimenticati gli spettacoli che “I Piccoli Musici” hanno interamente autoprodotto, sotto la tua direzione. In particolare, trovo significativo il recente allestimento dell’operina Brundibar. Quali difficoltà hai dovuto affrontare in questo lavoro, sia dal punto di vista artistico-musicale, che da quello organizzativo?

M. Mora: Ho particolarmente apprezzato quest’operina, perché oltre ad essere piacevole musicalmente ha molteplici scopi educativi: il ricordo della shoah; la fiaba racconta la speranza segreta e profonda di chi l’ha composta, il desiderio che il bene vinca sul male. L’avevamo conosciuta anni fa e mi era piaciuta molto ma non avevo condiviso proprio l’allestimento del registra che proponendola ai bambini aveva evidentemente pensato di sdrammatizzarla con pupazzi, allora appena possibile ho desiderato produrla. Dovendo ridurre la partitura orchestrale mi sono affidato a te che l’hai sapientemente rielaborata per gli strumenti che avevo a disposizione; ho dovuto pensare all’allestimento del palcoscenico, i genitori si sono preoccupati dei costumi, ho chiesto a un regista di realizzare la coreografia tenendo conto anche di alcuni principi di base a cui tenevo… e ho aggiunto una presentazione teatrale per introdurre l’argomento storico… Un’esperienza faticosa che ha coinvolto anche insegnanti e ragazzi della scuola di musica agli strumenti e che ha reso ancora più partecipi le famiglie.

M. Zuccante: Infine, Mario, dopo averti ringraziato per la tua disponibilità, vorrei chiederti ancora un’ultima riflessione. Esprimi una valutazione sulle opportunità formative che i tuoi piccoli cantori possono sperimentare, praticando l’arte del teatro, ad arricchimento non solo del loro bagaglio musicale, ma, più in generale, della loro crescita personale e culturale.

M. Mora: Lavorando in teatro con grandi orchestre, direttori, registi, cantanti, ballerini ecc. i ragazzi hanno la possibilità di costruirsi un bagaglio culturale e musicale che li accompagna per tutta la vita. Hanno la fortuna di affrontare e conoscere opere e grandi capolavori musicali che solitamente nell’attività di un coro di voci bianche non si affrontano, con la possibilità di rafforzarsi nel carattere e nella loro sicurezza personale affrontando grandi platee, emozioni e rischi. Concludendo potrei dire che tutto questo e le altre esperienze che i ragazzi possono fare in un coro, li portano ad apprezzare tutto ciò che è bello e autentico: l’amicizia, l’impegno, la passione, l’arte, con la finalità di cantare insieme, ma maturando dei valori che vanno ben oltre.

[Choraliter, n. 26 Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2008]

Il Presidente Giorgio Napolitano e Mario Mora




Mauro Zuccante, Laudes creaturarum, Piccoli Musici di Casazza, Mario Mora, direttore
Mario Mora ha studiato pianoforte, organo e musica corale.
E’ fondatore (1986) e direttore artistico della Scuola di Musica e del Coro “I Piccoli Musici” con il quale svolge un’intensa attività artistica con concerti, incisioni, collaborando con Teatri, Orchestre e direttori quali Riccardo Chailly, Romano Gandolfi, Helmuth Rilling, Gabriel Garrido, Rudolf Barshai, Claus Peter Flor, Jeffrey Tate, Wayne Marshall, Steven Mercurio, Peter Schreier.
E’ docente di corsi, convegni ed atelier nazionali e internazionali, sulla vocalità infantile rivolti a cori di bambini, direttori e insegnanti: Levico Terme, Macerata, Genova, Arezzo, Malcesine, Jesolo, Loreto, Salerno, Lugano, Riva del Garda, Brescia, Bergamo, Trento, Università degli Studi Roma 3, Montecatini Terme, Bassano del Grappa.
E’ stato premiato quale miglior direttore al 29° Concorso Nazionale Corale di Vittorio Veneto, al 5° Concorso Corale Internazionale di Riva del Garda e al 26° e 28° Concorso Corale Nazionale di Quartiano
E’ membro di giuria in Concorsi nazionali e internazionali.
Con il coro I Piccoli Musici ha partecipato a concerti trasmessi da R.A.I. – MEDIASET – TV e Radio Svizzera; in particolare nel 2007, 2008 e 2010 il Concerto di Natale trasmesso da RAI UNO in EUrovisione dalla Basilica di Assisi.
E’ inoltre docente in qualità di Maestro e Direttore del Coro di Voci Bianche della Scuola Diocesana di Musica S. Cecilia di Brescia.
Nell’anno 2001, è stato nominato da Papa Giovanni Paolo II “Cavaliere dell’ordine di San Silvestro Papa” per l’attività educativa e musicale svolta in favore dei ragazzi.
La Fondazione “Guido d’Arezzo” gli ha conferito il premio alla carriera “Guidoneum Award 2008”
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