Non ricordo chi mi apprese della morte di Piergiorgio Righele. Ma ricordo il clima, la luce di quel tardo pomeriggio di settembre. Fu una notizia incredibile, sconcertante.
Piergiorgio Righele – stimatissimo maestro di coro e “profeta” di una nostrana renaissance dell’arte della polifonia – è mancato improvvisamente 17 anni fa, allorché la sua presenza competente e sollecita, si era già consolidata come riferimento primario nel mondo corale veneto e nazionale.
Aveva guadagnato ottima reputazione ed autorevolezza grazie ai successi conseguiti nei concorsi internazionali e alle apprezzate interpretazioni di parecchie e ragguardevoli pagine della polifonia corale, alla guida de I Cantori di Santomio, la compagine vocale da lui stesso fondata.
Era persona fiera, orgoglioso della sua formazione da autodidatta, quasi compiaciuto di operare a margine degli ambienti musicali professionali, pronto a mettersi in gioco ed incline a manifestare libertà di pensiero.
Viene da mettere in relazione la cura che, nelle sue interpretazioni musicali, era dedicata al cesello della parola, con il suo gusto affabulatorio, con la sua vocazione ad impadronirsi della scena attraverso il discorso. Parlava molto nell’istruire i cantori, nutriva la lezione di ragionamenti, immagini e divagazioni. Dedicò un’intera seduta di prove del coro, che all’epoca dirigevo, nella ricerca del profilo prosodico più convincente per l’intonazione della frase di apertura di un responsorio di Marcantonio Ingegneri: «Vinea mea electa».
Frequentavamo insieme un corso di formazione per direttori di coro. Dopo i primi interventi, Piergiorgio manifestò un certo fastidio per la mancata attenzione da parte dei docenti alle problematiche dell’articolazione della parola. Scavalcammo una finestra sul retro e abbandonammo il seminario. Per l’intero pomeriggio mi accompagnò a spasso per Vicenza. Un giro per le chiese, le cantorie e le sacrestie della città. La mia passione per la musica sacra maturò maggiormente durante quell’escursione sotto la sua guida, che non all’ascolto di dotte dissertazioni.
La sua identità vicentina coincideva con la raffinatezza di gusto (ma sorvoliamo sulla debolezza per le patatine fritte con maionese!), il garbo nell’accostarsi alle persone e la malcelata cadenza dialettale. A casa mia passò un’intera cena a celebrare – con il compiaciuto consenso di mio padre – la superiorità in campo storico-urbanistico, artistico e culturale della palladiana Vicenza nei confronti della “barbara” Verona.
Piergiorgio Righele frequentava preferibilmente e con esiti più convincenti il repertorio del canto gregoriano e della polifonia classica e romantica. Più raramente, ma con piacere, metteva la sua arte anche a disposizione dei giovani compositori. Forse I Cantori di Santomio mi ricordano come “Zuccante, quello de I Re Magi”, una breve composizione per voci femminili, che trovava posto nella scaletta dei loro concerti natalizi. Io, invece, ricordo più volentieri l’esecuzione di Lu cuccu, un lavoro che mi ha aiutato ad acquisire consapevolezza artistica ed autonomia stilistica. Mi disse Piergiorgio: «Ho accettato di eseguire Lu cuccu perchè è una tua composizione. Ma se fosse stato per quell’altalena di 7/8, 4/8, 5/8! …».
Grazie, Piergiorgio!
Mauro Zuccante, “Lu cuccu”, I Cantori di Santomio, P. Righele dir., live, Trento 1991
[audio:https://www.maurozuccante.com/wordpress/wp-content/audio/MZuccante-LuCuccu-CantoriDiSantomio-PRighele.mp3]