Quarantena musicale #01

Stop alle attività musicali fino al 31 dicembre 2020! È la peggiore delle ipotesi che circola.
No, dài. Facciamo gli scongiuri e speriamo in un miracolo della scienza, che ci liberi in anticipo dai vincoli catastrofici del distanziamento sociale.
Di certo, più tempo passiamo in questa condizione, più aumenta, nelle persone, la disaffezione per la vita di prima.

Da ragazzino, immaginavo un’epoca di finis musicæ. Forse, ci sarà, ma in un futuro così lontano, da non assistervi. Credo, però, che potremmo assistere, a breve, a una renovatio musicæ.

Una delle estreme conseguenze di questo stop forzato potrebbe essere, infatti, l’estinzione del concerto musicale, inteso come forma e luogo.
Che i concerti fossero in crisi, l’avevamo già capito. Pubblico in diminuzione e formato, per lo più, da persone anziane. Giovani orientati verso l’ascolto-consumo della musica, sotto forma di “pillole on-line”.
Che il rito dei concerto pubblico sia destinato, prima o poi, a finire è scritto nella sua stessa genesi. La nascita del concerto pubblico è legata all’affermazione delle istituzioni borghesi, più o meno, a partire dal XVIII sec. È prevedibile, quindi che questo tipo di manifestazione si esaurisca col tramonto di quel determinato ciclo storico.

Ma da cosa verranno sostituiti i concerti? Da una proliferazione di proposte di ascolto on-line, mediocri e standardizzate?
Per carità, che incubo! Meglio la finis musicæ.

Come insegnano le narrazioni apocalittiche, dopo uno sconvolgimento, le persone ricostruiscono a partire dalle piccole cose.
Mi piacerebbe, allora, che coloro che sanno fare musica (intendo quelli che la sanno fare veramente!), ritrovino il piacere di ripartire dal piccolo ambito, dalle piccole forme e dal piccolo gruppo. Senza tanto strepito. Senza tanta vanagloria.

Non so chi siano. Presumo una famiglia. Ma è il video più emozionante e vero, in cui mi sono imbattuto, durante questo periodo di quarantena forzata.

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Quarantena corale #2

In principio fu Eric Whitacre nel 2009, con il Virtual Choir. Milioni di visualizzazioni per un video che fu anche una fortunata operazione di marketing pop. Palliativo di un ideale abbraccio sonoro universale. Dico palliativo perché, complice la tecnologia, si tratta di un trapasso illusorio da monadi che cantano, a monadi che ascoltano. Di fatto, celebrazione dell’isolamento.

Nell’attuale condizione di distanziamento sociale, molti cori stanno riesumando, in proprio, l’esperienza del virtual choir. Si sa, quando le proposte si moltiplicano, l’interesse si satura, e guardiamo questi video con un certo disincanto. Ma è umano lo sforzo di tener vivo un briciolo di coesione tra le persone.


Diceva Karlheinz Stockhausen, a proposito dell’ascolto dal vivo: « […] è necessario ascoltare nelle grandi sale. Lo spazio è spazio, è aria. È necessario avere un grande volume per muovere le molecole nell’aria. Questa è un’esperienza musicale speciale per la pelle, molto corporale».

A proposito, ricordo di aver assistito a Milano, nel 1984 (36 anni fa!), alla prima rappresentazione di Samstag aus Licht, opera dello stesso compositore tedesco.

Nell’ultima parte di questo spettacolo, Lucifers Abschied, un coro di 39 monaci circonda gli ascoltatori fisicamente e acusticamente. Sorprendenti ondate sonore tagliano l’aria in tutte le direzioni, voci singole e giaculatorie di massa avvolgono l’udito in una spirale di sensazioni, per una durata temporale, invero, abnorme.

Posso testimoniare che, pur a distanza di anni, non c’è ancora surrogato tecnologico che possa restituire la fisicità e il fascino di quell’esperienza di ascolto dal vivo in uno spazio reale.

https://www.youtube.com/watch?v=aW_hmyEWq0M

 

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Quarantena corale #1

Il 7 marzo scorso, molti ancora sottovalutavano gli effetti del Coronavirus. Quel giorno aggiunsi ad una mail, una postilla: « […] non vorrei sembrare una Cassandra, ma il mondo corale dopo il Coronavirus si riprenderà lentamente e, forse, per alcuni aspetti, non sarà come quello di prima».
Era il presentimento (per certi versi negativo) di qualcosa, che avrebbe stravolto le nostre attività musicali.

Ora, i contorni di questa calamità si sono fatti più chiari e concreti. Si può iniziare ad ipotizzare come sarà il dopo.

Festival e raduni corali riprenderanno a stento. La ripresa sarà, dapprima, limitata alle dimensioni locali e nazionali. Insomma, dovremo attendere un po’ prima che si ripristini quella movimentazione internazionale a cui ci eravamo abituati.
Poco male. Anzi, sarà l’occasione per riscoprire il valore di espressioni musicali più vicine ai nostri territori, alla nostra storia e alla nostra cultura.

Ma un triste effetto dell’epidemia lo verificheremo, quando alla conta dei coristi mancherà qualcuno. Come ne usciranno i cori che gentilmente definiamo “senior”? Perderemo d’un colpo una generazione di cantori, che hanno con passione contribuito a consolidare il mondo della coralità amatoriale?

«Natura non facit saltus», mi hanno insegnato. Comincio a dubitarne.

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Ammassamenti

Un giorno si dirà: «i cori al tempo del Coronavirus». Già, perché – com’era inevitabile – anche le attività corali hanno subito uno stop straordinario. Per quanto? Staremo a vedere. E poi? Ci sarà una ripresa, ma sarà graduale, faticosa e, forse, sotto alcuni aspetti, diversa da prima.

Mi ronza per la testa una questione. Una questione che, tempo fa, buttai lì, un po’ provocatoriamente. «Che cos’è un coro?» Mi fu prontamente risposto: «Uno strumento sonoro». Ecco, pensai, la solita fissa del suono, il sound, per dirla da fighi. Da quando spopolano le lagne dei cori nordici, tutti hanno sulla bocca ‘sta parola. E giù fiumi di atmosfere vocali fascinose e lente, che inondano le sale e le navate, per il godimento di pochi, ma estasiati ascoltatori.

Per me, invece, un coro è sempre stato una massa di persone che cantano, esprimendo un testo.

Soffermiamoci sul primo aspetto della definizione: il coro è una massa di persone.

Fa specie ricordarlo in questi giorni, così particolari. Infatti, la crisi del Coronavirus sembra colpire il canto corale nella sua essenzialità, la massa cantante. Ci stanno dicendo: «per il bene di tutti, evitate di raggrupparvi, stabilite le distanze». Non sarà che, alla fine, rallentare, allargare, spazializzare non era soltanto una moda, ma un presagio futuro. Una coralità ancora più rarefatta, distanziata … dispersa?

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“Masterizzatori”

Una masterclass dovrebbe essere una breve e intensa esperienza formativa, riservata a un gruppo ristretto di studenti eccellenti, svolta sotto la guida di un docente di alto livello.
Una volta, l’avrebbero chiamata lectio magistralis.
Mi viene in mente quella celebre, pronunciata da Goffredo Parise, pochi mesi prima di morire, nell’Aula magna dell’Università di Padova; e poi, le famose Lezioni americane, preparate da Italo Calvino, in vista di un ciclo di conferenze da svolgersi presso l’Università di Harvard, ciclo che non si è mai tenuto, a causa della scomparsa prematura dello scrittore.

Attualmente, basta col latino. Per attrarre una più ampia utenza, si è passati al termine trendy di masterclass. Cambiano i tempi, cambia il linguaggio. Ma, spesso, cambia anche la sostanza.

Fa una certa impressione scorrere vecchie immagini, che ritraggono grandi maestri impartire insegnamenti a futuri grandi musicisti.

Friedrich Gulda con Martha Argerich, nel 1956.

Luigi Dallapiccola con Luciano Berio, nel 1952

 

Franco Ferrara con Riccardo Muti, nel 1965

 

Serge Koussevitzky con Leonard Bernstein, nel 1944

Questo in passato… e oggi?

Le masterclass non sono più esclusive. Proliferano a tutti i livelli. Basta sfogliare le pagine web e aprire il portafoglio.
Ai grandi maestri si sono aggiunti molti “masterizzatori”, per lo più abili nel piazzare attraenti elisir di formazione.
Docenti d’ogni specie, “boni e tristi” (come si dice, dalle mie parti), giovani neopatentati e maturi pluridecorati, divulgano regolette da manuale a schiere di discepoli ansiosi di raccogliere ricette, che facilitino il loro (acerbo) saper fare.

Il talento e la reale competenza, degli uni e degli altri, sono requisiti del tutto secondari.

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Liturgie corali

Qualche giorno fa, si è svolto, sull’Altopiano della Lessinia, un evento, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone.
Sorvolo sui contenuti della manifestazione.
Ciò che mi ha colpito, è stato il suo epilogo.
La folla, radunatasi al cospetto di una sorta di officiante, si è esibita in un’orazione: “La preghiera per la Lessinia”.
Al di là delle parole pronunciate, le persone hanno riprodotto l’effetto sonoro di una preghiera collettiva (o, più precisamente, di una litania), come quelle che si ascoltano nelle chiese.
È evidente che si è voluto rappresentare una forma di liturgia laica della natura, nella natura.


L’episodio mi ha suggerito un accostamento.
Anche in ambito corale, assistiamo a raduni e assembramenti, che terminano con momenti di open singing (così li chiamano).
Situazioni particolari, che si differenziano dal concerto. Nel concerto, infatti, c’è separazione tra gli esecutori e il pubblico. Ma al centro dell’interesse di entrambi c’è l’opera artistico-musicale.
Nell’open singing, invece, tutto gravita attorno a un gioioso coinvolgimento di body and soul: abbraccio comunitario, omologazione, benessere spirituale; apoteosi dell’internazionalismo, dei simboli, dei miti, delle utopie; museificazione dei luoghi.

E la musica, che ci sta a fare?… forse è solo un veicolo.


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Musica fuori concorso

Chi mi conosce, sa già di questo vecchio proposito. E cioè che, compiuti i quarant’anni, non avrei più partecipato a concorsi. Perché? Perché sono convinto che i concorsi siano un’opportunità per i giovani. Se, oltre i quarant’anni, sei ancora in attesa di essere riconosciuto, forse, significa che hai intrapreso una strada sbagliata. Meglio occuparsi d’altro.
Ora, siamo nel 2020. Venti più venti fa quaranta. È giunto il momento di fissare un altro proposito: non parteciperò più a giurie di concorsi.
Quello del giurato (soprattutto nei concorsi corali) è un ruolo che ho interpretato, a volte, con un certo disagio.
È vero, nei giudizi, sono sempre stato netto e rapido. Forte della convinzione che l’errore è perdonabile, se la valutazione è presa in coerenza con la propria scala di valori e con il proprio sentire; lontana da compromessi e da sodalizi sottotraccia.
Ma non mi ha mai convinto il fatto che il mio giudizio – giusto o sbagliato che fosse – dovesse avere una marcata ricaduta sulla valutazione pubblica di altri.
Chi sono, per avocare a me stesso questa autorità di giudizio?
Ultimamente, i concorsi corali si sono moltiplicati, grazie al diffondersi della lodevole intraprendenza di generosi organizzatori.
Molti gruppi si cimentano. Ma c’è il rischio che, di fatto, la competizione venga anteposta al fare musica. Si spacciano questi eventi per festevoli raduni e serene occasioni di confronto; ma altro non sono che gare, alle quali si partecipa per essere giudicati più o meno meritevoli di altri.
Insomma, la competizione costituisce la sostanza spettacolare di questi eventi. La competizione con i suoi riti: l’esperta giuria, il patron onnipotente, la passerella, la catalogazione in generi, la disputa, la suspense della proclamazione, la celebrazione dei vincitori, la delusione degli sconfitti, i commenti degli astanti, la soddisfazione dell’organizzazione, e così via.
La musica e l’arte non più protagoniste, ma relegate a pretesto.
È giunta, pertanto, l’ora di far valere ancora una volta il principio del quaranta.

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Campane, morti e… cani

Una sera della scorsa estate, stavo a spasso con il cane. Mentre si udiva il suono di una campana, ho incrociato per strada tre anziane signore. Una di loro ha detto: «Se l’è la campana de drìo, l’è ‘na dona» («Se è la campana che sta dietro, a suonare, allora, si tratta di una donna»).
Il riferimento è all’usanza ancora in corso in paese. Appena si sparge la notizia, che è morta una persona, suona una campana, con un certo rintocco.
Non sapevo, però, che ci fosse una distinzione tra la campana davanti e la campana de drìo.
Al che, mi sono avvicinato al campanile e ho alzato lo sguardo verso la cella campanaria.
La campana aveva già smesso i suoi rintocchi. Ma mi interessava localizzare la campana davanti. Mi sono rivolto a quella, col pensiero. Le ho detto: «Ti, sta ferma e no’ movarte!» («Tu, stai ferma, non muoverti!»)

Alle campane, bisogna farci orecchio.
Il mio cane è indifferente ai battiti delle ore, al suono dell’Ave Maria, o dell’Angelus, e anche alle campane da morto.
La sua attenzione è attratta, invece, dalle campane “a festa”. Quando suonano, risponde ululando.
Pare che si tratti di un’allucinazione acustica, che risveglia un comportamento atavico. Certi armonici prodotti dalle campane “a festa” vengono confusi dal cane per l’ululato di un suo simile, che si è smarrito dal branco.
L’ululato con il quale, a sua volta, risponde, è per confortarlo, facendogli sentire la vicinanza.

Da qualche tempo, sono state tolte le campane dalla cella campanaria, e sostituite con degli altoparlanti che diffondono scampanii preregistrati (alquanto distorti, per la verità).
Non so se si tratti di una sistemazione temporanea.
Fatto sta, che il mio cane non ha apprezzato. Non ulula più. Evidentemente, preferiva l’originale all’artefatto.

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Sillabari corali: “Y”

YVER

per coro misto a cappella (1908)

di Claude Debussy

Yver fu pubblicata nel 1908, come ultimo pezzo della trilogia Trois Chansons de Charles d’Orléans. Ma la sua composizione risale a qualche anno prima. Fu infatti realizzato nel 1898, per un coro amatoriale che lo stesso Debussy dirigeva in quel periodo.
I benedettini di Solesmes, i Chanteurs de St. Gervais, la Schola Cantorum di Parigi, hanno rivestito un ruolo fondamentale nel contesto del revival della musica antica in Francia, e hanno rappresentato un’influenza particolarmente significativa anche sulla musica di Claude Debussy.
In un’intervista del 1910 al Paris-Journal, Debussy rivela la sua profonda ammirazione per i vecchi maestri del XVI secolo: «Loro sono la musica stessa, la forza elementare alla quale nulla resiste».

L’omaggio all’antico è evidente, innanzitutto, nella scelta del testo, quello di un poeta di epoca rinascimentale, Charles d’Orléans (1394-1465), appunto.

Yver, vous n’estes qu’un villain;
Esté est plaisant et gentil,
En tesmoing de May et d’Avril
Qui l’acompaignent soir et main.

Esté revest champs, bois et fleurs,
De sa livrée de verdure
Et de maintes autres couleurs,
Par l’ordonnance de Nature.

Mais vous, Yver, trop estes plain
De nège, vent, pluye et grézil;
On vous deust banir en essil.
Sans point flater, je parle plain,
Yver, vous n’estes qu’un villain!

[Inverno sei cattivo.
Estate è piacevole e gentile.
Lo testimoniano Maggio e Aprile
che l’accompagnano sera e mattino.

Estate riveste i campi, boschi e fiori
del suo abito di verde
e tanti altri colori,
secondo l’ordine di natura.

Inverno, ma tu Inverno, sei troppo pieno di neve,
di neve, vento, pioggia e nevischio.
Bisognerebbe mandarti in esilio.
Non ti lodo – io parlo chiaro –
Inverno sei cattivo.]

La forma ternaria poetica (abba, cdcd, abbaa) è ricalcata da quella musicale: A (batt. 1-22); B (batt. 22-47); A (batt. 47-70).
Il contesto stilistico generale è quello di una ripresa, in chiave moderna, della maniera della polifonia antica. Indizio inequivocabile dell’influsso esercitato dalla musica corale antica in un musicista che annoveriamo tra i capostipiti della modernità.
Il testo ci parla delle opposte stagioni: il cattivo inverno e la gentile estate. Quest’opposizione – che, metaforicamente, possiamo ricondurre agli stati d’animo di fastidio e piacevolezza – viene espressa in musica attraverso contrasti di scrittura.
L’inverno è caratterizzato da tessiture polifoniche nette, ritmicamente agitate e spigolose.

C. Debussy, Yver, es. 01 

L’estate da un profilo vocale omoritmico, più regolare, cantabile e sinuoso.

C. Debussy, Yver, es. 02 

Il quadro formale non è, però, così rigidamente compartimentato per contenuti espressivi. Il linguaggio musicale del grande compositore francese affascina per l’innesto di fattori ambigui e sorprendenti, che promuovono il superamento della facile previsione e della quadratura degli schemi.
Infatti, nella sezione A, s’insinua già un elemento di piacevolezza che anticipa la natura languida e amabile dell’estate.

C. Debussy, Yver, es. 03 

Analogamente, nella sezione B, irrompono brutalmente i tratti ruvidi dell’inverno.

C. Debussy, Yver, es. 04 

Queste ultime osservazioni mettono in luce, ripeto, una delle qualità assolute del linguaggio musicale di Debussy. Cioè la naturalezza, la flessibilità e l’antidogmatismo attraverso cui cui gli elementi musicali (molto variegati nell’inventiva) si susseguono con continuità e coerenza di stile e nel rispetto dell’impianto formale.

C. Debussy, Yver, vous n’estes qu’un villain


 


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Sillabari corali: “W”

WARM-UP

per 6 voci miste (1969)

di Leonard Bernstein

Warm-Up è una breve composizione di Leonard Bernstein, dedicata a Abraham Kaplan, il quale la eseguì per la prima volta a New York, nel 1969, alla guida della Camerata Singers.
Nel dettaglio, si tratta di un canone, a sei voci miste e hand-clapping, su un ritmo shuffle.

Prima parte (A), esposizione della melodia all’unisono, poi, canone, in canto scat; quindi, un breve episodio centrale omoritmico («Alleluia»), sequenza di armonie parallele dissonanti; infine, una coda, in cui viene ripreso il canone-scat (A).

Stando alle date, Warm-Up è stato composto prima, o contemporaneamente, a Mass, l’ampia azione teatrale per cantanti, attori e ballerini, la cui prima esecuzione risale al 1971. Com’è noto Mass consiste in un poliedrico e caleidoscopico collage, in cui sono racchiusi pezzi classici, dodecafonici, gospel, pop-rock, jazz, marching band, musical-Broadway e tanto altro.
Bernstein ha integrato Warm-Up in Mass. Lì, infatti, il brano costituisce la terza sezione («Responsory: “Alleluia”») della prima parte di Mass stessa (denomintata «Devotions Before Mass»). In Mass il brano è preregistrato e affidato a sei voci sole, con accompagnamento di celesta, marimba, vibrafono, glockenspiel, campane e batteria.

Leonard Bernstein, Responsory: “Alleluia”, da Mass (ovvero, Warm-Up, A Round for Chorus

Ma la cosa interessante è che non si tratta di un innesto del tutto eterogeneo. E’ vero, si presenta come una netta rottura di contesto stilistico: dall’arioso del celebrante («Hymn and Psalm: “Simple Song”», il pezzo composto in origine come colonna sonora per il film Fratello sole, Sorella luna di F. Zeffirelli), al vocal-jazz polifonico. Ma le analogie degli incisi melodici (tra Warm-Up e il brano precedente), rivelano un legame tematico di fondo.

Leonard Bernstein, Hymn and Psalm: “Simple Song”, da Mass

Si tratta di un’osservazione particolarmente significativa, per comprendere una cifra fondamentale del linguaggio di Bernstein, cioè il suo stile eclettico. Un eclettismo non fine a se stesso, ma intriso di correlazioni, più o meno manifeste, che tengono insieme e assicurano unità ai diversi linguaggi.


 

https://www.youtube.com/watch?v=QuNGlHjkiYI


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