Sillabari corali: “P”

PSALM 90

per coro misto, organo e campane (1923-1924)

di Charles Ives

Charles Ives fu un compositore volontariamente isolato dal mondo musicale a lui contemporaneo, ma per molti aspetti profetico e visionario. La sua opera è stata tardivamente apprezzata.
Psalm 90, per coro, organo e campane, fu abbozzato negli anni 1894-1901, ma compiuto e rivisto intorno al 1923-1924. Ives si è espresso favorevolmente in merito a questo suo lavoro, forse perché, in esso, era riuscito ad esprimere e sintetizzare al meglio la sperimentazione in campo armonico con le dottrine mistico-trascendentali, con la profondità, l’ampiezza e la drammaticità che sono contenute nel salmo stesso.


La composizione si suddivide, sostanzialmente, in due parti. La prima (vv. 1-13), più tetra e contrastante, in cui l’uomo teme la collera di Dio e soffre per la propria precaria condizione («come erba spunta al mattino e a sera è falciata e avvizzita»).

La seconda (vv. 14-17), più luminosa e omogenea, in cui si apre per l’uomo, riconciliatosi con Dio, una speranza di gioiosa ed eterna contemplazione («Saziaci al mattino con la tua grazia: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni»).

Psalm 90 è una composizione di straordinaria modernità. L’intero pezzo poggia sul do basso tenuto, per tutto l’arco del tempo, dal pedale dell’organo. Come l’Ison dell’antico canto bizantino (“la presenza dell’Eterno”). Spuntano i quartenakkord (“la creazione”) e formazioni accordali, eccezionalmente ampie (policordi), per sovrapposizioni di terze (“l’ira di Dio”).

Es.1

Es.2  

Ci sono schizzi sonori, in un contesto pressoché atonale. Ecco cosa compare nel versetto 10 («Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo»).

Es.3  

È celebre il passaggio in corrispondenza del versetto 9 («Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira, finiamo i nostri anni come un soffio»). Un’ondata sonora che culmina con un impressionante cluster di 22 suoni. Una struttura palindroma (situata, tra l’altro, al centro dell’intera composizione): accelerazione-decelerazione, apertura-chiusura, addensamento-rarefazione.

Es.4  

Ancora un palindromo al versetto 12 («Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore»). Una sequenza melodica ascendente-discendente di 7 triadi. I suoni fondamentali degli accordi seguono la successione della scala esatonale (Do, Sib, Sol#, Fa#, Mi, Re).


Es.5

Ma stupefacente è tutta la II parte del pezzo. Una lunga coda, in cui alle voci e all’organo (solo registro salicionale, come prescritto), si aggiunge un carillon di campane (3 campane e un gong basso). Campane “in distanza”, come precisa lo stesso Ives. Ma la distanza è data anche dallo scarto tonale tra gli ostinati delle campane e la tonalità d’impianto. Si tratta di una disposizione fonica che espande lo spazio sonoro in direzioni sublimi, lontano, in pianissimo («Discenda su di noi la bellezza del Signore, nostro Dio»). Una visione della “città celeste”; un caso, ante litteram, di spazializzazione sonora.


Es.6

Dopo Psalm 90, Ives non ha composto altro di significativo. Non male, però, Psalm 90, per uno che di mestiere faceva il direttore di una compagnia di assicurazioni!



 

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Sillabari corali: “O”

HÁROM ÖNARCKÉP

per coro misto a cappella (1981-1984)

di György Kurtág

György Kurtág ha proseguito, con coerenza e puntiglio, la via degli aforismi musicali weberniani. È approdato ad uno stile in cui formalismo e espressione stanno in perfetto equilibrio. Alta precisione e controllo delle strutture, da un lato, meticolosa individuazione della sfumatura espressiva che s’intende comunicare, dall’altro. Nella sua musica si coglie il lavoro di cesello sui frammenti e di riduzione della materia ad oggetti sonori essenziali. Oggetti sonori di concezione ora semplice, ora complessa. Un’arte, quella del compositore ungherese, che non è sfoggio gratuito di abilità di scrittura, ma messa a fuoco di quei nuclei che costituiscono la quintessenza del linguaggio musicale.
Három Önarckép (Tre Autoritratti) costituiscono un sottociclo all’interno della raccolta Eight Choruses, op. 23, su poesie di Dezső Tandori (1981-1984). L’intero lavoro è stato eseguito per la prima volta dai BBC Singers, diretti da John Poole, a Londra, nel 1984.

Tandori Dezső, ritratto

Negli Három Önarckép Kurtág mette a fuoco tre situazioni espressive differenti.
Il primo brano ruota attorno alla sensazione di sprofondamento nella palude, a cui si allude nel testo poetico: scivolamenti cromatici, glissati e cluster che, per densità, raggiungono il totale cromatico. Come si diceva sopra, il quadro generale di indeterminatezza è reso attraverso la precisione dei dettagli. Ecco, infatti, come il compositore dispone le scale cromatiche.

1. Már mocsarasodom  

Assoluta essenzialità nel secondo brano. Esplorazione della sonorità corale attraverso la netta distinzione di tre sole parti. Il canto dei tenori circoscritto da due linee estreme: bassi e voci femminili. Là dove si raggiunge il culmine del fervore e dell’abbandono espressivo (“Arioso”), la tessitura è spinta alle massime distanze, per richiudersi, in conclusione, nello spazio minimo.

2. H. királyfi mostohaapja előtt  

Nel terzo Önarckép la definizione di un suono quasi orchestrale rende necessaria una complessa suddivisione della massa corale. La creazione di evanescenti sfumature timbriche richiede il supporto di più parti, ciascuna nettamente delineata. A proposito della complessità della suddivisione della massa corale prevista in alcune situazioni dell’intero lavoro, l’autore precisa, nella prefazione, che l’esecuzione richiede 16 cantori per ciascuna voce, cioè 64 elementi.

3. Önarckép 1965-ből  


https://www.youtube.com/watch?v=3l4Iyj3qwtg


Come non ricordare, nel fremito delle quintine che nel terzo Önarckép circondano le singole note, il superbo movimento finale di Stele (capolavoro orchestrale di Kurtág), in cui un accordo vibra ripetutamente sulle quintine, a un ritmo più lento e inquietante.

https://www.youtube.com/watch?v=GXDyfW-l0Go


 

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Sillabari corali: “N”

NULLI SE DICIT MULIER MEA NUBERE MALLE

per tenore e coro misto a cappella (1943)

di Carl Orff

Nulli se dicit mulier mea nubere malle è il primo verso del Carme 70 di Catullo.
Carl Orff aveva già musicato una serie di carmina del poeta latino per coro a cappella nei primi anni Trenta, ma solo nel 1941 ha pensato di recuperare quelle composizioni, per farne l’asse portante di un lavoro teatrale, da accostare ai Carmina burana.
Ordinate secondo un filo conduttore narrativo, e incorniciate da un prologo ed un epilogo – che prevedono un intervento strumentale (4 pianoforti e percussioni) -, le brevi composizioni a cappella su testi di Catullo hanno dato vita ai Ludi scaenici intitolati, appunto, Catulli carmina (1943): un’opera drammaturgica, che s’ispira all’antico genere della commedia madrigalistica (cfr. Orazio Vecchi e Adriano Banchieri).
I Catulli carmina costituiscono, pertanto, il secondo episodio della trilogia, che si apre con i più celebri Carmina burana (1937), e che il compositore tedesco ha completato in seguito con il Trionfo di Afrodite (1953).

Nulli se dicit mulier mea nubere malle costituisce l’ultimo numero del I Atto («Odi et Amo») dei Catulli carmina.
Si tratta di un piccolo brano per tenore solista (Catullo) e coro a cappella, che esemplifica bene alcuni caratteri fondamentali della scrittura corale di Orff.
Il principio dalla percussione sillabica della parola-ritmo (martellante e ripetitiva). L’irrinunciabile ricorso alla lingua latina, intesa non solo come recupero delle radici classiche della cultura europea, ma anche come idioma ricco di elevate potenzialità ritmiche. Infine, altro carattere tipico dello stile di Orff, il procedere per giustapposizione e ripetizione di motivi, e l’esclusione di qualsiasi sorta di sviluppo.

A livello formale, la composizione ricalca l’impianto poetico.
Un doppio distico elegiaco, il cui fulcro è dato dal verbo «Dicit», che apre il terzo verso e che funge da snodo concettuale del carme.

Nulli se dicit mulier mea nubere malle
quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.

Ecco lo schema in base al quale Orff traduce musicalmente i versi di Catullo:
AA1sospensione – Bripresa di A1

A – Un rapido, leggero e danzante ritmo ternario scandito dalle voci femminili, per triadi parallele («la-le-ra, la, la, la, …»), accompagna il primo motivo del tenore solo («Nulli se dicere …»), che viene chiuso in eco da bassi e tenori.

Es. 1

A1 – Cadenza del solista («non si se Juppiter …»), sull’accordo tenuto dalle voci del coro.

Es. 2

Sospensione – Otto misure, in cui le voci saltellano sulle note mi, la («Dicit, dicit, dicit, …»).

Es. 3

B – Ripresa del ritmo danzante delle voci femminili, per terze, nel tono della dominante, e secondo motivo del tenore solo («Sed mulier cupido quod …»).

Es. 4

Ripresa di A1 – Ripetizione della cadenza del solista.
Questa volta la musica ben si allinea al contenuto del testo («in vento, in vento, […] et rapida scribere oportet acqua»). A livello espressivo, infatti, il madrigalismo rappresentato dal rapido saliscendi della cadenza del tenore solo sintetizza il senso argomentativo del brano: Catullo è afflitto dalla natura femminile, che è volubile; e vane sono le parole della sua donna, che si dissolvono nel vento e scorrono sull’acqua.

Es. 5



Il tema della donna volubile, capricciosa, girandola e infedele è ricorrente in musica.
Alcune celebri citazioni.

Mozart, Così fan tutte (1790), Atto I, È la fede delle femmine

https://www.youtube.com/watch?v=cpOW8685Mbk

 

Donizetti, Elisir d’amore (1832), Atto I, Chiedi all’aura lusinghiera

 

Verdi, Rigoletto (1851), Atto III, La donna è mobile

 

Bizet, Carmen (1875), Atto I, L’amour est un oiseau rebelle


 

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Sillabari corali: “M”

MAGNIFICAT

per coro misto a cappella (1979)

di Einojuhani Rautavaara

Composto nel 1979, questo lavoro appartiene al periodo in cui il compositore matura una propria consapevolezza stilistica, dopo essersi svincolato dalla lezione (all’epoca ancora molto adottata) della musica seriale. Per avere un riferimento, si ricorda che il Cantus Articus – la sua opera più nota – è del 1972.
Rautavaara ha dedicato il Magnificat  ad Astrid Riska, fondatrice e direttrice del Coro Jubilate di Helsinki. Il Magnificat è una composizione per coro a cappella a 8 voci miste, suddivisa in cinque movimenti.

C’è un tratto che accomuna le cinque parti. Riguarda l’aspetto stilistico. L’accoppiamento di eventi-oggetti, che scorrono su livelli sonori indipendenti. Una tecnica assimilabile al montaggio, al patchwork. La cura dei dettagli minimi è interna ai singoli oggetti sonori, è correlata alla maniera in cui essi sono definiti. Nella fase macroscopica di accoppiamento, invece, le interconnessioni tra gli oggetti vengono sostanzialmente trascurate, a favore di una giustapposizione per contrasto di caratteri (timbrici, ritmici, tonali, espressivi, o altro).

Nel primo movimento («Magnificat») gli oggetti sono: il pattern accordale fisso e di sfondo (quadriade: la, do, mi, sol), distribuito fra le parti di alto e tenore; e il duetto mosso e imitato, tra le due rimanenti voci estreme di soprano e basso.

Es. 1

Nel secondo movimento («Quia respexit – Et misericordia») l’opposizione di oggetti è data dal rapido intreccio di scale ascendenti e discendenti, per triadi parallele, eseguito dalle voci femminili; e dal vigoroso canto delle voci maschili (dapprima in ottava, quindi in canone per moto contrario), che spicca in primo piano.

Es. 2

Nel terzo movimento («Fecit potentiam») ancora opposizione tra voci femminili e voci maschili. Da una parte un motivo cadenzato e omoritmico di triadi parallele; dall’altra uno spunto melodico più libero, rubato e svolazzante, a due voci, che si muovono distanza di quinta.

Es. 3

Il quarto movimento («Suscepit Israel») presenta il missaggio tra due materiali contrastanti nel timbro: il brusìo di un rapido parlato-sillabato in pianissimo (sprechgesang dei tenori); e gli incisi melodici emergenti (bassi e alti in ottava), carichi di energia e di effetti dinamici e articolati nelle cadenze ritmiche.

Es. 4

Infine, nel quinto e conclusivo movimento («Gloria») sono abbinati le scansioni di un tricordo stretto (bassi) a una melodia (tenori), che denota richiami medievali.

Es. 5

Non s’intendano esaurite le osservazioni sui contenuti di questa composizione, che presenta sviluppi e aspetti qualitativi anche più complessi e interessanti. Non di meno, infatti, andrebbero rimarcati alcuni momenti particolarmente suggestivi e poetici, come l’evanescente conclusione del primo movimento, o la stretta finale del quarto movimento con l’elaborato canone delle voci femminili.

Es. 6

Es. 7


Ma – come si è detto – premeva soprattutto sottolineare il ricorrente apparire di eventi-oggetti sonori contrastanti, eppure giustapposti. Un connotato della scrittura, che probabilmente Rautavaara ha assimilato nell’esperienza americana di apprendistato. Sotto la guida di Vincent Persichetti e di Aaron Copland, il giovane compositore finlandese, infatti, ebbe modo di venire a contatto con alcuni standard tecnico-stilistici della musica americana del Novecento (politonalità, pandiatonismo, misture ritmico-timbriche, contaminazioni jazzistiche).







 

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Sillabari corali: “L”

THREE LULLABIES

per coro misto a cappella (1984, rev. 1991)

di Henryk Górecki

Parallelamente ad una convinta adesione alla fede cattolica, Henryk Górecki ha coltivato un forte attaccamento alla cultura e al folclore musicale della sua patria, la Polonia. Questo secondo aspetto è testimoniato dal frequente ricorrere di motivi popolari nelle sue opere. Egli ha assimilato la natura del canto popolare fin da bambino. Una prerogativa, che gli ha consentito di penetrarne la quintessenza.

Ecco, dunque, le Three Lullabies (Trzy kolysanki, 1984 – rev. 1991, anno della prima esecuzione), brevi composizioni fedelmente conformi, nella loro essenzialità espressiva, ai modelli primitivi. Le ninne nanne, ricordiamolo, sono forme archetipiche del canto umano. Condividono, presso le varie popolazioni, i tratti di estrema concisione formale e basilare comunicazione espressiva.

Górecki ha ricavato parole e melodie da una selezione di ninne nanne, pubblicata nel 1958, a cura di Hanna Kostyrko, e da un volume di opere di Oskar Kolberg, pubblicato nel 1963. Queste piccole realizzazioni del compositore polacco sono avvalorate da un’operazione di sintesi stilistica, che le rende parvenza di autentici reperti folclorici. Il tratto personale del musicista è individuabile solo in taluni, minuti dettagli. Vediamone alcuni.

La I ninna nanna (Usnijze mi, usnij) oscilla attorno alla cadenza sulla triade di do. Ma la tipologia degli accordi non è sempre la stessa. Inoltre, la chiusura sulla triade in secondo rivolto conferisce al brano una lieve sfumatura di sospensione.

Es. 1

La melodia della II ninna nanna (Kolyszze sie kolysz) si basa su una scala pentatonica. In conclusione, però, viene applicata un’estensione sull’ultima parola («zachova» la prima volta; «kochany» la seconda volta). Una ripetizione che sconfina dal modo: cadenza sulla nota si e sulla triade di sol maggiore.

Es. 2

Nella III ninna nanna (Nie piej, kurku, nie piej) la manipolazione e l’inventiva del compositore sono più palesi. La melodia del soprano, lineare ed espressiva, è combinata con il carattere nettamente contrastante dell’ostinato realizzato dalle altre voci. Si ha come la percezione di un ronzìo che disturba la quiete del sonno. Uno scombussolamento generato, oltre che dal contrasto di velocità, dal conflitto bitonale.

Es. 3

L’armonia e la quiete si ristabiliscono nella coda conclusiva («Nocka byla krótka…»). Una ripresa di poco variata del quadro iniziale (I ninna nanna). Una pagina che stabilisce un’unità formale inscindibile tra i tre pezzi. Infine, aggiungiamo che, dopo una pausa generale, c’è un “da capo in eco” (più lento – dolcissimo, «Lulaj, moja mala») del dondolìo degli accordi. Una conclusione ipnotica che svanisce, ancora una volta, sull’accordo sospeso di do.

Es. 4


Queste brevi osservazioni ci consentono di affermare che la particolare sobrietà di mezzi che caratterizzano in generale il linguaggio musicale di Górecki, non è l’effetto di un’operazione dettata da aride speculazioni teoriche, bensì l’esito di uno studio approfondito sulla sostanza del canto popolare. Uno studio confortato da un coinvolgimento spirituale molto intimo, sentito … “materno”.



 

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Sillabari corali: “K”

KNEPHAS

per coro misto a cappella (1990)

di Iannis Xenakis

Knephas (ovvero Oscurità) è stata composta da Iannis Xenakis in occasione della prematura morte dell’amico Maurice Fleuret, avvenuta nel 1990. Destinatario della prima esecuzione il New London Chamber Choir, complesso vocale altamente specializzato, al quale il compositore aveva già in passato affidato altri lavori. Knephas è una partitura estremamente complessa e tecnicamente difficile da eseguire. Richiede un minimo di 32 cantori. Il testo (o meglio non-testo) è basato su fonemi privi di significato.

Se qualcuno nutre ancora il dubbio della stretta affinità che unisce musica, matematica, geometria e (nello specifico caso di Xenakis) architettura, l’opera complessiva del compositore greco (naturalizzato francese) è la prova dell’infondatezza di questo stesso dubbio. Egli ha incarnato, nel nostro tempo, l’antico mondo pitagorico e parmenideo.

«Bach, Beethoven o Bartók quando scrivevano le loro composizioni facevano dei calcoli, sia pure relativamente semplici. Si trattava di calcolare, disporre secondo un dato ordine, compiere delle operazioni di organizzazione intellettuale, ma al di fuori di questi calcoli ci sono le decisioni che intervengono per fare in modo che quei calcoli siano più o meno evidenti, scompaiano momentaneamente in un gioco di ellissi e ritornino», I. Xenakis.


Coerente con i principi estetici del linguaggio musicale di Xenakis, Knephas si presenta come una partitura inespressiva e distaccata sul piano emotivo. Eppure, questa pagina corale impressiona sul piano dell’impatto sonoro e dell’accostamento drammatico dei suoi elementi costitutivi.

Bypassiamo la descrizione delle complesse formule e calcoli che generano la costruzione delle strutture compositive di Knephas. Limitiamoci a dire che la partitura è costruita con quattro tipologie di materiali. Questi materiali sono sottoposti, nell’arco del tempo, a vari processi di variazione di densità.

I elemento. Sequenza di accordi accentati; accordi che cambiano, ma senza un criterio di evoluzione armonica; piccoli cluster, intonati in apertura dalle voci femminili, che pungono come stridule pulsazioni; un quadro sonoro dall’effetto agghiacciante.

Es. 1

II elemento. Andamento omoritmico per voci parallele, o per moto contrario; come nello stile del corale semplice, si tratta di una successione lineare di accordi.

Es. 2

III elemento. Evoluzione dell’andamento “a corale”; contrappunto di progressioni accordali ritmicamente differenziate, sulla base di una suddivisione del coro in quattro gruppi: due gruppi di voci femminili e due gruppi di voci maschili; questa è la sezione in cui la trama vocale si fa più satura e avviluppata.

Es. 3

IV elemento. Scrittura melodica “risonante”, una novità tecnica nella scrittura corale di Xenakis; essa consiste nel fatto che il compositore prescrive che ciascuna nota della melodia sia tenuta da un cantore per la durata di una misura circa; ne risulta una banda sonora che muta, man mano che la melodia progredisce; un effetto sonoro di risonanza, che Xenakis definisce “halo”.

Es. 4


Chiude la composizione una sorprendente parodia di corale semplice omoritmico, con le voci che procedono tutte per moto parallelo; si percepiscono la melodia armonizzata e l’andamento fraseologico tipici della forma del corale. Questa sezione conclusiva sembra alludere a una sorta di epitaffio, un canto funebre in memoria dell’amico scomparso.

Es. 5


 

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Il Coro dell’Armata Rossa o Complesso Aleksandrov

Che in un sol colpo un incidente aereo si sia portato via il Coro e la Banda dell’Armata Rossa è sconcertante. Non c’è differenza tra le vittime per incidente. Il dolore per la perdita di un congiunto è lo stesso. È insopportabile, che si tratti di persona nota o meno. Ma in questo caso, allo strazio per la morte improvvisa dei singoli individui si aggiunge un lutto che ci riguarda come appartenenti alla comunità umana.

Un coro, infatti, ci rappresenta come collettività. E, se la sorte ci priva improvvisamente di questa proiezione ideale, perdiamo un aggancio fondamentale a cui sono saldate le nostre relazioni di appartenenza. Nella fattispecie, la missione del Coro dell’Armata Rossa era quella di tenere alto il valore della casacca (termine che indica propriamente la veste del cosacco). Ma per chi ha passione per la musica, l’idea di casacca identifica anche un repertorio, uno stile di canto, un impeto sonoro, che sono autentico patrimonio comune.

I disastri naturali incontenibili e le sciagure, le quali sono causa diretta o indiretta della nostra protervia, periodicamente azzerano i segni della storia umana. L’umanità allora ricostruisce i suoi miti, ne crea di nuovi. Ma ci vuol tempo. E quel che c’era e abbiamo conosciuto nell’arco di una singola e breve esistenza ce lo siamo perduto, come individui, per sempre.


https://www.youtube.com/watch?v=NA-QVFJVut8&feature=youtu.be


 

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Trasfigurazioni

Lungi da me l’idea di riprendere la questione intorno al falso storico conosciuto ed eseguito ancora oggi sotto il titolo di Ave Maria di Arcadelt.

P.L. Dietsch, Ave Maria (da Arcadelt), 1842

È risaputo che il brano, risalente al 1842, fu il frutto di un rimaneggiamento da parte di Pierre-Louis Dietsch della chanson profana di Jacques Arcadelt Nous voyons que les hommes (1554). Una pesante alterazione portata a termine in buona fede, o – a detta di alcuni – con intenzionale inganno. Ma ciò poco importa alla nostra riflessione.

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Jacques Arcadelt (1507 – 1568)

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Pierre-Louis Dietsch (1808 – 1865)

Di fatto, la falsa Ave Maria divenne fin da subito assai popolare. Tanto che, una ventina d’anni più tardi, Franz Liszt ne fece una parafrasi pianistica.

La rielaborazione di Liszt non è molto conosciuta, ma di valore. Questo ci interessa. Tre pagine, che richiamano l’asciuttezza dello “stile religioso” del compositore magiaro. Ma con una distinzione. Mentre altre composizioni sacre s’inquadrano nella missione di riforma della musica sacra (vd. lo scritto Sulla musica religiosa dell’avvenire, 1834), la destinazione pianistica colloca l’Ave Maria d’Arcadelt al di fuori della funzionalità liturgica.

La semplicità di scrittura si accorda parzialmente ai tratti austeri che ispirano le opere religiose più mature. Il pezzo sollecita invece una piacevolezza sensoriale d’ascolto del tutto mondana. L’aspetto pregevole del brano è, infatti, la qualità timbrica, che si apprezza nella sua cornice. Il tintinnìo di carillon che avvolge la melodia in apertura e in chiusura e l’insistenza nelle ottave acute del pianoforte creano una situazione sonora da berceuse, da rêverie. Insomma, una trasfigurazione, un momento di abbandono ad una dimensione di grazia privata. Ma si potrebbe anche aggiungere una ricollocazione (non consapevole, s’intende!) della melodia originale di Arcadelt alla sfera secolare.

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Franz Liszt (1811 – 1886)

Insomma, quello che mi sembra di cogliere in questa breve composizione non è il prodotto per il culto, o l’emanazione di un profondo sentire religioso, ma un delizioso saggio di colorito musicale, che consegue dalla raffinata perizia del grande pianista. Va detto che Liszt manifestò una religiosità sui generis: «… a Roma, poi, e fino alla fine della vita, mostra aperta repulsione per il dogma dell’Immacolata Concezione al punto da cambiar strada pur di non dover passare accanto al monumento romano che ne ricorda la promulgazione» (R. Dalmonte, Franz Liszt, Milano, 1983)

F. Liszt, Ave Maria d’Arcadelt, 1862

L’Ave Maria d’Arcadelt di Liszt fu pubblicata nel 1865 presso Peters, unitamente ad un Alleluia.


 

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Visso … un ricordo

Credo fosse il 13 agosto 2002, la prima volta che ascoltai gli arrangiamenti dei Cantautori italiani in coro. Un lavoro che avevo realizzato su incarico di Aldo Cicconofri. 19 canzoni, per coro e strumenti. Furono eseguite nella piazza di Visso. Un bel ricordo. 

Fu in quell’occasione, a Visso, che acquistai per la prima volta dei tartufi. La sera fece fresco, nonostante fossimo ancora in agosto. Poi finimmo a Tolentino, a festeggiare il dopo concerto. Forse Aldo suonò la fisarmonica. Facemmo tardi.
Quel progetto si concretizzò, in seguito, in un CD, pubblicato dal Coro Polifonico Città di Tolentino, naturalmente sotto la direzione di Aldo Cicconofri.
Ora il pensiero va a quei luoghi disastrati, agli amici di Tolentino, ad Aldo. Sono giorni molto difficili. Ma speriamo bene.
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Sillabari corali: “J”

JÉZUS ÉS A KUFÁROK

per coro misto a cappella (1934)

di Zoltán Kodály

Jézus és a kufárok (Gesù e i mercanti) è un mottetto per coro misto a cappella, composto da Zoltán Kodály nel 1934. È stato eseguito per la prima volta, nello stesso anno, a Kecskemét, sotto la direzione di Zoltán Vasarhelyi.
Per il testo letterario, il musicista ha assemblato degli estratti dai Vangeli di Giovanni e Marco.
… Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato» … (Giovanni: 2,13-16).
… E insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto un covo di ladri». Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento … (Marco: 11, 17-18).

Il brano si divide sostanzialmente in due parti. La prima, un colorito e animato affresco, in cui si descrivono le fasi concitate della cacciata dei mercanti dal tempio. La seconda, più pacata, in cui risuonano i moniti sacrosanti di Gesù. Alla prima parte, corrisponde una scrittura polifonica molto veloce e articolata. Alla seconda parte, uno stile di recitativo accompagnato più moderato e lineare.


Trattandosi di un lavoro originale, Jézus és a kufárok non contiene citazioni dirette dai canti popolari. Ma le invenzioni melodiche e ritmiche del brano evidenziano le ascendenze che gli studi intorno al folclore magiaro hanno esercitato sul linguaggio musicale di Kodály.
L’intervallo di quarta discendente, utilizzato come tipica chiusura melodica. I ritmi derivati dalla caratteristica accentuazione prosodica della lingua ungherese.

 
Es. 1

D’altro canto, compaiono anche i riferimenti agli stilemi della polifonia antica, seppur reinterpretati in un contesto armonico-modale moderno.
Gli squilli delle quinte vuote («… rovesciò i banchi… »)

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Es. 2

I movimenti per triadi parallele («… La mia casa sarà chiamata casa di preghiera… »)

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Es. 3

Le pitture sonore madrigalistiche («… scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi… »)

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Es. 4

I canoni all’ottava e alla quinta («… gettò a terra il denaro dei cambiavalute… »)

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Es. 5

Una composizione, dunque, che ben riassume l’arte di Zoltán Kodály, protesa verso la compenetrazione degli idiomi musicali derivati dal folclore con le forme colte della tradizione polifonica rinascimentale.

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Su tutto, però, domina il principio per cui i grandi contrasti dinamici e gli urti dissonanti non figurano come effetti gratuiti, ma accrescono lo stato di agitazione, la drammaticità della scena e la forma di partecipazione emotiva.

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Es. 6

cristoscacciamercanti-3Là dove tuona il rimprovero di Gesù, «… ne avete fatto un covo di ladri… », si sviluppa il momento più riuscito, intenso e coinvolgente del brano. Sul canto dei bassi echeggia il grido «Rablók! Rablók!» («Covo! Covo!»), che declina cromaticamente dalla tessitura acuta e gradualmente si spegne in pianissimo nel registro grave.

 
Es. 7 

 



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