Bruno Zanolini – intervista

M. Zuccante: Caro Bruno, permettimi di iniziare la nostra conversazione, nel nome di Renato Dionisi. Hai avuto il privilegio di essere stato suo allievo prediletto e collaboratore. Vorrei che tu accennassi alla sua figura, sottolineando la cura che egli riservava alla musica corale nell’azione didattica.

B. Zanolini: Ho avuto il privilegio… Giuste parole che non hanno bisogno di aggiunte e commenti (sarebbe necessario un ‘romanzo’), sicché – passando alle tua ultima frase – posso solo testimoniare che la scrittura corale era per Dionisi, allievo di Celestino Eccher, maestro di formazione romana, la base di ogni possibile apprendistato (quanti corali mi ha fatto scrivere all’inizio…!), in virtù del rigore che la scrittura corale impone e del relativamente più facile controllo che se ne può avere: in ciò confortato anche dalla didattica tedesca (Bach…) che del corale – e del Lied –  fa il fulcro di tutta l’esperienza artistico-musicale.

M. Zuccante: Prima di conoscerti di persona e come compositore, ho letto i tuoi scritti. In particolare, ritengo che lo studio su Luigi Dallapiccola metta opportunamente in risalto il valore della sua produzione corale. Quali altri autori del Novecento ritieni possano vantare un simile ruolo di riferimento per la musica corale?

B. Zanolini: La formazione di Dallapiccola, nato in Istria come Dionisi e colà nato per similari motivi politici, risente fortemente della grande tradizione musicale mitteleuropea, che – per quanto riguarda la coralità – all’epoca poteva vantare a Trieste una personalità quale il suo maestro Antonio Illersberg. Nessuna meraviglia quindi che i lavori per coro rappresentino un momento decisivo della produzione di Dallapiccola e della messa a fuoco del suo linguaggio (come lui stesso riconosceva, arrivando a complimentarsi (!?) con me per aver messo in luce la cosa). Una situazione simile, in altro ambiente e nel contesto ‘romano’, riguarda Goffredo Petrassi, altro autore-faro della coralità italiana del ‘900. Ma io direi che la musica corale, a qualunque tradizione e a qualunque autore dell’ultimo secolo (Kodaly, Berio, Penderecki, Castiglioni…) si riferisca, ha il vantaggio di porre sempre chiunque di fronte a un dilemma decisivo e di illustrarne il superamento (in maniera diversa e con diversi risultati secondo l’autore): come rimanere fedele ai propri ‘fantasmi’ espressivi, fatti spesso di novità non facilmente inquadrabili, facendo i conti con il mezzo sonoro più naturale, antico, ‘difficile’ nella sua apparente limitatezza e comunque duttile e affascinante, che ci sia dato impiegare.

M. Zuccante: Soffermiamoci ancora sulle opere teoriche. L’aspetto che apprezzo maggiormente del tuo esaustivo volume sul contrappunto vocale cinquecentesco è che pone come centrale la questione della coerenza stilistica, prendendo a modello le opere dei grandi autori della polifonia rinascimentale. Pertanto, indipendentemente dal periodo storico di riferimento, credo che costituisca un’ottima guida per la formazione di un giovane compositore, che ancora non ha individuato una personale cifra stilistica. Sei d’accordo?

B. Zanolini: Sono ovviamente d’accordo. Il limite maggiore che Dionisi ed io imputavamo alla trattatistica d’uso era la separazione fra ‘regole’ e risultati stilistici, quando invece è ben noto che le prime non sono mai assolute, ma vivono solo in funzione dei secondi. Il modo di esprimersi tecnico (le regole) di un autore non può essere lo stesso di un altro se la distanza temporale, ambientale, culturale fra i due porta a risultati artistici diversi. Per fare un esempio notissimo, le ‘quinte’ raveliane (anche nelle opere corali) non avrebbero senso in Orlando di Lasso e viceversa certi procedimenti di ottave sincopate. Quindi mi sembra giusto il ‘merito’ che ci riconosci, quello tentare di far capire all’allievo lo stretto legame che intercorre fra tecnica e stile, non essendo esportabile la prima senza che il secondo ne rimanga…sconvolto.

M. Zuccante: Veniamo alla tua produzione come compositore. Mi sembra di rilevare una costante nei tuoi lavori vocali: un’attenzione alla scelta e alla qualità del testo letterario da mettere in musica. Puoi descrivere (per quanto sia possibile in poche parole) il lavoro preparatorio e di progettazione che precede la stesura vera e propria di un tuo pezzo per coro?

B. Zanolini: La particolare attenzione rivolta alla scelta dei testi da musicare penso sia un dato comune a tutti i musicisti, che di norma proprio dal testo e dalle sue suggestioni ricavano stimoli e spunti d’interpretazione creativa, se è vero che la musica si pone sempre come ‘sublimazione’ della parola. Nel mio piccolo ritengo di aver agito in tal modo: di sicuro dal lato tecnico, visto che in diversi casi ho derivato le cellule ritmiche e i rapporti formali appunto dalle strutture poetico-letterarie scelte. Tenendo poi conto che in genere ho cercato di dare ai miei lavori corali un valore di testimonianza se non addirittura di messaggio (Secondo la promessa, …e il cielo al mio sguardo è libero, Intende, Beati parvuli) mi sembra evidente la cura riservata alla scelta del testo. Da lì e da mille considerazioni musicali si parte poi per… l’ignoto.

M. Zuccante: Il tuo catalogo presenta diversi titoli di musica corale. Lavori nei quali hai espresso un linguaggio in cui convivono (senza compromessi) intensità espressiva e complessità di scrittura. I cori italiani stentano ad affrontare le pagine più avanzate di musica contemporanea. Ciò è dovuto a carenze tecniche, o all’eccessivo scollamento generatosi negli ultimi decenni tra le concezioni estetiche dei compositori e la sensibilità di cori e pubblico?

B. Zanolini: Non credo tanto alle carenze tecniche (che ci possono comunque essere) e neppure tanto allo ‘scollamento’, pur evidente in molti casi ma facilmente ricomponibile quando si affrontino composizioni di pregio (quante volte ho assistito alla sorpresa soddisfazione dei coristi di fronte a un inaspettato risultato di coralità contemporanea!). Penso invece che vada combattuta una certa pigrizia, tramite la convinzione dei direttori a proporre ‘percorsi’ non tradizionali, per quanto a volte un po’ ostici. Senza ovviamente dimenticare la grande tradizione, che del resto (cfr. Palestrina) è sempre la più difficile.

M. Zuccante: Da un paio d’anni ricopri la carica di direttore del Conservatorio di Milano. Vorrei approfittare del tuo ottimale punto di osservazione per mettere a fuoco la questione della disciplina corale nel campo dell’istruzione musicale. Insegnare a cantare in coro, insegnare a far coro, insegnare a scrivere per coro sono pratiche coltivate a sufficienza nelle Scuole di musica e nei Conservatori? e con quali risultati?

B. Zanolini: Tutti siamo convinti dell’importanza che la coralità ha da sempre nella formazione musicale dei giovani, sia perché insegna loro a controllare il proprio naturale mezzo sonoro e quindi impone una precisa disciplina, sia perché obbliga tutti a collaborare in funzione del risultato d’insieme. La ‘naturale’ facilità o addirittura superiorità che a volte si nota nei giovani provenienti dall’est o dal nord europei sono quasi sempre riconducibili, a mio parere, all’abitudine corale acquisita in età infantile, esperienza per noi purtroppo inusuale con le conseguenze negative che conosciamo. Nei Conservatori esistono in realtà tutti i canali per coltivare la coralità, a livello sia compositivo sia esecutivo (al Conservatorio di Milano c’è anche un coro di voci bianche che – in collaborazione con il Teatro alla Scala – svolge intensa attività) ma il problema è risolvibile solo portando la musica (corale) nelle scuole elementari se non addirittura materne: sembra che a livello ministeriale (ne sono testimone) si voglia provvedere in proposito. Speriamo bene…

M. Zuccante: Hai recentemente messo a disposizione la tua competenza ed esperienza didattica come docente nel Seminario europeo per giovani compositori di musica corale di Aosta. Ti chiedo quali sono le impressioni a conclusione della tua esperienza nell’ambito di questa iniziativa della Feniarco.

B. Zanolini: L’entusiasmo di molti giovani nei confronti della coralità è addirittura commovente: ci credono con assoluta convinzione. E non sono pochi. Ragione ancor più forte per aiutarli ad approfondire le conoscenze, compositive ed esecutive, gli scambi di esperienze e le collaborazioni, tanto più simpatiche visto che di soldi… non ne girano proprio!

M. Zuccante: La passione per la musica corale si manifesta nel tuo impegno di consulente artistico a favore di iniziative, manifestazioni e associazionismo. Come pensi sia cambiato il mondo corale italiano nel tempo? Quali meriti e quali difetti riconosci nel movimento corale amatoriale?

B. Zanolini: A parte una certa vicinanza all’ambiente corale, da cui la partecipazione quale docente a seminari, corsi estivi o a giurie di concorso, il mio impegno si è limitato per breve tempo alla presidenza della commissione artistica dell’Usci Lombardia: non è molto. Comunque, considerando in generale la coralità italiana degli ultimi decenni, noto un evidente innalzamento del livello tecnico e interpretativo, grazie anche all’apporto di giovani direttori ben preparati e con una visione internazionale delle questioni (merito tra l’altro della partecipazione ai numerosi concorsi): senza con questo nulla togliere ai meriti della scuola italiana, Conservatori in testa. Certo è che oggi la tecnica corale e soprattutto la correttezza stilistica, pur sempre migliorabili, sono spesso da apprezzare e non certo paragonabili a quelle, modeste o improprie, di quarant’anni fa, soprattutto in riferimento alla coralità amatoriale. La quale invece, a demerito, soffre in alcuni casi di eccessiva litigiosità…campanilistica.

M. Zuccante: Tra le altre occasioni, ci siamo incontrati in qualche giuria di concorso di composizione corale. Ho sempre apprezzato la tua predisposizione a valutare con prudenza ed equilibrio tutti i lavori. Una sbrigativa e superficiale lettura potrebbe portare, infatti, ad un’incauta esclusione di lavori degni di menzione. Credo di individuare in questo atteggiamento una tua peculiarità caratteriale. Un comportamento che alcuni potrebbero giudicare pedante, ma che, al contrario, trovo sia garanzia di equità di giudizio. Una dote, ahimè, rara. Ti riconosci in questo aspetto della tua persona?

B. Zanolini: Chi si loda s’imbroda, dice il proverbio: quindi non voglio giudicare come ottimale il mio atteggiamento e il mio metodo di giudizio. Certo è che ‘per natura’ sono portato ad escludere ogni faciloneria, soprattutto quando sono coinvolte altre persone; perciò se sono chiamato a giudicare il lavoro altrui mi sento in dovere di approfondire il risultato artistico e valutare bene ogni aspetto, così da dare un parere in piena coscienza: poi, com’è ovvio, tutti possono sbagliare. Mi sembra comunque che questo approccio sia comune a molti, come ho spesso notato nei migliori concorsi.

M. Zuccante: Impossibile dimenticare, infine, la sera in cui mi hai offerto una sgnapa presso l’osteria di Papà Marcel ad Aosta. Orgoglio alpino! Bruno Zanolini è anche questo. Vorrei, perciò, che concludessi il nostro discorrere, spendendo alcune parole a favore del canto alpino; una passione nella quale è facile leggere il tuo amore per la montagna.

B. Zanolini: L’esperienza alpina – che per me prosegue tuttora nei raduni, negli incontri, nei ricordi – ha lasciato una forte traccia, tant’è che anche in Conservatorio alcuni mi apostrofano chiamandomi l’alpino: a questa si aggiunge (le cose sono in parte interdipendenti) la passione per la montagna, che ancora mi spinge ad ascensioni che oserei definire non banali. Quindi non può sorprendere l’attenzione che ho (che ho sempre avuto) per il canto corale legato alla montagna, sia esso di ascendenza militare o meno. Oggigiorno in montagna ed espressamente nei rifugi si canta molto meno di una volta, ma proprio per questo il canto corale assume un significato profondo, evocatore di sensazioni e sentimenti antichi, fortemente radicati: anche i più giovani, pur non cimentandosi il più delle volte con la tradizione corale, ne sentono il fascino e questo mi fa sperare che tale pratica – ‘ntorno al foch – mantenga la sua vitalità, pur di volta in volta rinnovata secondo stilemi che il generale ‘sentimento’ artistico in ogni epoca suggerisce.

[Choraliter, n. 29 Maggio-Agosto, Ed. Feniarco, 2009]




Bruno Zanolini, Melàfiri, per Marimba, 3 Tom, 3 Piatti, 2009

 

BRUNO ZANOLINI (MIlano, 1945) ha studiato nella sua città conseguendo al conservatorio il diploma di pianoforte e quello di composizione e parallelamente ha studiato all’università, dove si è laureato in lettere con il massimo dei voti. È stato allievo e poi collaboratore di Renato Dionisi, con il quale ha pubblicato un importante trattato sul contrappunto.Attivo come compositore, ha scritto lavori sinfonici, cameristici e corali che hanno ottenuto consensi e significativi riconoscimenti nelle più svariate sedi (cfr. le stagioni sinfonico-corali del Teatro alla Scala, della RAI, dei Pomeriggi musicali, dell’Angelicum e ancora di Carme, Sagra malatestiana, i Solisti dauni, Novurgia, Sferisterio di Macerata, ecc.) avendo, fra gli interpreti, direttori quali K. Martin, Daniele Gatti, Giorgio Bernasconi, Othmar Maga, Bruno Casoni e Ruben Jais, cantanti del calibro di Gabriella Ravazzi o Gemma Bertagnolli e strumentisti quali E. Dall’Oca, Sergio Del Mastro, M. Carulli, C. Maghenzani, R. Negri, Riccardo Balbinutti.Alle composizioni originali, trasmesse da diversi enti radiofonici, sono poi da aggiungere numerose elaborazioni per coro di melodie popolari, destinate al Coro della SAT di Trento e ad altre formazioni similari. Ha ottenuto anche premi in vari concorsi di composizione, nazionali e internazionali, dal Bucchi di Roma a quello corale di Trento.Bruno Zanolini si è sempre dedicato inoltre all’indagine musicologica, essenzialmente di carattere tecnico: ha pertanto pubblicato studi – sia in veste di volumi, sia di articoli di riviste, sia di atti di convegni – su Luigi Dallapiccola, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Johann Paul von Westhoff, Johann Sebastian Bach, Johannes Brahms, sul melodramma romantico (soprattutto su Gaetano Donizetti: un volume, scritto in collaborazione con Guglielmo Barblan, è stato tradotto anche in giapponese), su quello postromantico (Riccardo Zandonai) e ancora su autori del ‘900 storico. In particolare ha approfondito alcuni aspetti del linguaggio armonico, tonale e non, e soprattutto le tecniche contrappuntistiche dei periodi rinascimentale e barocco, cui ha dedicato due trattati (il primo in collaborazione con Renato Dionisi) giudicati fra i più importanti degli ultimi decenni.

I suoi scritti e le sue composizioni sono per la maggior parte pubblicati dalle Edizioni Suvini Zerboni di Milano, ha collaborato con prestigiose riviste musicali come “La Cartellina”.

Membro di giurie nazionali e internazionali di concorso sia di composizione (Antidogma di Torino, Foerderverein Interkultur di Pohlheim, Concorso “Bruno Bettinelli” di Milano ecc.) sia di esecuzione (Lipizer di Gorizia, Rassegna corale di Legnano, ecc.) nonché relatore in molti convegni, per lo più internazionali, ha tenuto presso varie sedi numerosi corsi, conferenze e seminari di composizione e di analisi. Dopo un breve periodo di collaborazione alla cattedra di Storia della Musica dell’Università Statale di Milano quale vincitore di una borsa di studio, per oltre trent’anni è stato docente di Armonia e Contrappunto presso il conservatorio della sua città‎ di cui attualmente è il direttore, e insegna periodicamente anche al Conservatorio di Lugano.

Nel 2007 è stato eletto, per il triennio 2007-2010, direttore del Conservatorio di Milano.

Ha condotto trasmissioni su alcuni autori del ‘900 alla Radio della Svizzera italiana. È presidente della Commissione artistica dell’USCI (Unione società corali italiane) della Lombardia e accademico dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti di Bergamo.

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Ta-pum Ta-pum 2012


Gli Alpini hanno molto cantato negli anni della Grande Guerra.

Hanno cantato sulle tradotte, durante le marce di trasferimento, nelle retrovie; hanno cantato la baldanza, la spavalderia e il loro giovanile ardore.

Ma hanno altresì cantato nei rifugi, nei covi e nelle trincee; hanno cantato il terrore e lo sgomento che attanaglia l’animo dei soldati in prima linea.

Il progetto TA-pum TA-pum del PolifonicoMonteforte propone in sequenza alcune delle più note canzoni degli Alpini.

Un’immaginaria narrazione che si apre con la struggente lirica del forzato distacco dagli affetti domestici e termina con l’epica celebrazione della morte del capitano.

Un itinerario lungo il quale sono evocati leggendari luoghi ed episodi storici e si aprono emozionanti squarci sui temi fondamentali dell’esistenza umana (amore e morte in primis)

Il rinnovato arrangiamento musicale dei canti non ricalca gli standard dei cori alpini. Esso si avvale della maggiore ampiezza polivocale del coro di voci miste, ulteriormente dilatata dalla timbrica e dalla dinamica del pianoforte. Inoltre, l’andamento delle melodie e delle armonie è a tratti svincolato dalla versione originale e s’intreccia con elementi di libera invenzione.


  1. Senti, cara Nineta
  2. Sul ponte di Bassano
  3. E l’an taglia i suoi biondi capelli
  4. Se te toco le to manine
  5. La rivista del corredo e dell’armamento
  6. Monte Canino
  7. Al comando dei nostri ufficiali
  8. Monte Nero
  9. Dove sei stato, mio bell’alpino?
  10. Ai prêat la biele stele
  11. Bersaglier ha cento penne
  12. Ta-pum
  13. Il testamento del capitano

PolifonicoMonteforte, “Ta-pum Ta-pum”, 25 Giugno 2011

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Antichi spettri sonori III

Lo spettro di Johann Sebastian Bach s’aggira nelle opere dei posteri.
Un’eredità spirituale che emana autorevolezza fuori dal tempo.
La musica di Bach «rimane il grembo in cui la musica occidentale risuona. Essa è come la sontuosa e familiare dimora in cui si raccolgono il meglio della sua antica tradizione – il canto cristiano, essenzialmente – e il germe delle future tradizioni.
[…] La maggior parte della musica europea e occidentale, colta o di intrattenimento, continua a cantare e suonare dentro l’universo tonale di cui Bach ha tracciato le coordinate e illustrato le potenzialità. La grammatica generativa dei gesti e dei movimenti, delle forme e dei sentimenti in cui musicalmente abita l’uomo occidentale moderno, quelli della danza e della preghiera, del corale armonioso e del canto d’amore, della festa e del lutto, è scritta qui. Le nostra abitudini musicali, quelle più sofisticate e quelle più spontanee, qui si sono formate e qui riconoscono i loro tratti comuni. […]
“Doveva chiamarsi Oceano, non Bach” ha scritto Beethoven, giocando sul significato letterale del cognome, che in tedesco significa ruscello». [P. Sequeri, Musica e Mistica, Città del Vaticano, 2005]

Una delle forme ectoplasmatiche in cui si materializza lo spirito di Bach è la traduzione in note musicali del suo nome.
VI stazione della Via crucis di Liszt (Sancta Veronica).
Nell’introduzione strumentale, un sommesso lamento, scarno e conciso nella sostanza, il nome B.A.C.H. si manifesta. Un richiamo melodico pochi istanti prima che il coro intoni il corale O Haupt voll Blut und Wunden, nella versione pressoché letterale bachiana.
L’apparizione del Kantor di Lipsia sul percorso della Via crucis di Liszt rapprresenta un punto focale attorno al quale gravitano ardite divaricazioni di linguaggio: dal rifacimento del canto gregoriano, alle zone di disincarnata meditazione atonale.



Liszt, “Sancta Veronica” (Via Crucis)

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Antichi spettri sonori II

La visione dell’alter ego (doppelgänger), l’improvviso scorgere l’immagine di sé, fuori da sé (sosia, controfigura), è un fenomeno considerato foriero di sventura.
Uno sdoppiamento dell’io che la psicanalisi interpreta come irruzione di uno stato dell’inconscio, il quale rappresenta l’angoscia della morte e quindi dell’aldilà.

Il sosia 

Tace la notte, riposano le strade,
in questa casa abitava il mio tesoro;
ha lasciato da molto la città,
ma la casa è sempre nello stesso posto.

C’è anche una persona, e guarda fisso in alto,
e si torce le mani per la forza del dolore,
inorridisco vedendo il suo volto –
la luna mi mostra la mia stessa figura. 

Tu sosia, tu pallido amico!
Perché scimmiotti la mia pena d’amore,
che mi ha afflitto in questo posto
per tante notti, nel tempo passato?

[Der Doppelgänger

Still ist die Nacht, es ruhen die Gassen,
In diesem Hause wohnte mein Schatz;
Sie hat schon längst die Stadt verlassen,
Doch steht noch das Haus auf demselben Platz.

Da steht auch ein Mensch und starrt in die Höhe,
Und ringt die Hände, vor Schmerzensgewalt;
Mir graust es, wenn ich sein Antlitz sehe, –
Der Mond zeigt mir meine eigne Gestalt.

Du Doppeltgänger! du bleicher Geselle!
Was äffst du nach mein Liebesleid,
Das mich gequält auf dieser Stelle,
So manche Nacht, in alter Zeit?

Heinrich Heine]

Schubert, nel mettere in musica questi versi di Heine, ricorre alla passacaglia, una forma del passato. Ma una passacaglia sospesa in un movimento au ralenti.
Il canto esordisce in stile recitativo. Mormora il testo a frammenti, in uno spazio dilatato. Balbetta le parole nel lungo intervallo temporale tra una caduta e l’altra degli accordi del pianoforte. S’impenna (inorridisce) alla vista della propria immagine, inveisce, torna ad accasciarsi. Da brivido!

Un altro fantasma s’aggira tra le note di questo lied.
Il nome B.A.C.H.  leggermente modificato 



Schubert, “Der Doppelganger”

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Antichi spettri sonori I

A volte stili e forme del passato si manifestano in contesti storici posteriori.
Apparizioni che ritornano come ombre dal passato.
Come la visione dei fantasmi dei defunti provoca inquietudine ed angoscia, così queste inattese diacronie sonore turbano l’esperienza di ascolto.
Zombie di idiomi remoti, mai definitivamente sepolti, condannati a periodiche riesumazioni, che mettono in crisi la presunta linearità evolutiva del linguaggio musicale.
Non solo. Demoni dissotterrati in virtù della loro attitudine a sbilanciare la stabilità emotiva.

Un minaccioso presagio, nella scena XXVIII del Flauto magico, incombe su Pamino, destinato a sottoporsi al rito della purificazione, ultima prova da superare per entrare nel mondo degli eletti.
Due armigeri, sui cui elmi arde il fuoco, lo ammoniscono:

«Chi percorre questa strada irta di fatiche,
si purifica con fuoco, acqua, aria e terra;
se saprà vincere la paura della morte,
balzerà dalla terra verso il cielo!
Illuminato, sarà allora in grado
di dedicarsi completamente al culto di Iside».

[DIE ZWEI GEHARNISCHTEN
«Der, welcher wandert diese Straße voll Beschwerden,
wird rein durch Feuer, Wasser, Luft und Erden;
wenn er des Todes Schrecken überwinden kann,
schwingt er sich aus der Erde himmelan!
Erleuchtet wird er dann imstande sein,
sich den Mysterien der Isis ganz zu weihn».]

La gravità della circostanza è accentuata dal solenne canto che i due armigeri intonano nel modo di un corale-figurato. Si tratta della melodia Gott, vom Himmel sieh’ darein («Oh Dio, dal cielo volgi il guardo»).
Un inatteso scarto stilistico. La rievocazione di un’atmosfera di stampo liturgico, che pietrifica la situazione e incute ansia nell’animo del protagonista.
I due armigeri cantano in ottava secondo la prassi di rinforzo del cantus firmus, tipica del corale figurato organistico. Ma questo accoppiamento in ottava acquisisce, in questo frangente drammatico, un che di spettrale (doppelgänger), evoca sinistri presentimenti.

«In tutta questa staticità a creare tensione e movimento non è l’andamento del basso continuo, quanto il controsoggetto affidato ai violini con una figurazione di appoggiature discendenti, che rende sottilmente inquietante questa pagina severa» [F. Attardi, Viaggio intorno al Flauto magico, LIM LibreriaMusicaleItaliana, 2006]



Mozart, “Der Welcher Wandelt” (Der Zauberflöte)

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Musicisti, Senatori e … Senatori-musicisti

Queste sono alcune delle parole che pronunciò nell’aula del Senato, riunitosi per commemorare la morte di Giuseppe Verdi, Antonio Fogazzaro (anch’egli all’epoca tra i senatori):

« … Possa questo ventesimo secolo, che tanto dono raccolse dal suo predecessore e tanto breve tempo seppe serbarlo, possa, io dico, riportare all’Italia altrettanta potenza di arte, che unifichi, tutto penetrandolo ed elevandolo, il nostro popolo; e non manchi al lume dell’arte giammai quel sereno raggio del bene, che, circonfuso al nome di Giuseppe Verdi, ne moltiplica e ne stende oltre la terra il fulgore. (Approvazioni).
È questo il voto che io esprimo, parlando non già come artista, ma come cittadino d’Italia, come collega vostro, come l’ultimo dei membri di questa augusta Assemblea, che ha ed ebbe sempre per fine supremo dell’opera propria la grandezza civile e morale della patria. (Vivi applausi – molti senatori si congratulano con l’oratore)».
[Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 27 gennaio 1901].

Il XX sec. ci ha provato a mantenere la promessa, ma il XXI … !


Nei repertori dei cori attuali è raro imbattersi in una pagina di rara bellezza dedicata da Giuseppe Verdi al coro a cappella, il Pater noster.

Sul piano musicale il Pater noster verdiano parrebbe un esercizio di stile, un allenamento a «piegare la nota», per mezzo della pratica del contrappunto. Così è stato spesso classificato da parte di diversi commentatori. La scrittura polifonica, in effetti, risente dello studio dei modelli palestriniani. Le cinque voci alternano episodi in forma imitata a passaggi omoritmici di vario spessore e combinazione di voci, secondo il tipico schema del mottetto polifonico. Ma non appena il compositore asseconda l’irreristibile richiamo del tono lirico, l’espressione si carica pathos.
Giulio Ricordi (avveduto editore, al pari di raffinato intenditore), immediatamente coglie il momento topico della composizione: «Veniamo al Pater: dev’essere un effetto meraviglioso colle voci: quella frase che ritorna di quando, in quando è divina; è stupenda la conclusione!! …». La frase che ritorna è la seguente, un gioiello d’invenzione melodica. Un motivo di supplica carico di umana partecipazione, che ondeggia tra il tono maggiore e il tono minore, come fosse stata trafugato dal lessico schubertiano.



Verdi, “Pater noster”


D’estate i muri di città e provincia sono tappezzati dalle immagini delle star della musica in tournée.

Mi imbatto spesso nel ritratto del testone di Giovanni Allevi curvo sulla tastiera. Ma quanti sono quelli che pagano per ascoltare un intero concerto del pianista-compositore? Tanti, perché la fama è grande. Se non sei conosciutissimo in Italia non ti invitano a fare la pubblicità delle auto, affondando il pedale di risonanza come fosse quello dell’acceleratore.
Alla fine del 2008, Allevi ha conosciuto l’onore di suonare nell’aula del Senato, per la delizia dei padri della Repubblica. Ho ancora presente l’entusiasmo manifestato dal capo della Lega Nord per i prodigi del giovane musicista. Al termine del concerto batteva energicamente il pugno in segno di approvazione.
Fosse nato 150 fa, Allevi avrebbe suonato al cospetto di Giuseppe Verdi, anch’egli senatore d’Italia come il perito tecnico elettronico (già cantautore) di Cassano Magnago. Ma il Beppino avrebbe battuto ugualmente il pugno con tanto entusiasmo, o altrimenti … ?

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TA-pum TA-pum

 


Gli Alpini hanno molto cantato negli anni della Grande Guerra.

Hanno cantato sulle tradotte, durante le marce di trasferimento, nelle retrovie; hanno cantato la baldanza, la spavalderia e il loro giovanile ardore.

Ma hanno altresì cantato nei rifugi, nei covi e nelle trincee; hanno cantato il terrore e lo sgomento che attanaglia l’animo dei soldati in prima linea.

Il progetto TA-pum TA-pum del PolifonicoMonteforte propone in sequenza alcune delle più note canzoni degli Alpini.

Un’immaginaria narrazione che si apre con la struggente lirica del forzato distacco dagli affetti domestici e termina con l’epica celebrazione della morte del capitano.

Un itinerario lungo il quale sono evocati leggendari luoghi ed episodi storici e si aprono emozionanti squarci sui temi fondamentali dell’esistenza umana (amore e morte in primis)

Il rinnovato arrangiamento musicale dei canti non ricalca gli standard dei cori alpini. Esso si avvale della maggiore ampiezza polivocale del coro di voci miste, ulteriormente dilatata dalla timbrica e dalla dinamica del pianoforte. Inoltre, l’andamento delle melodie e delle armonie è a tratti svincolato dalla versione originale e s’intreccia con elementi di libera invenzione.


  1. Senti, cara Nineta
  2. Sul ponte di Bassano
  3. E l’an taglia i suoi biondi capelli
  4. Se te toco le to manine
  5. La rivista del corredo e dell’armamento
  6. Monte Canino
  7. Al comando dei nostri ufficiali
  8. Monte Nero
  9. Dove sei stato, mio bell’alpino?
  10. Ai prêat la biele stele
  11. Bersaglier ha cento penne
  12. Ta-pum
  13. Il testamento del capitano

PolifonicoMonteforte, “Ta-pum Ta-pum”, 25 Giugno 2011

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Flussi sonori IX

L’Adagio per orchestra d’archi di Samuel Barber è un adattamento dal II movimento del suo Quartetto op. 11.
Pare che l’idea originaria dell’autore (ispirato dalla lettura delle Georgiche di Virgilio) fosse quella di comporre un pezzo che descrivesse il divenire di un piccolo torrente in un grande fiume.
L’idea di flusso è evidente. Il suono legato, i lunghi archi melodici che si dipanano per gradi congiunti e i lenti suoni accordali diluiti nel tempo, il processo in forma di climax.



Barber, “Adagio for strings”


L’Adagio è stato eseguito per la prima volta sotto la direzione Arturo Toscanini nel 1938. Al termine della prima prova il grande direttore definì sobriamente la musica «semplice e bella».
La critica e il pubblico attribuirono invece fin da subito al brano qualità di pathos struggente e catartico.
Insomma, l’ascolto dell’Adagio di Barber è diventata un’esperienza che «raramente lascia gli occhi asciutti» (Alexander J. Morin).
Ha accompagnato l’annunciò radiofonico della morte di Franklin D. Roosvelt; fu eseguito al funerale di Albert Einstein ed a quello della principessa Grace di Monaco; fu suonato per commemorare le vittime dell’attentato al World Trade Center del 2001; e chissà in quante altre meste occasioni.
A ciò si aggiunga che nel cinema è stato più volte utilizzato a commento di scene particolarmente toccanti (Platoon di O. Stone e The Elephant Man di D. Lynch, tanto per citarne un paio tra le più note).

In seguito (1967) Barber ha trascritto l’Adagio per coro a cappella adattandovi il testo dell’Agnus Dei.
Ma questa è un’altra storia per un nuovo post sui “ruminanti”.

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Flussi sonori VII

Il Preludio del Rheingold sancisce l’acqua come arché, principio delle cose.
Le tre Figlie del Reno nuotano con grazia innocente in questo elemento puro e incorrotto, guizzando come pesci fra gli scogli nel profondo del fiume.
Per 157 battute un incessante pedale di mi bemolle, da cui si snoda la triade omonima, sostanzia la dimensione abissale, l’elemento primordiale da cui si generano ondeggiando le cose.



Wagner, “Das Rheingold” (Vorspiel)


Talvolta il cinema gioca degli scherzi.

In Nosferatu (1979) di Werner Herzog, quando il personaggio alza lo sguardo verso le alte rupi che appaiono tra le nebbie appena diradatesi, la sua visione è sottolineata dal suono del Reno wagneriano.

In una scena di Barnabo delle montagne (1994) di Mario Brenta, i due guardiabosco  s’inerpicano sulle impervie cenge, fin sulle alte crode, scivolano giù dai ghiaioni accompagnati dalle note del Preludio del Rheingold.

Insomma, l’imo abisso acquatico wagneriano viene ribaltato in direzione opposta verso le altitudini dei rilievi terrestri.

 


Tra l’altro in alcune sequenze di Barnabo delle montagne ricorre il tema dell’Adagio del Quintetto in do, D 956 di Schubert. Incantevole.



Schubert, Quintetto on do, D 956 (Adagio)


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Flussi sonori VI

«La vita dell’uomo quale apparisce il più sovente nella realtà, somiglia all’acqua come noi di solito la vediamo, in fiume e stagno». (Schopenhauer)

«Diciamo quindi, con motivata convinzione, che l’acqua è veramente per Schubert un luogo della mente, per di più prediletto. […]
Legato al tema del ruscello, dello scorrere dell’acqua, è quello del fluire del tempo, inteso come vertiginosa parabola i cui estremi son nascita e morte, arcata della vita, contraddistinta da perpetua alternanza di gioia e dolore, sorrisi e lacrime, e pertanto sorgente inesauribile di fecondità spirituale, il cui pungolo recondito è rappresentato dal binomio di malattia e morte». (A. Solbiati e S. Cerruti, I Luoghi della Mente: L’acqua in Schubert)

Cascatine d’acqua si rovesciano sulla tastiera del pianoforte e cullano il canto come malinconici sospiri.
Auf dem Wasser zu singen è di una purezza disarmante, e di una bellezza da togliere il fiato.

Auf dem Wasser zu singen

Mitten im Schimmer der spiegelnden Wellen
Gleitet, wie Schwäne, der wankende Kahn;
Ach, auf der Freude sanftschimmernden Wellen
G
leitet die Seele dahin wie der Kahn:
Denn von dem Himmel herab auf die Wellen
Tanzet das Abendrot rund um den Kahn.
Über den Wipfeln des westilichen Haines
Winket uns freundich der rötliche Schein.
Unter den Zweigen des östlichen Haines
Säuselt der Kalmus im rötlichen Schein;
Freude des Himmels und Ruhe des Haines
Atmet die Seel im errötenden Schein.
Ach, es entschwindet mit tauigem Flügel
Mir auf den wiegenden Wellen die Zeit.
Morgen entschwindet mit schimmerndem Flügel
Wieder wie gestern und heute die Zeit,
Bis ich auf höherem, strahlendem Flügel
Selber entschwinde der wechselnden Zeit.

[Friedrich Leopold Graf zu Stolberg]



Schubert, Auf Dem Wasser Zu Singen


Da cantare sull’acqua

Nello scintillìo delle onde specchianti
Scivola come un cigno la barca ondeggiante;
Ah, sulle onde dolcemente scintillanti di gioia
L’anima scorre, come la barca:
Perché dal cielo fin giù sulle onde
Danza il crepuscolo attorno alla barca.
Sopra le cime del boschetto a ponente
Il rossastro bagliore ci saluta amichevolmente.
Sotto i rami del boschetto a levante
Sussurra la canna nel rossastro bagliore;
Gioia del cielo e quiete del bosco
Respira l’anima nel vermiglio bagliore.
Ahimè, si dissolve su ali di rugiada
Il mio tempo, sulle onde cullanti.
Domani svanirà con ali splendenti
Di nuovo il tempo come ieri e oggi.
Finché con ali più alte e radiose
Io stesso non sfuggirò al Tempo incostante.

[Traduzione di Caterina Sangineto]

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