Sillabari corali: “H”

A HYMN OF ST. COLUMBA

per coro misto, e organo (1962)

di Benjamin Britten

Un paio di giorni prima che il 1962 – un anno al quale ci si affeziona per vari motivi – volgesse al termine, Benjamin Britten ultimò la composizione di A Hymn of St. Columba, per coro e organo.

Il testo è attribuito a San Columba di Iona, un monaco irlandese che, nell’Alto Medioevo, si spese per l’evangelizzazione delle popolazioni scozzesi.
I versi sono pervasi da un senso di inquietudine, come se qualcosa di drammatico fosse sul punto di accadere. L’imminente giorno del giudizio. Gli orrori e i tormenti che subiranno i malvagi nel giorno del giudizio sono ormai prossimi. Insomma, un testo-parafrasi del Dies irae.

Regis regum rectissimi
prope est dies Domini
dies irae et vindictae,
tenebrarum et nebulae,
Regis regum rectissimi.

Diesque mirabilium
tonitruorum fortium,
dies quoque angustiae,
maeroris ac tristiae.
Regis regum rectissimi.

In quo cessabit mulierum
amor et desiderium
nominumque contentio
mundi hujus et cupido.
Regis regum rectissimi.

 


Questa piccola composizione corale di Britten fa seguito a un lavoro di grandi proporzioni e impegno, il War Requiem. In A Hymn of St. Columba si coglie l’eco del clima tremendo evocato nella precedente grande opera. Anche qui, un’atmosfera apocalittica incombe. Il rombo prodotto dall’ostinato ritmico di semitoni, sagacemente affidato alla pedaliera dell’organo, alimenta il clima d’angoscia.

Si trasfigura l’ostinato ritmico, allorché viene trasferito nella tessitura superiore dell’organo. Appare ora come una vellutata increspatura, che si sfrangia in pennellate cromatiche, segno dell’incertezza e della vulnerabilità del destino dell’uomo.

Es. 1, da A Hymn of St. Columba (1962)

Significativi sono alcuni passaggi armonici.
Ha un valore strutturale il nesso tra re min. e fa min.

S’ode una libera successione di triadi, che immaginiamo rappresentino gli squilli che annunciano il giorno del Giudizio.

Le oscillazioni tra triadi maggiori e minori – o meglio, tra modo lidio e modo frigio – interpretano l’inquietudine all’approssimarsi del temibile giorno.

Es. 2, da A Hymn of St. Columba (1962)

La compagine vocale è trattata in forme cangianti.
Ma su tutte domina il tema iniziale. Esso attacca in ottava, veemente ed irruente. E s’impone come idea dominante dell’intera composizione. Successivamente viene ripreso in canone. E’ come un ondata travolgente, che sembra alludere all’impeto e al fervore dello spirito missionario di San Columba.

Es. 3, da A Hymn of St. Columba (1962)

A Hymn of St. Columba non ha le dimensioni di un grande affresco musicale gotico, ma ne condensa – con maestria – le variopinte, tumultuose e contrastate sonorità.



Benjamin Britten, A Hymn of St. Columba (1962), per coro misto e organo

Es. 1, da A Hymn of St. Columba (1962)
Es. 2, da A Hymn of St. Columba (1962)
Es. 3, da A Hymn of St. Columba (1962)

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Domenico Monetta – intervista

DMonettaM. Zuccante: Domenico, possiamo considerare il 2015 un anno prospero di risultati positivi per il Coro La Rupe. I successi ottenuti nei concorsi, in cui il coro si è messo alla prova, hanno sancito concordi giudizi di apprezzamento. Come hai vissuto, assieme al coro, questi felici momenti?

D. Monetta: Ebbene sì, possiamo davvero considerare questo 2015 un anno che rimarrà, nella ormai lunga storia del Coro La Rupe, come un segno tangibile per svariati motivi.
Per primo il fatto che il coro abbia aderito alla proposta di partecipare a due concorsi distanti solo una settimana fra di loro ha rappresentato di per se già un eccezione; ci tengo a dire che ogni cosa proposta al coro deve sempre essere comunque condivisa da tutti, altrimenti si rischia di compromettere alcuni elementi importanti tra cui l’esito artistico.
Un’altra cosa fondamentale era il fatto di dovere affrontare (e averne l’opportunità) un repertorio di rilievo, adatto a noi, ma che rispondesse ai requisiti dei concorsi.
Questo, per quanto ci riguarda, solitamente non si costruisce in pochi mesi ma con anni di lavoro didattico e approccio culturale.
Altro aspetto determinante che a mio avviso ha avuto un effetto notevole sui cantori e che dovrebbe essere il criterio su cui si basa la scelta dei concorsi, è stato che in pochi giorni avremmo potuto farci sentire da giurati di fama internazionale e quindi portare a casa sicuramente dei motivi di crescita e consigli utili indipendentemente dal risultato.
Dopo queste premesse, il fatto che poi i risultati si siano rivelati così generosi e appaganti è stato un tripudio di emozioni forti, vissute innanzitutto nei rispettivi luoghi dei concorsi (alcuni cantori non più giovanissimi con le lacrime agli occhi per la gioia non si scordano) dove però secondo me non c’era la piena lucidità e consapevolezza di quello che si era riusciti a creare grazie alla musica; forse non ce ne renderemo mai pienamente conto ma il nostro è un coro molto genuino, chi ci conosce lo sa, un gruppo di persone che sa divertirsi veramente! Il lunedì dopo il concorso di Fermo eravamo tutti insieme a pranzo per ricordare i bei momenti trascorsi il giorno prima; festa che è poi proseguita sia il sabato che la domenica dopo Verbania.
La vita corale è anche e soprattutto questo: condividere insieme i momenti di festa equivale condividere il fare musica al meglio delle proprie possibilità.
Questo è l’augurio che faccio a qualsiasi ensemble corale!

M. Zuccante: Il Coro La Rupe vanta una ragguardevole notorietà nel panorama della coralità amatoriale piemontese e nazionale. Vuoi brevemente tracciare la storia di questo complesso corale, fino al momento in cui tu stesso ne hai assunto la guida? Ma soffermati su Dante Conrero, una figura fondamentale e da rivalutare, non solo nel circoscritto ambito della storia del Coro La Rupe.

D. Monetta: In effetti negli anni devo dire che La Rupe si è creata una discreta fama e questo non di certo per merito mio! Tutti i miei predecessori hanno contribuito a mantenere e migliorare la salute del coro, infatti questo è stato il mio primo pensiero quando mi è stato proposto di proseguirne la direzione artistica.
C’è da dire che il materiale vocale è sempre stato piuttosto buono anche perché la tradizione vocale-musicale di Quincinetto, non per campanilismo, è riconosciuta da tutti i paesi limitrofi come una qualità piuttosto unica. Quando nacque il coro nel 1952 esisteva una cantoria di chiesa di tutto rispetto già da fine ‘800 che animava le funzioni festive e funebri cantando messe di Lorenzo Perosi e non solo!
Basti pensare che nel nostro paese, con poco più di mille abitanti esistono, oltre al coro, una banda musicale, gruppi spontanei vocali strumentali e due trombettisti di fama internazionale che militano nell’Orchestra Nazionale della Rai e nel Teatro Regio di Torino.
La cosa che però a mio avviso stupisce di più è che quasi in ogni famiglia c’è perlomeno una persona che fa o ha fatto parte di almeno uno di questi gruppi e nelle feste paesane è normale sentir suonare la fanfara e sentir cantare a più voci armonizzando semplicemente ad orecchio con lodevoli risultati.
Il nome “La Rupe” deriva da una roccia molto visibile sopra il paese dove tutti gli anni, fino a qualche decennio fa, il primo gennaio musicanti e cantori vi salivano per suonare e cantare augurando alla popolazione un buon anno nuovo.
In principio il Coro La Rupe (che inizialmente si chiamava Coro Alpino di Quincinetto) trovò la propria ispirazione nel mitico Coro S.A.T. di Trento.
Con l’arrivo del Maestro Dante Conrero (1923-1999) negli anni ’60, torinese di nascita giunto a Quincinetto per destino amoroso, ci fu la prima vera svolta di repertorio!
Dante, che studiò musica e armonia autonomamente, era di animo piuttosto malinconico (egli stesso si definiva pessimista) e in molti suoi brani traspare questa sua caratteristica, ma nello stesso tempo si percepisce una grande forza emotiva.
Egli diresse il coro per un decennio e trovando un terreno piuttosto fertile incominciò a proporre delle proprie armonizzazioni potendo quindi sperimentare direttamente sul campo i propri lavori e la propria sensibilità di compositore. Molto intelligentemente incominciò a sfornare brani in cui descriveva le montagne del luogo, le varie feste paesane e grazie ai suoi testi uniti alla musica rapì subito il cuore dei quincinettesi.
Da quel momento dunque il coro aveva i propri brani d’autore scritti appositamente per quell’ensemble e come ho accennato sopra, avendo a disposizione diverse voci naturali interessanti, sfruttò la situazione e inserì spesso parti solistiche nelle sue composizioni. Nacquero poi dalla sua penna anche alcune belle pagine musicali scritte su testi poetici e armonizzazioni di brani di stile popolare e tradizionale.
A metà anni ’90 il coro pensò bene di raccogliere buona parte di questi lavori e stamparli in un libro intitolato “Prende l’anima il tuo canto…” un verso tratto dal brano “Alpini nella steppa” che ormai viene eseguito da diversi cori soprattutto veneti. Prossimamente penso che metteremo sul nostro sito le partiture dell’intera raccolta scaricabili online in modo che tutti possano usufruirne.
Nella domanda tu dicevi giustamente che Conrero è una figura da rivalutare. In questi ultimi decenni il Coro La Rupe, dove ha potuto farsi sentire anche oltre i propri confini regionali, è sempre stato un veicolo divulgativo di questa musica autoctona; infatti recentemente si comincia a vederne i frutti perché molti direttori mi chiedono le partiture, si interessano e propongono ai propri cori queste composizioni. Basti pensare che il brano sopracitato fece parte del repertorio di due cori maschili che vinsero il primo premio nelle ultime edizioni del concorso corale di Vittorio Veneto.
Se poi musicisti affermati ne apprezzano i contenuti e ne danno risalto, ovvio che la visibilità aumenta in modo esponenziale. Se Dante fosse ancora tra di noi e sapesse queste news ne andrebbe fiero. Noi come coro potremo fare mille esperienze artistiche diverse ma la sua musica non la accantoneremo mai: ormai è parte integrante de La Rupe e ne saremo sempre orgogliosi, soprattutto se qualcuno vorrà eseguirla!

M. Zuccante: Non credo che la tua direzione abbia stravolto la natura del Coro La Rupe. Ma qualche cambiamento l’hai introdotto. Vuoi definire con precisione alcuni obiettivi innovativi (nella metodologia didattica, nelle scelte artistiche), perseguiti in questo momento di passaggio?

D. Monetta: Hai pienamente ragione, io non ho stravolto nulla!
Molti elementi di questo coro hanno delle peculiarità dovute anche alla natura del canto spontaneo che se un giorno arrivasse un direttore e pensasse di introdurre dei metodi che non tengano conto di questa naturalezza penso non funzionerebbe. Mi spiego meglio! All’interno del gruppo non c’è nessun fenomeno vocale ma diversi elementi, cantando in modo così naturale dovuto senz’altro alla tradizione di cui parlavo prima, anche senza una grande tecnica riescono a trasmettere incredibili emozioni.
Detto questo però è impensabile non proporre delle innovazioni, dei percorsi sulla vocalità (che spesso mi vengono chiesti dai coristi stessi) delle masterclass con altri direttori, soprattutto se tutte queste cose aiutano a migliorare e ad ampliare gli orizzonti musicali.
Io prima di diventare direttore ho cantato in questo gruppo per vent’anni quindi ero in piena conoscenza delle tradizioni, delle abitudini giuste o sbagliate dei singoli cantori; assumendone la direzione questo è stato sicuramente un vantaggio sia per loro, perché sapevano che non avrei mai snaturato queste caratteristiche, sia per me, che ero consapevole delle cose che necessitavano di miglioramento o di cambiamento.
Le prime parole che dissi al coro nella prima prova furono: ragazzi proviamo, faremo insieme degli esperimenti, ma se poi non funziona si cambia direttore!
Anche perché io non avevo nessuna esperienza di direzione…
Come detto sopra iniziai a lavorare su quelle cose che a mio avviso non erano state affrontate in modo abbastanza profondo e una di queste fu senz’altro il fraseggio musicale basato sull’importanza del testo quindi il rispetto degli accenti tonici delle parole. Andando avanti poi a piccole dosi proposi di ampliare il repertorio allargandolo anche alla musica sacra dove il lavoro citato sopra poteva essere applicato fin da subito sui brani nuovi. Io dico sempre che sono stato fortunato col mio coro perché tutto quello che ho proposto in fatto di esperimenti o repertorio (sicuramente anche con qualche normale brontolio o perplessità) è stato accettato e riconosciuto come innovazione e crescita; questo grazie anche ad una certa apertura mentale. C’è poi da considerare che l’età dei coristi è piuttosto eterogenea e penso che in altre reali corali non sarei riuscito a fare quello che ho fatto con loro!
La cosa più bella è stata che man mano si affrontavano repertori musicalmente più impegnativi tutti si convincevano che non sarebbero più tornati indietro.
Ovviamente il bello di studiare pagine più classiche mi ha permesso di affrontare il discorso sulla vocalità e che dunque era necessario fare qualcosa per migliorarla o semplicemente provare a cambiarla per essere più coerenti con la filologia dei vari periodi storici che venivano affrontati. Non so se ci sono riuscito ma almeno un po’ di consapevolezza in più nei singoli cantori sono sicuro di averla inculcata.
Grazie poi a tutto questo nel 2013, per i sessant’anni del coro, ho coronato un mio piccolo obbiettivo e cioè quello di incidere un CD completamente dedicato alla musica sacra per coro maschile dal XVI sec. ad oggi. Questo è stato davvero un bel traguardo che però, come dissi ai coristi, doveva essere più che altro un punto di partenza per proseguire su una strada che non potrà far altro che dare soddisfazioni e crescita culturale.

M. Zuccante: Il coro di voci maschili ha conosciuto periodi di grande fortuna e gradimento, soprattutto se riferito all’archetipo del coro alpino. Uno standard diffusosi capillarmente nelle aree del Nord Italia. Quel modello – strettamente legato alla generazione dell’escursionismo montanaro di massa – ora stenta a rinnovarsi. Ritieni che ci si possa ispirare anche ad altre espressioni stilistiche musicali, per mantenere viva la tradizione della formazione corale virile?

D. Monetta: Proprio per quello che ho detto prima in base all’esperienza col mio coro assolutamente si! Intanto se io non avessi osato proporre e di conseguenza fatto conoscere altre espressioni musicali come le chiami tu (come del resto prima di me si era già tentato un approccio) non avremmo potuto neppure presentarci ad alcuni concorsi: infatti, al concorso di Fermo su tredici gruppi eravamo l’unico coro maschile.
Questa continua ricerca di repertorio però, al di là dei concorsi che non è assolutamente obbligatorio fare anche se secondo me uno ogni tanto dà stimoli e fa crescere, a mio avviso fa parte di quella sete di conoscenza che i coristi ma soprattutto i direttori dovrebbero avere! Tutto ciò non lo dico assolutamente per denigrare o mettere in secondo piano il repertorio alpino, anzi!, penso che questi brani rappresentino la tradizione del nord Italia appunto ed è giustissimo portarli avanti soprattutto dai numerosi gruppi che credono profondamente in questo genere; del resto l’ho detto prima: noi non dimenticheremo mai da dove veniamo.
La scelta del repertorio è tanto importante quanto difficile e ogni direttore dovrebbe sapere ciò che è più adatto al proprio coro, per poter esaltarne le qualità oppure per evitarne eccessive difficoltà!
Rimanendo però nella coralità maschile penso anche che certe pagine musicali non possano rimanere nel cassetto ma debbano essere fatte conoscere ai coristi anche solo come approccio didattico. Oggi abbiamo poi una fortuna in più che venti o trent’anni fa non c’era: aprendo internet si trova qualsiasi genere musicale da ascoltare e molte partiture scaricabili; e poi ogni tanto si può anche acquistare un po’ di musica, non fa mai male investire nella cultura!
Certo facendo di tutto un po’ si corre il rischio di non avere una vera e propria identità a differenza di certi gruppi che fanno solo un determinato genere, ma secondo me ne vale la pena.
Non sono però d’accordo che si debba fare per forza musica leggera per attirare dei giovani! Sono pienamente consapevole che è difficile il ricambio generazionale soprattutto nei cori maschili ma alle nuove generazioni va fatto capire che cantare è un’espressione unica che emoziona e dà emozione, che cantare in coro è una scuola di vita, che se si inizia a far parte di un coro la cosa più importante è la passione e la serietà! Se capiscono tutto questo e gli si fa conoscere l’esistenza di un repertorio corale lungo almeno cinquecento anni molto probabilmente se ne innamoreranno da soli e anche la coralità maschile avrà senz’altro un futuro!

M. Zuccante: Veniamo ora a conoscere il tuo percorso musicale. Quali sono state le tappe di formazione che ti hanno portato ad assumere la guida del coro?

D. Monetta: Sicuramente di tutta la chiacchierata questo punto risulta il meno interessante anche perché c’è molto poco da dire…
Una cosa è certa, non era tra i miei progetti fare il direttore di coro!
Sono entrato nella Rupe a 17 anni seguendo mio papà (che è stato un fondatore e vi ha cantato per cinquantatré anni) e dopo qualche anno si sono aggiunte esperienze parallele in altri cori polifonici e collaborazioni con ensemble vocali. Ampliando gli orizzonti della musica corale ho sentito la necessità di studiare un po’ di canto privatamente, ma non troppo, perché avevo sentito dire che se non si trovava l’insegnante giusto ci si poteva anche rovinare la voce…
Ho preso parte a qualche masterclass sulla musica barocca con alcuni docenti-cantanti di fama e per gli ensemble vocali con i mitici The Consort of Musicke & King’s Singers; ho fatto parte per una decina d’anni di un quintetto vocale chiamato Triacamusicale. Nel frattempo ho collaborato come corista aggiunto in alcune produzioni sinfoniche.
Poi nel 2008 il direttore de La Rupe pensò di prendersi una pausa e siccome da qualche anno ero stato eletto vice maestro (mi era capitato di dirigere tre volte in concerto) mi propose di proseguire il cammino. Io piuttosto sgomento perché conoscevo il peso di quella carica, mi presi un po’ di tempo per riflettere.
Visto poi che tutti i coristi erano propensi ed entusiasti nel darmi questa opportunità accettai onori e oneri.
Iniziata l’impresa (come periodo di prova dissi io) ovviamente non mi sentivo all’altezza della situazione allorché incominciai a guardarmi intorno per capire cosa avrei potuto fare per migliorarmi. Una manna dal cielo fu l’incontro col Maestro Dario Tabbia; venni a conoscenza che aveva istituito da poco un triennio per direttori di coro che si svolgeva a Torino un weekend al mese. Questo corso dal nome efficace “Il respiro è già canto” nacque a seguito della pubblicazione di un libro omonimo su degli appunti del Maestro Fosco Corti di Arezzo raccolti da Tabbia suo allievo.
Nella formazione era previsto uno spazio dedicato a lezioni di armonia (che per me era quasi arabo) col Maestro Alessandro Ruo Rui, di vocalità con Anna Seggi (moglie di Fosco Corti) e di tecnica di direzione con Dario Tabbia. Un atelier vero e proprio dove l’aspetto pratico è il punto forte perché ogni mese è previsto il lavoro con cori di qualsiasi tipologia. Un corso completo che personalmente mi ha illuminato e mi ha aperto un mondo nuovo su come cercare di risolvere le problematiche non solo della gestualità, ma anche di tutti gli altri aspetti che si devono affrontare durante una qualsiasi prova.
Come si sarà notato da questo mio scarno percorso musicale non si intravede neppure l’ombra di un qualsiasi diploma al conservatorio, purtroppo! Infatti mi capita spesso di leggere locandine in rassegne e concorsi e paragonare il mio curriculum a quello della maggior parte dei colleghi (alcuni dei mostri sacri) e sentirmi un po’ fuori luogo.
Poi però in fin dei conti, la gioia che percepisco nel vedere un pubblico emozionato per il coro che dirigo e i miei cantori che mi ringraziano per ciò che gli ho trasmesso, compensa di molto il rammarico di non aver studiato con più consapevolezza in gioventù!

M. Zuccante: Permettimi, Domenico, una considerazione del tutto personale. Ho osservato nella tua direzione una partecipazione corporea che trascende le regole di una certa compostezza nella gestualità. In particolare mi riferisco ai discreti, ma continui movimenti (avanti, indietro e laterali) dei tuoi piedi, alla flessione delle ginocchia. Sembra l’accennare a piccoli passi di danza. Un atteggiamento di direzione molto personale che non disturba, anzi sembra esaltare l’effetto sul coro. Ti riconosci?

D. Monetta: Quando capita di rivedermi dirigere sono piuttosto critico e alcuni gesti mi dico che avrei potuto almeno attenuarli. Da una parte questa tua considerazione mi preoccupa un po’ nel senso che se l’hai percepita è perché sicuramente si nota… spero non troppo! Dall’altra se dici che sembra esaltare l’effetto sul coro mi dà sollievo, perché se non altro li giustifica.
Facendo il corso di direzione ho notato palesemente su di me e anche su molti altri, che il lavoro più importante del docente (Tabbia) era quello di togliere gesti eccessivi!
Quando non si è sicuri di se stessi si aumentano i movimenti perché si pensa che altrimenti il coro non capirebbe; in realtà si crea solo confusione e affanno nel fraseggio musicale. Da questo punto di vista rispetto all’inizio penso di aver fatto un’importante riduzione di bracciate inutili. Se poi per strada ho aggiunto qualche movimento probabilmente sarà perché mi sono accorto che il coro rispondeva in modo positivo e a volte i cori amatoriali hanno un po’ bisogno di essere presi per mano e condotti verso la musica: questo lo deve fare il direttore! Quindi mi riconosco!
Ti ringrazio per questa domanda.

M. Zuccante: Ti ringrazio, Domenico, per questa breve chiacchierata. Ma accetta ancora un’ultima domanda. Come intravedi il futuro del tuo coro? Quali progetti e quali prospettive artistiche ti prefiguri per i prossimi anni?

D. Monetta: Innanzitutto il compito primario per mantenere in vita un coro è quello di cercare di seminare bene lanciando un messaggio sia di serietà che di divertimento, anche per raccogliere soprattutto ragazzi giovani e farli appassionare a questo mondo magnifico: questo è quello che ho cercato di fare sin dal mio arrivo assieme ai miei preziosi collaboratori (presidente, segretario, comitato) e che continueremo a fare in futuro.
Dal punto di vista artistico si possono aprire diversi orizzonti. Mai come in questi ultimi anni il Coro La Rupe ha ricevuto inviti di collaborazioni come coro aggiunto a produzioni sinfoniche e svariate proposte da parte di ensemble strumentali.
Il problema maggiore del nostro gruppo è quello della lettura musicale non proprio fluida, quindi io devo tenerne conto e prendermi i tempi necessari per permettere al coro di assimilare bene qualsiasi repertorio.
Questo è un punto fondamentale che riguarda molti cori amatoriali e bisogna fare in modo che i futuri elementi che vorranno avvicinarsi al mondo corale abbiano un minimo di alfabetizzazione musicale, così che tra qualche anno col ricambio generazionale ci saranno sempre più coristi indipendenti nella lettura.
Io dunque sono aperto a svariate esperienze musicali e anche se il destino del coro sarà quello di cantare prevalentemente a cappella non disdegno altre contaminazioni.
Ritornando ai brani a cappella sarei contento se La Rupe negli anni a venire ampliasse il proprio repertorio in modo tale da poter creare dei pacchetti musicali tematici e riuscire a dare sempre più un senso alle proposte artistiche. In questi ultimi anni ci siamo accorti che grazie alla tenacia e all’impegno da parte di tutti nell’affrontare determinati repertori, sono giunti anche inviti in certe rassegne di prestigio che fino a qualche tempo fa era impensabile potervi partecipare.
Il mio pensiero dunque, che è anche un augurio, è quello di perseverare su questa strada con tanta passione e trasporto ma, come ripeto spesso ai miei amici coristi, sempre al servizio della musica.
Una piccola considerazione prima di salutarci.
Il coro amatoriale fondamentalmente è fortunato perché, come dice la parola stessa, fa (e canta) quello che ama… A volte però la parola “amatoriale” viene un po’ travisata e serve per giustificare magari il risultato poco eccelso di alcuni cori! È vero che ognuno fa ciò che riesce e si lavora con ciò che si ha, però è anche vero che molte volte con l’ambizione del direttore unita alle risorse dei coristi si fanno miracoli!
La coralità italiana in questi anni ha dato una bella dimostrazione, migliorando in tutti i settori e questo sicuramente grazie alle scuole e agli atelier per i direttori e ai momenti di confronto in rassegne, masterclass, concorsi.
Non ci resta che continuare con questo passo!
Grazie Mauro per la possibilità che mi hai dato di raccontare un po’ di noi…
Buon canto a tutti i lettori!

CoroLaRupeIl Coro La Rupe di Quincinetto (TO)
[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/MZuccante-DaLOrienteSiamPartiti-CoroLaRupe-DMonetta-2010.mp3]

M. Zuccante, “Da l’Oriente siam partiti”, Coro La Rupe, D. Monetta, dir., 2010

Domenico Monetta è nato ad Ivrea (TO) nel 1971.
Nel 1988 con una grande passione per il canto trasmessa dal padre entra a far parte nei baritoni del Coro La Rupe di Quincinetto (To). Nel frattempo ha frequentato diverse masterclass in alcuni paesi europei per l’approfondimento della prassi esecutiva barocca coi docenti: Mark Tucher (1996), Jassica Cash, Evelyn Tubb & Andrew king (1999), Marius Van Altena (2002).
Parallelamente, ha preso parte attivamente all’attività dell’Associazione musicale Progetto Musica di Biella diretta dal M° Giulio Monaco, partecipando in qualità di membro dell’Insieme Vocale Solistico ad alcune incisioni discografiche dell’Opera Omnia sacra di Luca Marenzio per soli, coro e orchestra per l’etichetta Tactus.
Dal 1998 al 2009 ha collaborato stabilmente con l’Ensemble vocale Triacamusicale. Con questo gruppo vocale ha inciso un CD di musiche natalizie e uno sull’Opera Omnia sacra dell’autore boemo seicentesco Krystof Harant z Polzic A Bezdruzi. Ha preso parte alle lezioni del Prof. Diego Fratelli, docente di teoria rinascimentale presso l’Accademia di musica di Milano, sezione Musica Antica e nel 2003 ha partecipato alla masterclass tenuta dai King’Singers a Lubecca. Dal Gennaio 2004 fa parte dell’organico del Coro Filarmonico Ruggero Maghini di Torino diretto dal M° Claudio Chiavazza, che collabora regolarmente con l’Orchestra Rai di Torino.
Tra le varie produzioni Rai ha partecipato con il coro Maghini, i Piccoli Musici di Casazza e l’Orchestra Rai diretti da Wayne Marshall, allo storico concerto di Natale in Assisi (2007-2008) trasmesso il giorno stesso di Natale da Rai 1.
Da settembre 2008 diventa direttore del Coro La Rupe.
Dal 2009 per un triennio è iscritto al laboratorio di direzione corale Fosco Corti Il respiro è già canto, ideato e diretto da Dario Tabbia.
Dalla primavera del 2010 fa parte del Coro da Camera di Torino diretto da Dario Tabbia.
Nel maggio 2011 partecipa col Coro la Rupe al 45° Concorso nazionale corale di Vittorio Veneto  in tre diverse categorie, ottenedo un 1° un 2° e un 3° premio e il diploma come miglior direttore.


M. Zuccante, “Le chat”, Coro La Rupe, D. Monetta, dir., Fermo, 2015

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Sillabari corali: “G”

GOD IS WITH US

per coro misto, tenore e organo (1987)

di John Tavener

Composto per il Coro della Cattedrale di Winchester e per Martin Neary, che in quello stesso anno si ritirò dalla direzione del coro. Neary ha diretto la prima esecuzione di God is With Us, il 22 dicembre 1987.

Il testo è ricavato dal rito ortodosso della Grande Compieta, che si canta la Vigilia di Natale. Si basa su profezie bibliche.

God is with us.
Hear ye people, even to the uttermost end of the earth.
The people that walked in darkness have seen a great light. The people that dwell in the shadow of death,
upon them the light has shined.
For unto us a child is born! For unto us a son is given!
And the government shall be upon his shoulder.
And his name shall be called wonderful! Counsellor!
The mighty God, the everlasting Father, the prince of peace.
Hear ye people, even to the uttermost end of the earth. God is with us.
Christ is born!

Tavener definisce il brano «una Proclamazione di Natale». Questa non è un’opera in cui si esplora un mistero della fede, ma si afferma un atto di fede.

God is with us è una composizione “teologico-musicale”. Un ponte tra il linguaggio musicale d’oriente (prima parte a cappella) e quello d’occidente (sezione conclusiva-extra con l’entrata dell’organo).

Nello stile d’oriente si rappresenta la presenza del Divino; il suo eterno essere presente. Nello stile d’occidente si rappresenta invece l’accadimento; l’irruzione nella storia. Insomma, un nesso tra due visioni teologiche: quella d’oriente teo-centrica, e quella d’occidente umano-centrica.


 

Lo stile generale è quello assai riconoscibile del minimalismo religioso, tipico di Tavener. Ma la reductio ad minimum non comporta l’esclusione di complessità. Una tripartizione in forma palindroma a cui si giustappone l’extra-forma, con organo. Uno schema suddivisibile in 9 sezioni simmetricamente combinate + una extra.

schema

Ogni singola sezione (monodica o polifonica) compie il medesimo percorso: da DO a SOL. Esaminiamole una ad una.

01

Sez. 1. Monodia + Ison – (bassi) 

Sez. 1, da God is With Us (1987)

Sez. 2. Parallelismo polifonico, ripetuto sempre più forte per 3 volte (1. mp<mf, 2. mf<f, 3. f<ff) – (coro) 

Sez. 2, da God is With Us (1987)

Sez. 3. Monodia – (tenore solo) 

Sez. 3, da God is With Us (1987)

Sez. 4. Monodia – (tenore solo) 

Sez. 4, da God is With Us (1987)

Sez. 5. Monodia + Controcanto in ottava + Ison – (tenore solo + coro) 

Sez. 5, da God is With Us (1987)

Sez. 6. Monodia – (tenore solo) 

Sez. 6, da God is With Us (1987)

Sez. 7. Monodica + Controcanto in ottava in canone + Ison (la sezione più complessa) – (tenore solo + coro) 

Sez. 7, da God is With Us (1987)

Sez. 8. Analoga alla Sez. 2, ripetuto sempre più piano per 3 volte (1. f>mf, 2. mf>mp, 3. mp>p) – (coro) 

Sez. 8, da God is With Us (1987)

Sez. 9. Uguale alla Sez. 1 – (bassi) 

Sez. 9, da God is With Us (1987)

10

Nella sezione-extra (affermazione della presenza del Divino, atto di fede, visione della luce) gli accordi dell’organo squarciano il diatonismo – (coro e organo). 

Sez.-extra, da God is With Us (1987)


https://www.youtube.com/watch?v=9haxjywIDVQ


John Tavener, God is With Us (1997), per coro misto, tenore e organo

Sez. 1, da God is With Us (1987)
Sez. 2, da God is With Us (1987)
Sez. 3, da God is With Us (1987)
Sez. 4, da God is With Us (1987)
Sez. 5, da God is With Us (1987)
Sez. 6, da God is With Us (1987)
Sez. 7, da God is With Us (1987)
Sez. 8, da God is With Us (1987)
Sez. 9, da God is With Us (1987)
Sez.-extra, da God is With Us (1987)

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Alfredo Casella: Pagine di guerra

Casella-1912

Alfredo Casella – 1912

Alfredo Casella, musicista europeo ante litteram: «si può dire che sin dalla mia formazione artistica, non vivessi che per lo scopo di realizzare un’arte non solamente italiana, ma anche europea».
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il musicista torinese – poco più che trentenne – rientra dalla Francia (dove aveva compiuto l’apprendistato artistico), per assumere la cattedra di pianoforte presso il Liceo musicale di S. Cecilia in Roma.
I drammatici avvenimenti storici gli ispirano, nel 1915, la composizione di Pagine di guerra, op. 25, per pianoforte a quattro mani. Il lavoro è dedicato ai suoi mecenati, Conte e Contessa di S. Martino e Valperga.

Si tratta di quattro brevi brani, suggeriti dalla visione di riprese cinematografiche di guerra, che venivano proiettate nei cinematografi dell’epoca.
Le quattro immagini sonore (o meglio «films musicali», secondo la definizione dell’autore stesso) fotografano quattro luoghi geografici precisi, quattro aspetti emblematici dell’immane conflitto: nel Belgio, in Francia, in Russia, in Alsazia.
In generale, lo stile musicale dei pezzi risente della «manifesta la crisi che travagliava […] la mia coscienza d’artista, crisi che aveva soprattutto origine nel dubbio tonale che Schönberg aveva determinato in me». Ma le Pagine di guerra, più che della lezione di Schönberg, risentono dei “modernismi” assorbiti frequentando le avanguardie parigine di inizio secolo: stratificazioni politonali, cromatismo dissonante, parallelismi armonici, veemenza ritmica, effetti timbrici.



I. Nel Belgio: sfilata di artiglieria pesante tedesca

es1Il pianoforte percussivo evoca la parata di enormi macchine da guerra. Scuote l’osservatore la cupa mostruosità dei pachidermi d’acciaio che avanzano. Innegabile il compiacimento dell’autore che – alla pari di tanti artisti avanguardisti – qui, subisce il fascino del dualismo “macchina-modernità”.cannoneTedesco

[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/es1-Casella-PagineDiGuerra.mp3]

II. In Francia: davanti alle rovine della cattedrale di Reims

es2La vista delle rovine della Cattedrale di Reims non è accompagnata dalle sonorità fiabesche e mitologiche, come nella Cathedrale engloutie di Debussy. Ma, quella descritta, è una panoramica di sgomento di fronte al profilo spettrale delle mutilazioni subite dal monumento architettonico. L’accordo conclusivo, è una traccia di cromatismo integrale.Reims-LaCattedrale-1916

[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/es2-Casella-PagineDiGuerra.mp3]

III. In Russia: carica della cavalleria cosacca.

es3La forza d’urto dei cavalli asiatici si riversa sull’ascoltatore come un’ondata ritmica sempre più incalzante e travolgente. Si percepiscono gli echi dell’agitazione ritmica del Sacre stravinskiano.cavalleriaCosacca

[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/es3-Casella-PagineDiGuerra.mp3]

IV. In Alsazia: croci di legno…

es4Una desolante ninna nanna accompagna la vista di un cimitero di guerra. Il timbro pianistico di “una corda” produce un effetto raggelante. Si leva un canto alieno in 2/4 (una nenia infantile?), che si sovrappone all’ostinato ritmo di berceuse (6/8). Quindi, sul terminare, si coglie, in eco lontana, una straniata citazione de La Marsigliese. Reminiscenze mahleriane.cimiteroFrancese

[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/es4-Casella-PagineDiGuerra.mp3]
Puccini-1919

Giacomo Puccini, 1919

Una curiosità.

Le Pagine di guerra impressionarono Giacomo Puccini.
Racconta lo stesso Casella: «Il 12 gennaio 1919, Molinari diresse all’Augusteo le Pagine di guerra che avevo poco prima strumentato. Per la prima volta dopo il gennaio del 1916, il lavoro giunse in fondo (è vero che dura appena otto minuti) senza proteste né interruzioni né scandali. Parve questa già una enorme vittoria. Giacomo Puccini che assisteva al concerto volle conoscermi ed ebbe per questo lavoretto parole di alta lode che mi fecero grandissimo piacere. La sua conoscenza del resto del fenomeno musicale contemporaneo ­ del quale egli era attento ed acuto osservatore ­ si attestava sempre profonda e «aggiornata». Non vi era lato del problema sonoro che egli non studiasse a fondo e sul quale non fosse in grado di discutere con reale competenza. Era anche un uomo infinitamente simpatico ed affabile e rimasto modestissimo malgrado il suo enorme successo».
Quando si dice “l’onestà intellettuale”!

E’ il periodo in cui Puccini inizia a dedicarsi alla composizione di Turandot.


Puccini-Turandot

[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/es5-PucciniTurandot.mp3]


Alfredo Casella, Pagine di guerra (1915), per pianoforte a quattro mani

I. Nel Belgio: sfilata di artiglieria pesante tedesca
II. In Francia: davanti alle rovine della cattedrale di Reims
III. In Russia: carica di cavalleria cosacca
IV. In Alsazia: croci di legno…


Giacomo Puccini, Turandot (1915)

Atto I (estratto)

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Colpi di fulmine – “La bruta vigliaca”

Dante Di Nanni

Dante Di Nanni

Esistono anche in musica i cosiddetti “colpi di fulmine”? Credo proprio di si.
Fin dal primo ascolto, La bruta vigliaca mi ha incantato. Senz’altro merito dell’impeccabile e appassionata esecuzione del Coro La Rupe.
Ma non solo. Bisogna aggiungere l’impressione per un titolo così impertinente, da invettiva. Il fascino per la rievocazione di un episodio storico, che sconfina nel mito. E l’immediato apprezzamento per un arrangiamento corale indovinato e sapiente, che nulla toglie al carattere epico della ballata originale. Anzi l’esalta.
Ma andiamo con ordine.

La bruta vigliaca ricostruisce l’episodio della morte del partigiano torinese Dante Di Nanni. Si racconta che il combattente diciannovenne, pur gravemente ferito, si oppose strenuamente alle milizie nazifasciste, che assediavano il suo rifugio, al fine di catturarlo. Inoltre, si dice che fu la sua stessa donna a tradirlo («bruta vigliaca!»), rivelando ai nemici il suo nascondiglio.


Particolari leggendari, liberamente ripresi da Roberto Balocco. Un cantore che, nelle sue argute e piacevoli canson dla piòla, recupera storie, modi e tradizioni popolari piemontesi.

Ecco la canzone, nella versione originale di Balocco (le parole sono di Piero Novelli). Asciutta e leggera, ondeggia tra il modo minore e maggiore, nella tipica veste cabarettistica per voce con accompagnamento di chitarra.

R.Balocco-P.Novelli, La bruta vigliaca (1965)

Roberto Balocco con Sergio Endrigo

Roberto Balocco con Sergio Endrigo

A son rivà ch’ël ciochè a sonava
neuv e mesa e mi i j’era ‘ndurmì
quand ch’a l’han tambussà mi i sognava
d’esse ‘nsema strojassà sì con ti.

“Su, aprite o sfondiamo la porta”
a crijava un fassiston
peui “ja woll” ij tedesch ëd la scòrta
mi i sentìa, a cariavo già ‘l tron.

“Boja fauss – i son dime – cò’ faso?”
ël mè tron i l’hai ambrancà ‘n sël buffet.
I son panà, sì ma prima ch’am masso
sinch ò ses bastardon i veuj scursé!

I l’hai guardà fòra dla seradura
i l’hai viste là ‘n mes a lor con la tua facia dura.
Bruta vigliaca, it l’has tradime
come Giuda a l’ha fait con Nòst Signor
a sti sassìn it l’has vëndume
për gelosìa, vendetta d’amor.

A l’é mes bòt, a son tre ore ch’i tiro
giù dle scale a fé fòra ij tognin
ògni tant un as fa sota e i lo stiro
sta balada a va mai a la fin.

“Sei finito, orsù cessa il fuoco
– a crijava ‘l fassiston –
Puoi resistere ancora per poco”,
ciapa sì, parla ‘ncora s’it ses bon!

A-i é pì gnente da fé për salveme
i l’hai vint’ani e i son già mes sotrà
sù avanti, monté sù, vnì a pijeme,
mi i sai meuire për la libertà!

I l’hai guardà fòra dla seradura
i l’hai viste là ‘n mes a lor con la tua facia dura.
Bruta vigliaca, it l’has tradime
come Giuda a l’ha fait con Nòst Signor
a stì sassìn it l’has vëndume
për gelosìa, vendetta d’amor.

Bruta vigliaca mi i veuj dite
adess ch’i son sì,
fotù dai tognin
mai e peui mai i l’hai tradite
e anche adess che it im masse
mi it veuj bin.


Dante Conrero

Dante Conrero

L’adattamento corale di Dante Conrero – come dicevo – aggiunge pathos al brano.
Ci sono alcuni particolari della scrittura musicale, sui quali vale la pena soffermarsi.
Cominciamo dall’incipit. La voce del solo irrompe, sostenuta da un pedale di dominante. Un’apertura in cui la tensione si accumula e si scarica solo dopo alcune battute. Un coup de théâtre.
Quindi, la ricca tavolozza delle dinamiche (dal pianissimo al fortissimo); la variegata alternanza delle disposizioni e dei pesi della massa corale (solo – tutti); il robusto spessore delle frasi omoritmiche; l’accompagnamento essenziale e leggero, durante gli interventi del solista.
Infine, la breve coda rapsodica, di quasi libera invenzione. Gli scarti armonici, che rinviano l’epilogo. Cede l’indignazione dello stremato protagonista. L’amore s’impone anche sul tradimento («e anche adess che it im masse, mi it veuj bin»).

Pochi tratti, che evidenziano uno stile compositivo esperto e raffinato.
Un musicista tutt’altro che trascurabile, Dante Conrero.

es. 1 - Incipit

Es. 1 – Incipit

Es. 2 - Coda

Es. 2 – Coda

R.Balocco-P.Novelli (arr. per coro virile di Dante Conrero), La bruta vigliaca, Coro La Rupe, D. Monetta, dir. (Fermo, 2015)


R.Balocco-P.Novelli, La bruta vigliaca (1965)

R.Balocco-P.Novelli (arr. per coro virile di Dante Conrero), La bruta vigliaca, Coro La Rupe, D. Monetta, dir. (Fermo, 2015)

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Sillabari corali: “F”

THE FAYRFAX CAROL

per coro misto a cappella (1997)

di Thomas Adès

The Fayrfax Carol non è solo un piccolo gioiello, di raffinata fattura musicale, ma un brano che, per la scelta del testo letterario, invita l’ascoltatore ad una riflessione che va oltre un’abituale e rassicurante considerazione sulla natività di Cristo.

Il testo è quello di un’antica ninna nanna natalizia di autore anonimo, contenuta nel Fayrfax Manuscript. Una raccolta di musiche britanniche, risalente al 1505 circa, alla quale appartengono antiche carols polifoniche a 3-4 voci.

“Ah, my dear son“, The Fayrfax Manuscript

Nel testo scelto da Adès, il poeta racconta di aver sognato un dialogo tra i membri della Sacra Famiglia. Maria e Giuseppe lamentano gli stenti che deve sopportare il piccolo nato; ma il fanciullo ricorda ai genitori le loro umili origini. Inoltre, ribadisce che il suo destino è quello di morire sulla croce, come da volontà di Dio Padre. Una carola insolita, che prospetta la sorte di Gesù. Il suo futuro proiettato verso la passione e il martirio. Un collegamento concettuale, insomma, tra l’immagine del Divin Fanciullo e quella dell’Ecce Homo.

Sotto l’aspetto musicale, The Fayrfax Carol si presenta come l’alternanza di due motivi. Il primo è quello di una ninna nanna. Una dolce – e un po’ malinconica – melodia. Salti discendenti di sesta e di settima, che circolano tra le varie sezioni vocali, in un delicato contesto armonico. Sono le parole che Maria canta ripetutamente al suo Figliolo. Diventano una specie di refrain.

estratto n.1, da The Fayrfax Carol (1997)

Il secondo motivo è invece caratterizzato da un ripetuto balzo ascendente di settima minore, in ritmo pastorale.

estratto n.2, da The Fayrfax Carol (1997)

Questo tema secondario introduce, di volta in volta, le immagini più forti e cariche di emozione, come quella angosciosa della prefigurazione del Calvario.

estratto n.3, da The Fayrfax Carol (1997)

Il brano si chiude con la ripresa omoritmica e rallentata del refrain e una tenera cadenza conclusiva.

estratto n.4, da The Fayrfax Carol (1997)

Adès ha composto The Fayrfax Carol su commissione del coro del King’s College di Cambridge. Lo stesso coro ha eseguito per la prima volta il pezzo, in occasione della  Veglia del Natale (24 Dicembre 1997), sotto la direzione di Stephen Cleobury.



Thomas Adès, The Fayrfax Carol (1997), per coro misto a cappella

estratto n.1, da The Fayrfax Carol (1997)
estratto n.2, da The Fayrfax Carol (1997)
estratto n.3, da The Fayrfax Carol (1997)
estratto n.4, da The Fayrfax Carol (1997)

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Sillabari corali: “E”

ÉJSZAKA – REGGEL

per coro misto a cappella (1955)

di György Ligeti

Sono le ultime composizioni del periodo ungherese, prima del volontario esilio in occidente. Nel definitivo trasferimento, Ligeti portò con sé questi due brani, insieme a poche altre partiture. Éjszaka – Reggel [Notte – Mattino] manifestano, in embrione, alcuni tratti inconfondibili del linguaggio del compositore ungherese. Disse, infatti, lo stesso Ligeti: «stilisticamente, questi due piccoli pezzi corali hanno un significato cruciale, poiché documentano esattamente il passaggio dalla tradizione bartókiana alla formazione di un mio stile maturo – polifonia complessa e superfici sonore». Si osservi il profilo della texture di Éjszaka. Sembra una pagina di Volumina.Ligeti-Ejszaka-schema-1

Il testo di Éjszaka – Reggel è tratto da un componimento poetico di Sándor Weöres. I versi – ricchi di immagini altamente evocative – possono essere letti anche in chiave simbolica: fine di un’era oscura e sopraggiungere di un’era luminosa. L’opposizione dei due significati letterari è associabile alle contrapposizioni nette della materia musicale, carattere specifico dello stile di Ligeti.

Foto di Paolo Carta Fano

Foto di Paolo Carta Fano

Éjszaka

Una foresta di spine: silenzio immenso,
Nel silenzio che mi circonda, il mio
cuore batte.
Notte

Foto di Paolo Carta Fano

Foto di Paolo Carta Fano

Reggel

Ding, dong, già suonano le campane all’alba.
Il giorno si rischiara al suono del chichirichì:
E’ mattino! Ding, dong! E’ già mattino!


Éjszaka si apre con lo sviluppo di un climax canonico a parti strette per terze parallele; diatonico, ma fortemente dissonante. L’effetto sonoro si avvicina a quello di un illusorio continuum statico (anticipazione di una tecnica che lo stesso autore denominerà “micropolifonia”): «rengeteg tövis» [una foresta di spine]. Al raggiungimento del culmine (fortissimo), un improvviso scarto dinamico-timbrico determina un’immediata svolta in ambito pentatonico: «csönd» [silenzio]. Si tratta di un “gesto-evento” sonoro destinato a diventare un connotato stilistico tipico del linguaggio di Ligeti.Ligeti-Ejszaka-Reggel-Ex1

estratto n.1, da Éjszaka (1955)

Lo stringato recitativo dei soprani: «Én csöndem szívem dobogása…» [Nel silenzio che mi circonda, il mio cuore batte…] richiama le spettrali sonorità notturne bártokiane. Appena un accenno melodico-espressivo, prima del profondo tonfo delle voci maschili, con cui si conclude il pezzo: «Éjszaka».

estratto n.2, da Éjszaka (1955)

Passiamo a Reggel. Dopo l’echeggiare di un vivace scampanìo, ecco un’altra tipica, netta cesura. Una filigrana rapida e leggera di note ribattute: «Az idöt bemeszeli a korai kikeriki» [Il giorno si rischiara al suono del chichirichì], un’anticipazione di futuri pattern “meccanico-ritmici”, complessi, illusori ed allucinanti.

Ligeti-Ejszaka-Reggel-Ex3

estratto n.3, da Reggel (1955)

Un ultimo richiamo (questa volta ancor più ravvicinato) dei rintocchi iniziali. Potenti ottave in andamento allargato, incorniciate da “note-pedale” (la), in fortissimo. Quindi, conclusione luminosa sulla quinta vuota re-la.

estratto n.4, da Reggel (1955)


Topoi sonori ligetiani

“Micropolifonia”, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 1

estratto n.5, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 1

“Scarto timbrico-dinamico”, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 3

estratto n.6, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 3

“Pattern meccanico-ritmico”, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 2

estratto n.7, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 2



György Ligeti, Éjszaka – Reggel (1955), per coro misto a cappella

estratto n.1, da Éjszaka (1955)
estratto n.2, da Éjszaka (1955)
estratto n.3, da Reggel (1955)
estratto n.4, da Reggel (1955)
estratto n.5, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 1
estratto n.6, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 3
estratto n.7, da Drei Phantasien nach Friedrich Hölderlin (1982), n. 2

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Sillabari corali: “D”

DEMOS GRACIAS AL SEÑOR

per coro misto e percussioni (2000)

di Osvaldo Golijov

osvaldo_golijov

Si tratta di un brano contenuto ne La Pasión según San Marcos (2000).

In generale La Pasión di Golijov – moderna trasposizione delle monumentali passioni bachiane – si presenta come un grande affresco sonoro ambientato nel continente sudamericano. Nella partitura gravitano le voci, i ritmi e le percussioni, tratti soprattutto dalla tradizione cubana e brasiliana; s’immaginano le processioni dei «cori di tre villaggi che scendono dalla sommità delle montagne» (Golijov); emerge il background originario africano della musica latino-americana.

Il testo de La Pasión è in lingua spagnola, ma – come afferma lo stesso autore – si tratta di una lingua “africanizzata”, nel senso che – nell’articolazione delle frasi più insistenti – prevale l’accento sull’ultima sillaba («Demos Gracias al Senór»), ulteriore enfatizzazione ritmica anche nell’uso della parola.

Demos gracias al Señor
que su amor es eterno.
Demos gracias al Señor
y alabemos su nombre,
cantemos al Señor
que su amor es eterno
él es el Salvador.
Aunque tiemble la tierra
demos gracias al Señor
que su amor es eterno
él es el Salvador,
él reina allá en lo alto.
Cuando viene la muerte
y me enreda en sus lazos,
cuando me hallo preso
de miedo y dolor
y la angustia me alcanza
yo le canto al Señor.
Tiembla, tiembla tierra…
Aunque tiemble la tierra
y muerte viene a buscarme
yo te canto Señor
alabemos al Señor
cantamos, alabamos,
te damos las gracias Señor.


In Demos Gracias al Señor le voci del coro sono accompagnate dal ritmo di tre tamburi, 2 bombo leguero della tradizione argentina (uno in primo piano, l’altro subalterno) e uno spring drum che fa da risonanza. La scrittura corale è diatonica. Il pezzo si apre con la fervente e devota intonazione in pianissimo dei contralti.

Golijov-es1

La pressante scansione sillabica delle parole rimane sospesa – «come un’ondata» – su lunghi suoni, per la cui durata emerge il pattern ritmico dei tamburi.

Golijov-pattern

estratto n.1

Lo spessore della sonorità aumenta con l’aggiunta di un “aureola” di altri suoni lunghi, che circondano la febbrile scansione del testo.

Golijov-es2

estratto n.2

Demos Gracias al Señor è un pezzo che cattura per la forte tensione che lo pervade. Non cede mai il senso di sgomento dei fedeli di fronte alle avversità (le minacce della natura, la morte incombente, la paura, il dolore, la tristezza), né la loro speranza e ferma fiducia nella misericordia di Dio. Anzi, questo umano sentimento di opposizione cresce e si rafforza. Dal pianissimo iniziale, alle clamorose aperture in ottava, all’incalzante e strepitosa perorazione omoritmica conclusiva.

estratto n.3

L’apoteosi è raggiunta quando le voci “gridano” ripetutamente in eclatante omoritmia «Anche se la terra trema e la morte viene a cercarmi, io ti canto, o Signore…»

Golijov-es3

estratto n.4


Las-Abuelas-de-Plaza-de-Mayo

Golijov definisce questo brano una variazione-corale sulla canzone Todavia Cantamos di Victor Heredia. Una canzone del 1984 dedicata ai desaparecidos della guerra sucia argentina. La corrispondenza con questa fonte di ispirazione si percepisce sia sotto il profilo melodico, che sulla base di una certa analogia sul piano concettuale.

Todavía cantamos, todavía pedimos,
todavía soñamos, todavía esperamos,
a pesar de los golpes
que asestó en nuestras vidas
el ingenio del odio,
desterrando al olvido
a nuestros seres queridos.
Todavía cantamos, todavía pedimos,
todavía soñamos, todavía esperamos,
que nos digan adónde
han escondido las flores
que aromaron las calles,
persiguiendo un destino
¿Dónde, dónde se han ido?
Todavía cantamos, todavía pedimos,
todavía soñamos, todavía esperamos,
que nos den la esperanza
de saber que es posible
que el jardín se ilumine
con las risas y el canto
de los que amamos tanto.
Todavía cantamos, todavía pedimos,
todavía soñamos, todavía esperamos,
por un día distinto,
sin apremios ni ayuno,
sin temor y sin llanto,
porque vuelvan al nido
nuestros seres queridos.
Todavía cantamos, todavía pedimos,
Todavía soñamos, todavía esperamos…



Osvaldo Golijov, Demos Gracias al Señor (2000), per coro misto e percussioni

estratto n.1
estratto n.2
estratto n.3
estratto n.4



Victor Heredia, Todavia Cantamos (1984)

V. Heredia, Todavia Cantamos

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“Sui Monti Scarpazi” … dall’altra e da questa parte

Si dice – a proposito di Sui Monti Scarpazi – nell’omonima raccolta pubblicata dai fratelli Pedrotti, nel 1973: «In Romania, nel 1917, fra i giovanissimi trentini della classe 1899 arruolati nel reparto dell’esercito austriaco, nacque (sic!) questo triste canto che, riportato in patria da uno dei pochi superstiti, era spesso cantato da una famiglia vicina al nucleo originario da cui nacque il Coro della SAT […]»

Ma nell’archivio fonografico dell’esercito austro-ungarico, messo insieme da Leo Hajek, ci imbattiamo in questo documento. La Guerra, canzone triestina, raccolta il 3 marzo 1916 a Radkersburg, egregiamente eseguito in guisa polifonica.

la-guerra-sheet

Questa tomba racchiude le spoglie
e d’un figlio che più non vedrò;
questa tomba i sospiri raccoglie
d’una madre che tanto l’amò.

Lo allevai tra sospiri ed affanni
il destino poi volle così:
Non appena compiuti vent’anni
ed in guerra innocente morì!

Quando all’alba si apron le porte
al cimitero son prima ad entrar,
dove regna sovrana la morte,
dove il dolore m’invita a pregar.

“Questa tomba” (La Guerra), dall’Archivio Fonografico dell’Esercito Austro-Ungarico, 1916

Il contenuto e la melodia sono in sostanza analoghi a Sui Monti Scarpazi, con la differenza che, nel caso del canto triestino, trattasi del lamento di una mamma. La “scandalosa” denuncia antimilitarista contenuta nella strofa «Maledeta la sia questa guera […]» è, invece, sinteticamente racchiusa, nella versione triestina, nella più discreta espressione «ed in guerra innocente morì!»

E’ curioso osservare come un canto comunemente diffuso tra le genti che stavano “dall’altra parte” (da Trento a Trieste), sia divenuto assai popolare “da questa parte”. Ribaltamenti collaterali, causati dall’esito della guerra? Effetto della larga divulgazione del repertorio del Coro della SAT?


Da quando, nel 2002, ho iniziato a metter mano ai canti alpini – l’idea non fu mia, ma dell’amico Tano Benati che mi “sfidò” a combinare quel tradizionale repertorio “montanaro” con la “classicità” del quartetto d’archi – ho avuto riscontri controversi. Accanto all’apprezzamento da parte di alcuni (pochi), c’è stata l’indifferenza o lo sdegnato rifiuto da parte di altri (tanti). Va da sé, quindi, che non credo di avere mai ricevuto parole di buona considerazione da una sedicente “penna nera”, o appartenente a coro alpino. Pazienza!

Ricordo con piacere, invece, quando al termine di una delle prime esecuzioni del mio arrangiamento di Sui Monti Scarpazi, ho colto le parole, che un anziano spettatore – seduto giusto alle mie spalle – rivolgeva alla sua signora: «Nol sarà ‘l solito “Monti Scarpazi”, ma ‘l pianto de chela viola, in ultimo, ‘l te cava l’anima!» («Non sarà il solito [arrangiamento] di Monti Scarpazi, ma, al termine, il pianto di quella viola, è commovente»). Quell’anonimo spettatore mi ha dato molto conforto.

donna-GG1918-Montello

Quando fui sui monti Scarpazi
miserere sentivo cantar
t’ho cercato fra il vento e i crepazi,
ma una croce soltanto ho trovà.

O mio sposo eri andato soldato
per difendere l’imperator,
ma la morte quassù hai trovato
e mai più non potrai ritornar.

Maledeta la sia questa guera
che mi ha dato sì tanto dolor,
il tuo sangue hai donato a la tera,
hai distrutto la tua gioventù.

Io vorei scavarmi una fossa
sepelirmi vorei da me
per poter colocar le mie ossa
solo un palmo distante da te.

CoroAlessandria-MBerrini-Cremona2014

M. Zuccante, Sui Monti Scarpazi, per coro e quartetto d’archi, Coro da camera del Conservatorio di Alessandria, Marco Berrini, direttore – live, Cremona, 25 maggio 2014


“Questa tomba” (La Guerra), dall’Archivio Fonografico dell’Esercito Austro-Ungarico, 1916
M. Zuccante, Sui Monti Scarpazi, per coro e quartetto d’archi, Coro da camera del Conservatorio di Alessandria, Marco Berrini, direttore – live, Cremona, 25 maggio 2014

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Sillabari corali: “C”

CHÖRE FÜR DORIS

per coro misto a cappella (1950)

di Karlheinz Stockhausen

Parliamo di un’opera di apprendistato. Un’opera che a stento lascia intravedere gli sviluppi della musica di Stockhausen, sulla rotta dell’avanguardia più radicale. Eppure, un’opera eloquente della padronanza tecnica di un giovane musicista, ancora indeciso sul suo futuro di compositore. Un’opera segnata dall’influenza della tradizione corale novecentesca tedesca (in particolare nel segno di Paul Hindemith e di Frank Martin, il quale fu, per un breve periodo, insegnante di composizione di Stockhausen). Un’opera-prova di un arte, che – pur spinta successivamente ai limiti della sperimentazione (e della provocazione!) – si fonda su un mestiere ancorato a solide basi storico-stilistiche. Un’opera, che conferma quel durevole favore del compositore tedesco verso l’espressione corale.

Chöre für Doris è uno dei rari lavori giovanili che Stockhausen ha voluto inserire nel catalogo ufficiale delle sue opere. E’ un trittico per coro a cappella su testi di Paul Verlaine (messi in musica nella traduzione in tedesco), ed è dedicato a Doris Andreae, sua prima moglie.

Era il 1950, quando l’allora ventiduenne Karlheinz Stockhausen – studente presso il Conservatorio di Colonia – compose questi tre pezzi per il coro della scuola, nel quale egli stesso cantava. Ma Chöre für Doris rimase ineseguito. Soltanto nel 1971, avvenne la prima esecuzione di questa composizione, a Parigi, sotto la direzione di Marcel Couraud.

I Tre Cori sono: Die Nachtigall (L’usignolo), con soprano solo; Armer junger Hirt (Un povero pastorello); e Agnus Dei.


L’usignolo di P. Verlaine (da “Paesaggi tristi”)

Come volo strepitante di uccelli eccitati,
tutti i miei ricordi s’abbattono su di me,
s’abbattono nel giallo fogliame del mio cuore
che contempla il suo ricurvo tronco d’ontano
nello stagno viola dell’acqua dei Rimpianti
che lì vicino scorre malinconica,
s’abbattono, e poi il frastuono malvagio
che un’umida brezza salendo placa,
a poco a poco nell’albero si spegne
e in un istante non si sente più nulla,
più nulla tranne la voce che celebra l’Assente,
più nulla tranne la voce – languida! –
dell’uccello che fu il mio Primo Amore,
che ancora canta come il primo giorno;
e nel triste splendore di una luna
che s’innalza pallida e solenne,
una notte d’estate malinconica e greve,
piena di silenzio e di oscurità,
culla sull’azzurro che un dolce vento sfiora
l’albero che freme e l’uccello che piange.

estratto n.1

Un amore perduto, impersonato dal canto melodioso e sensuale dell’usignolo (soprano solo). Voce solitaria, annegata nel malinconico e silenzioso paesaggio naturale notturno, appena rischiarato dal pallido e torbido chiarore lunare.


A poor young shepherd di P. Verlaine (da “Acquerelli”)

Ho paura d’un bacio
come di un’ape.
Soffro e veglio
senza trovare pace:
ho paura d’un bacio!
Eppure amo Kate
e i suoi occhi leggiadri.
È delicata,
affilata e pallida.
Oh! come amo Kate!
Mi è promessa,
per mia grande fortuna!
Ma quale impresa
essere un amante
accanto a una promessa!
È San Valentino!
Devo e non oso
dirle al mattino…
che cosa terribile
San Valentino!
Ho paura d’un bacio
come di un’ape.
Soffro e veglio
senza trovare pace,
ho paura d’un bacio!

estratto n.2

Un pastorello (eterno Cherubino, «devo e non oso!») teme il bacio dell’amata come la puntura di un’ape. Il suo tormento nel giorno di S. Valentino si traduce in un rapido, vivace e danzante episodio ritmico.


Agnus Dei di P. Verlaine (da “Liturgie intime”)

L’agnello cerca l’erba amara,
è il sale e non lo zucchero che anela
il suo passo è il rumore della pioggia sulla polvere.
Quando vuole qualcosa, nulla lo ferma,
Brusco, si adombra sbattendo la testa
Poi bela alla madre accorsa inquieta …
Agnello di Dio, che salvi gli uomini,
Agnello di Dio, che ci conti e ci nomini,
Agnello di Dio, abbi pietà per quello che siamo.
Dacci la pace e non guerra,
O Agnello terribile nella tua giusta rabbia.
O tu, solo Agnello, Dio l’unico figlio di Dio Padre.

Stockhausen-ChöreFürDoris-es3

estratto n.3

Cresce il fervore nelle invocazioni all’Agnello di Dio («Lamm Gottes…»), e contestualmente s’innalza di un semitono l’intonazione di ciascun verso. Sono le triplici invocazioni che precedono la supplica conclusiva, parafrasi del dona nobis pacem («Gib uns den Frieden, nicht den Krieg bescher»).



Karlheinz Stockhausen, Chöre für Doris (1950), per coro misto a cappella

estratto n.1
estratto n.2
estratto n.3

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