I concorsi di composizione corale

Compiuti i quarant’anni, stop ai concorsi di composizione. A partire dal 2020, basta giurato nei concorsi di esecuzione corale. Ora, fatti i 60, mi verrebbe da dire mai più giurato nei concorsi di composizione corale.
Perché? Provo a spiegarmi.
Sono stato, per diverse volte, membro di giuria in concorsi di composizione nazionali ed internazionali. Col passare degli anni, ho osservato che la qualità dei lavori presentati è peggiorata gravemente. Ecco – si dirà – problema mio; è il solito sintomo dell’età che avanza e della conseguente perdita di capacità di “leggere” la contemporaneità. Rincoglionimento, in parole povere. Può darsi. La nostalgia e la sopravvalutazione del passato, combinato col giudizio di decadimento del presente, è un atteggiamento comune (e comprensibile, dài), in coloro che si accingono a varcare la soglia della terza età.

Però, però… lasciatemi esprimere quanto segue.

È fuor di dubbio che quarant’anni fa, quando nelle classi di composizione ancora ci si misurava intensamente con il contrappunto e la fuga, gli aspiranti compositori acquisivano tutti un minimo di destrezza nel collegare due accordi “come dio comanda” e nel condurre le parti secondo un certo criterio.
Di quella scuola è stata fatta tabula rasa, in virtù di presunti modernismi e sperimentazioni, che male tollerano prassi didattiche considerate antiquate. Risultato, alcuni (molto pochi), muniti di spalle larghe, maturano autonomamente abilità tecnico-stilistiche solide; tutti gli altri (e sono tantissimi) navigano a vista, nell’illusione che l’arte della composizione musicale si riduca ad un affastellamento di suoni, secondo il principio della libera invenzione e del supposto talento di cui madre natura ha fatto loro dono.

Ad aggravare la situazione, nel senso di una totale perdita di consapevolezza del mestiere, si è aggiunta la tecnologia. I software di scrittura musicale, il cui scopo altro non dovrebbe essere che quello di superare la stesura manuale delle partiture e favorirne la circolazione in forma digitale, sono diventati, per i compositori imperiti, un inappropriato strumento di verifica del loro procedere sostanzialmente a tentoni (più precisamente in musica, “ad orecchio”).

Morale, nelle giurie dei concorsi di composizione non si fa altro che visionare una marea di improbabili partiture, che sono state realizzate attraverso ripetuti tentativi di mettere in fila un suono dopo l’altro, col proposito di emulare (attraverso maldestre operazioni di copia-incolla) altrui suggestioni sonore, oggi particolarmente in voga, e pure quelle artisticamente poco consistenti; il tutto fatto ricorrendo compulsivamente al tasto play del pc.

Prima dell’avvento del computer, c’era chi componeva al pianoforte. È vero, era più o meno la stessa cosa; ma con la differenza che, allora, bisognava avere imparato almeno a suonare il pianoforte!

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Lavorare con Mario Mora

Mi è stato chiesto: «Com’è lavorare con Mario Mora?». Al momento, non ho saputo dire granché. Ci ho ripensato. Questa è una storia esemplare.

Estate 2016. Mario vuole inserire nel programma di Natale Hark! the herald, angel sing, una melodia di Felix Mendelssohn, che accompagna un testo di C. Wesley, entrata nella tradizione anglosassone nella versione armonica di W.H. Cummings. Mario vuole mantenere il controcanto superiore, che D. Willcocks ha utilizzato nella terza strofa. Insomma, si tratta di ridurre da voci miste a voci pari e riformulare prima e seconda strofa, mantenendo l’impianto tradizionale del canto.

Primo passaggio. Si familiarizza con il canto, durante la vacanza-studio: direttore, compositore e I Piccoli Musici.

Quindi, mi metto al lavoro sul serio.
Libero un po’ le parti dalla rigida verticalità, inserendo qualche movimento in imitazione, giusto per valorizzare anche le linee interne.
Esecuzione dopo esecuzione, il brano prende nuove forme.
Altre richieste di Mario: prima con organo e tromba, l’anno dopo con organo e violino.

Natale 2021, Basilica di Assisi, eccolo nella versione definitiva. Orchestra d’archi e la parte della tromba “un po’ più spinta” (brava la prima tromba della RAI), in una veste che richiama lo stile barocco.

Cinque anni per tre minuti di musica!

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Quarantena musicale #02

Nel 1705, il ventenne Johann Sebastian Bach affrontò un viaggio a piedi di circa 400 chilometri (da Arnstadt a Lubecca), per ascoltare Dietrich Buxtehude, allora famosissimo maestro nell’arte organistica, alle prese con le Abendmusiken.

Lubecca, Marienkirche, prima del 1942

Oggi, un giovane studente, arricchisce la propria formazione comodamente da casa, aderendo a un percorso di approfondimento, offerto dalla didattica a distanza. Opportunità tecnologica, attraverso cui si è cercato di compensare la forzata interruzione degli spostamenti, a causa del Covid-19 (tra l’altro – a detta di alcuni – un riassetto, che, in futuro, potrebbe costituire un vantaggio per il decongestionamento e il rispetto dell’ambiente).

Ma il coinvolgimento emotivo, determinato dal fatto di essere fisicamente presenti, gioca un ruolo fondamentale nell’esperienza formativa: imprime ad essa il marchio dell’apprendimento indelebile.

Inoltre, quanto forte e impellente dev’essere stata la motivazione che spinse un giovane, all’alba del XVIII secolo, ad affrontare e sopportare la fatica di un viaggio di 400 chilometri a piedi «per apprendervi vari aspetti relativi alla sua arte» (sono parole di Bach stesso)!

Probabile ritratto di Bach da giovane

Fatica del tutto imparagonabile all’agio, in virtù del quale, d’ora in avanti, sarà possibile (anche per capriccio, o noia) accedere a specializzazioni on-line.

Insomma, il valore di un’esperienza formativa di alto livello è dato anche dal costo fisico che ne comporta l’accesso.
Sono convinto che “muovere il culo” (mi si perdoni l’espressione) faccia bene, anche in questo senso.

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Quarantena corale #3

Gradualmente, le curve dei contagi scendono e l’emergenza sanitaria si attenua.

Ma il mondo corale, da subito trasferitosi in rete, con un’overdose di virtual choir, è ancora fermo al palo. Trattenuto, nella ripresa, da allarmanti previsioni di nuovi focolai, che potrebbero essere alimentati dai “vapori” delle onde sonore reali.

Non si perdono d’animo i “masterizzatori” (https://www.maurozuccante.com/wordpress/masterizzatori.html). Convertono in digitale i loro sermoni. Ed ecco (complice la maneggevolezza della piattaforma Zoom), il ricco fiorire di videoconferenze (ma webinar fa più figo) su tematiche, più o meno attinenti alla musica e al mondo corale, in particolare.

E così, si ristabiliscono i ruoli. Da una parte, l’oligarchia dei “masterizzatori” a pontificare; dall’altra, i cantori (illusisi, per poco, di mantenere una parvenza di protagonismo con le “cantate a distanza”), ad ascoltare e a cliccare like.

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Quarantena musicale #01

Stop alle attività musicali fino al 31 dicembre 2020! È la peggiore delle ipotesi che circola.
No, dài. Facciamo gli scongiuri e speriamo in un miracolo della scienza, che ci liberi in anticipo dai vincoli catastrofici del distanziamento sociale.
Di certo, più tempo passiamo in questa condizione, più aumenta, nelle persone, la disaffezione per la vita di prima.

Da ragazzino, immaginavo un’epoca di finis musicæ. Forse, ci sarà, ma in un futuro così lontano, da non assistervi. Credo, però, che potremmo assistere, a breve, a una renovatio musicæ.

Una delle estreme conseguenze di questo stop forzato potrebbe essere, infatti, l’estinzione del concerto musicale, inteso come forma e luogo.
Che i concerti fossero in crisi, l’avevamo già capito. Pubblico in diminuzione e formato, per lo più, da persone anziane. Giovani orientati verso l’ascolto-consumo della musica, sotto forma di “pillole on-line”.
Che il rito dei concerto pubblico sia destinato, prima o poi, a finire è scritto nella sua stessa genesi. La nascita del concerto pubblico è legata all’affermazione delle istituzioni borghesi, più o meno, a partire dal XVIII sec. È prevedibile, quindi che questo tipo di manifestazione si esaurisca col tramonto di quel determinato ciclo storico.

Ma da cosa verranno sostituiti i concerti? Da una proliferazione di proposte di ascolto on-line, mediocri e standardizzate?
Per carità, che incubo! Meglio la finis musicæ.

Come insegnano le narrazioni apocalittiche, dopo uno sconvolgimento, le persone ricostruiscono a partire dalle piccole cose.
Mi piacerebbe, allora, che coloro che sanno fare musica (intendo quelli che la sanno fare veramente!), ritrovino il piacere di ripartire dal piccolo ambito, dalle piccole forme e dal piccolo gruppo. Senza tanto strepito. Senza tanta vanagloria.

Non so chi siano. Presumo una famiglia. Ma è il video più emozionante e vero, in cui mi sono imbattuto, durante questo periodo di quarantena forzata.

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Quarantena corale #2

In principio fu Eric Whitacre nel 2009, con il Virtual Choir. Milioni di visualizzazioni per un video che fu anche una fortunata operazione di marketing pop. Palliativo di un ideale abbraccio sonoro universale. Dico palliativo perché, complice la tecnologia, si tratta di un trapasso illusorio da monadi che cantano, a monadi che ascoltano. Di fatto, celebrazione dell’isolamento.

Nell’attuale condizione di distanziamento sociale, molti cori stanno riesumando, in proprio, l’esperienza del virtual choir. Si sa, quando le proposte si moltiplicano, l’interesse si satura, e guardiamo questi video con un certo disincanto. Ma è umano lo sforzo di tener vivo un briciolo di coesione tra le persone.


Diceva Karlheinz Stockhausen, a proposito dell’ascolto dal vivo: « […] è necessario ascoltare nelle grandi sale. Lo spazio è spazio, è aria. È necessario avere un grande volume per muovere le molecole nell’aria. Questa è un’esperienza musicale speciale per la pelle, molto corporale».

A proposito, ricordo di aver assistito a Milano, nel 1984 (36 anni fa!), alla prima rappresentazione di Samstag aus Licht, opera dello stesso compositore tedesco.

Nell’ultima parte di questo spettacolo, Lucifers Abschied, un coro di 39 monaci circonda gli ascoltatori fisicamente e acusticamente. Sorprendenti ondate sonore tagliano l’aria in tutte le direzioni, voci singole e giaculatorie di massa avvolgono l’udito in una spirale di sensazioni, per una durata temporale, invero, abnorme.

Posso testimoniare che, pur a distanza di anni, non c’è ancora surrogato tecnologico che possa restituire la fisicità e il fascino di quell’esperienza di ascolto dal vivo in uno spazio reale.

https://www.youtube.com/watch?v=aW_hmyEWq0M

 

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Quarantena corale #1

Il 7 marzo scorso, molti ancora sottovalutavano gli effetti del Coronavirus. Quel giorno aggiunsi ad una mail, una postilla: « […] non vorrei sembrare una Cassandra, ma il mondo corale dopo il Coronavirus si riprenderà lentamente e, forse, per alcuni aspetti, non sarà come quello di prima».
Era il presentimento (per certi versi negativo) di qualcosa, che avrebbe stravolto le nostre attività musicali.

Ora, i contorni di questa calamità si sono fatti più chiari e concreti. Si può iniziare ad ipotizzare come sarà il dopo.

Festival e raduni corali riprenderanno a stento. La ripresa sarà, dapprima, limitata alle dimensioni locali e nazionali. Insomma, dovremo attendere un po’ prima che si ripristini quella movimentazione internazionale a cui ci eravamo abituati.
Poco male. Anzi, sarà l’occasione per riscoprire il valore di espressioni musicali più vicine ai nostri territori, alla nostra storia e alla nostra cultura.

Ma un triste effetto dell’epidemia lo verificheremo, quando alla conta dei coristi mancherà qualcuno. Come ne usciranno i cori che gentilmente definiamo “senior”? Perderemo d’un colpo una generazione di cantori, che hanno con passione contribuito a consolidare il mondo della coralità amatoriale?

«Natura non facit saltus», mi hanno insegnato. Comincio a dubitarne.

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Ammassamenti

Un giorno si dirà: «i cori al tempo del Coronavirus». Già, perché – com’era inevitabile – anche le attività corali hanno subito uno stop straordinario. Per quanto? Staremo a vedere. E poi? Ci sarà una ripresa, ma sarà graduale, faticosa e, forse, sotto alcuni aspetti, diversa da prima.

Mi ronza per la testa una questione. Una questione che, tempo fa, buttai lì, un po’ provocatoriamente. «Che cos’è un coro?» Mi fu prontamente risposto: «Uno strumento sonoro». Ecco, pensai, la solita fissa del suono, il sound, per dirla da fighi. Da quando spopolano le lagne dei cori nordici, tutti hanno sulla bocca ‘sta parola. E giù fiumi di atmosfere vocali fascinose e lente, che inondano le sale e le navate, per il godimento di pochi, ma estasiati ascoltatori.

Per me, invece, un coro è sempre stato una massa di persone che cantano, esprimendo un testo.

Soffermiamoci sul primo aspetto della definizione: il coro è una massa di persone.

Fa specie ricordarlo in questi giorni, così particolari. Infatti, la crisi del Coronavirus sembra colpire il canto corale nella sua essenzialità, la massa cantante. Ci stanno dicendo: «per il bene di tutti, evitate di raggrupparvi, stabilite le distanze». Non sarà che, alla fine, rallentare, allargare, spazializzare non era soltanto una moda, ma un presagio futuro. Una coralità ancora più rarefatta, distanziata … dispersa?

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“Masterizzatori”

Una masterclass dovrebbe essere una breve e intensa esperienza formativa, riservata a un gruppo ristretto di studenti eccellenti, svolta sotto la guida di un docente di alto livello.
Una volta, l’avrebbero chiamata lectio magistralis.
Mi viene in mente quella celebre, pronunciata da Goffredo Parise, pochi mesi prima di morire, nell’Aula magna dell’Università di Padova; e poi, le famose Lezioni americane, preparate da Italo Calvino, in vista di un ciclo di conferenze da svolgersi presso l’Università di Harvard, ciclo che non si è mai tenuto, a causa della scomparsa prematura dello scrittore.

Attualmente, basta col latino. Per attrarre una più ampia utenza, si è passati al termine trendy di masterclass. Cambiano i tempi, cambia il linguaggio. Ma, spesso, cambia anche la sostanza.

Fa una certa impressione scorrere vecchie immagini, che ritraggono grandi maestri impartire insegnamenti a futuri grandi musicisti.

Friedrich Gulda con Martha Argerich, nel 1956.

Luigi Dallapiccola con Luciano Berio, nel 1952

 

Franco Ferrara con Riccardo Muti, nel 1965

 

Serge Koussevitzky con Leonard Bernstein, nel 1944

Questo in passato… e oggi?

Le masterclass non sono più esclusive. Proliferano a tutti i livelli. Basta sfogliare le pagine web e aprire il portafoglio.
Ai grandi maestri si sono aggiunti molti “masterizzatori”, per lo più abili nel piazzare attraenti elisir di formazione.
Docenti d’ogni specie, “boni e tristi” (come si dice, dalle mie parti), giovani neopatentati e maturi pluridecorati, divulgano regolette da manuale a schiere di discepoli ansiosi di raccogliere ricette, che facilitino il loro (acerbo) saper fare.

Il talento e la reale competenza, degli uni e degli altri, sono requisiti del tutto secondari.

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Liturgie corali

Qualche giorno fa, si è svolto, sull’Altopiano della Lessinia, un evento, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone.
Sorvolo sui contenuti della manifestazione.
Ciò che mi ha colpito, è stato il suo epilogo.
La folla, radunatasi al cospetto di una sorta di officiante, si è esibita in un’orazione: “La preghiera per la Lessinia”.
Al di là delle parole pronunciate, le persone hanno riprodotto l’effetto sonoro di una preghiera collettiva (o, più precisamente, di una litania), come quelle che si ascoltano nelle chiese.
È evidente che si è voluto rappresentare una forma di liturgia laica della natura, nella natura.


L’episodio mi ha suggerito un accostamento.
Anche in ambito corale, assistiamo a raduni e assembramenti, che terminano con momenti di open singing (così li chiamano).
Situazioni particolari, che si differenziano dal concerto. Nel concerto, infatti, c’è separazione tra gli esecutori e il pubblico. Ma al centro dell’interesse di entrambi c’è l’opera artistico-musicale.
Nell’open singing, invece, tutto gravita attorno a un gioioso coinvolgimento di body and soul: abbraccio comunitario, omologazione, benessere spirituale; apoteosi dell’internazionalismo, dei simboli, dei miti, delle utopie; museificazione dei luoghi.

E la musica, che ci sta a fare?… forse è solo un veicolo.


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